Numero 13/14 - 2017

  • Numero 2 - 2010
  • Recensioni

Douglas Hofstadter, Anelli nell’Io, Mondadori 2007

di Andrea De Dominicis

508 pagine

Che cosa c’è al cuore della coscienza? Cosa costituisce ciò che chiamiamo identità, che ci accompagna (apparentemente) da sempre e a cui siamo così abituati da non suscitarci domande? E che rapporto esiste tra coscienza e corpo, tra fenomeno psicologico e corredo fisiologico, ovvero tra mente e materia?

Douglas Hofstadter non è nuovo ad operazioni rischiose ed ambiziose quale quella tentata con questo libro. Già Gödel, Escher, Bach ( che vinse il premio Pulitzer per la saggistica nel 1984) aveva ottenuto un ampio consenso di critica e pubblico [1]

Al cuore di questo suo lavoro, che riprende in forma decisamente più completa e matura i temi già contenuti in Gödel, Escher, Bach, c’è il problema del costituirsi dell’identità, i meccanismi che sottostanno alla costruzione di un fenomeno così complesso e al tempo stesso scontato quale quello dell’Io.

Capire cos’è la coscienza significa rispondere a domande fondamentali del tipo: Cos’è la personalità? Come facciamo a sapere che Noi, siamo Noi?E che rapporto esiste tra i differenti “strati” che costituiscono il solido (e al tempo stesso effimero) costituirsi dell’Io?

Questi sono alcuni degli interrogativi più affascinanti (ma anche inquietanti) cui da secoli tutte le scienze umane, dalla filosofia alla (più recente) psicologia, cercano di dare risposta.

Il problema mente-corpo (le res cogitans ed extensa di Descartes) costituisce uno dei temi paradigmatici della ricerca scientifica, un dibattito sempre vivace ed alimentato dalle continue scoperte in ambito neurofisiologico [2].

Possiamo ricondurre ciò che chiamiamo coscienza (nel senso di consapevolezza) all’esito di milioni (miliardi!) di interazioni tra particelle più o meno elementari (dendriti, sinapsi, neuroni e giù fino alle molecole dell’acido gamma-amminobutirrico)?

O dobbiamo postulare una sostanziale distinzione, lasciando a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio?

Ma anche volendo conciliare queste due visioni, ci rimane il problema di spiegare dov’è il traduttore, ovvero come possano trasformarsi le proposizioni (saranno così?) generate nel linguaggio macchina [3] delle microscopiche interazioni a livello molecolare, nelle fantasiose e drammaturgiche narrazioni che caratterizzano l’esperienza psicologica.

La personalità e l’identità umana sono concepite come costruzioni assiali, attorno a nuclei cognitivo-affettivi stabili e consolidati. Per decenni la ricerca e la pratica clinica si sono sforzate di confermare queste visioni (dalle entità stratificate di Freud- e il suo Principio di Realtà- al Sé di Otto Kernberg [4] costruito e coltivato tutto attorno ad un nucleo narcisista), contribuendo a consolidare quella che Hofstadter chiama Io-ità.

De-costruirla sembra il suo obiettivo, e si tratta di un’operazione affascinante e rischiosa allo stesso tempo. Lo fa delicatamente, affrontando dapprima il problema della linea di demarcazione tra chi (o cosa) possegga una coscienza (che l’autore chiama anche anima) e chi (o cosa) no. Stabilire, ad esempio, quanta coscienza possegga un cane (o un umano senile) non è così scontato, anche se è raro soffermarsi su questo tipo di problemi nella vita quotidiana.

Lo studio delle strutture potrebbe aiutarci. Se ad esempio riuscissimo a descrivere accuratamente il funzionamento  del cervello, potremmo trovare lì una risposta per aiutarci a definire cosa è la coscienza e cosa significa possederne una maggiore o minore quantità.

Ma lo studio degli elementi microscopici ci aiuterebbe davvero a spiegare l’esperienza di avere coscienza? Esiste una molecola della decisione o della consapevolezza? Un desiderio, un’idea, un’aspirazione sono causate dall’eccitazione di un singolo neurone (o un gruppo di neuroni)?

Sappiamo che non può essere così e, soprattutto, che quel livello di spiegazione (dove nessuna informazione andrebbe persa) non è alla nostra portata (noi, esseri umani, siamo molto più attrezzati a percepire e comprendere i fenomeni ad un livello più alto e generale, quello dei concetti e delle idee).

Affrontato in questo modo, il problema della causalità della coscienza sembrerebbe trovare soluzione nell’analogia tra linguaggio macchina e linguaggio software, dal momento che anche in questo caso è proprio il livello di astrazione del secondo che siamo in condizioni di comprendere e manipolare.

Ma nel caso della coscienza la questione non è proprio così: i patterns di alto livello (le idee, le astrazioni, le emozioni) possono attivare risposte in forma apparentemente autonoma e semmai dobbiamo rivedere il concetto di causalità lineare a favore (almeno per ora) di una causalità circolare.

E’ il caso, ben noto a tutti, del potere causale dei fenomeni collettivi (le ideologie, le religioni, gli ideali o più semplicemente del conformismo sociale e della responsabilità diffusa) che ci dimostrano come e quanto non sia necessario ricorrere ad una causalità verso il basso per spiegare l’esperienza psicologica e il comportamento umano.

Hofstadter  dimostra la strana irrilevanza dei livelli più bassi di spiegazione che, benché siano responsabili al 100% di ciò che accade, siano nondimeno inutili per spiegare la nostra esistenza di animali la cui percezione è limitata al mondo quotidiano degli oggetti macroscopici.

Sgombrato il campo dai rischi di riduzionismo e stabilite irrilevanza e responsabilità delle costituenti fisiologiche, ci rimane il ben più spinoso problema di descrivere come possa, un groviglio enormemente complesso di minuscole componenti e di reazioni dinamiche, far emergere quella che chiamiamo coscienza corredata dall’affascinante mondo dell’esperienza psicologica soggettiva.

Uno dei tratti distintivi di ciò che chiamiamo coscienza sembra risiedere nella possibilità di dare avvio a corsi d’azione, ovvero decidere, avere scopi, in altre parole il suo essere intenzionale.

Probabilmente è in questa caratteristica distintiva (sarà poi così?) che possiamo trovare qualche indicatore per discriminare il possesso o meno (e in quale quantità) di ciò che chiamiamo coscienza.

E di fatto, il comportamento intenzionale è uno dei primi e principali campi della ricerca psicologica. Tollman [5] vi ha dedicato gran parte del suo lavoro e tutte le teorie dell’human  agency [6] pongono a premessa l’intenzionalità come tratto caratteristico dell’umano.

Ma in cosa consiste questa capacità di orientarsi ad uno scopo da cui deriva la possibilità di scegliere (e quindi la fondamentale questione del libero arbitrio)?

Da questo punto in poi, la riflessione di Hofstdater diventa sempre più originale, richiedendo al lettore qualche sforzo supplementare di astrazione.

Gli anelli a feedback sono il fenomeno su cui concentra l’attenzione, utilizzando come primi e semplici esempi i circuiti a termostato, i palloni da football nel loro movimento, i girasoli e gli scarichi idraulici. Tutti esempi di circuiti a feedback, ovvero sistemi che modificano il proprio comportamento a seconda delle risposte (feedback) che ricevono dall’ambiente.

Se è ragionevole evitare di utilizzare descrizioni teleologiche per questo tipo di sistemi elementari, ciò diventa molto più difficile quando ci si trova di fronte  a sistemi il cui feedback è più sofisticato e i suoi meccanismi più nascosti. Così, è la presenza di un anello a feedback a costituire per noi umani una fortissima pressione a far slittare il livello di spiegazione da quello privo di scopi della meccanica (in cui a muovere le cose sono le forze) a quello della cibernetica (quello in cui a far muovere le cose sono i desideri).

La dimostrazione di come, dal consolidarsi lento, progressivo e inesorabile di anelli a feedback sempre più sofisticati e complessi (riflessioni di Noi su di Noi, riconduzione degli effetti delle nostre azioni non già a sistemi di forze ma a intenzioni, ad esempio) emerga ciò che chiamiamo (e sperimentiamo) come Io-ità, prende la strada dell’argomentazione matematica (il teorema di Gödel [7] tanto caro a Hofstdater). Non si spaventi il lettore: le dimostrazioni sono trasparenti ed è immediato ricondurre la riflessione ad altri temi, ben noti in psicologia (il senso dell’umorismo, il gusto del paradosso, la personalità rigida) o nel più ampio novero delle scienze umane (l’autopoiesi di Maturana e Varela [8], la complessità emergente di Morin [9]).

La sintesi di Hofstdater è originale e coerente con l’esperienza di elusività che facciamo quando ci avviciniamo troppo alla consistenza della nostra personalità.

…Era quasi come se questo elusivo fenomeno chiamato “coscienza” si sollevasse “tirandosi su per le stringhe delle scarpe”, quasi come se si costituisse dal nulla, e poi tornasse a disintegrarsi nel nulla non appena lo si guardava più da vicino… [10]

Ampi stralci autobiografici attraversano questo saggio. La prematura scomparsa della moglie apre il campo alla dimensione relazionale della personalità, finora chiusa nell’autoreferenzialità di autopoietica memoria.

Se l’Io-ità è esperienza soggettiva, fenomeno emergente del ricorsivo consolidarsi di anelli riflessivi derivanti dall’esperienza, cosa ne rimane alla fine della vita?

Siamo destinati a disgregarci nella nostra dimensione fisiologica e a scomparire psicologicamente così come siamo emersi?

Senza indugiare malinconicamente, Hofstdater utilizza la sua esperienza dolorosa per argomentare su quelli che chiama i bagliori che circondano l’identità.

Quanto più stretti ed intensi e continui sono i vissuti condivisi fra umani tanto più questi entrano a far parte del campo di esperienza degli altri, lasciandone così vivere il ricordo.

Questi bagliori si affievoliscono nella misura in cui scompaiono coloro che hanno partecipato alle reciproche esperienze.

Esiste a nostro avviso una seconda chiave di lettura di questo saggio, che potremmo definire etica o forse antropologica nonostante l’autore sia sempre attento a non travalicare il limite delle scienze cognitive.

La questione dell’illusorietà del fenomeno Io-ità, la riflessione su ciò che resta dell’identità dopo la morte (ovvero i ricordi, cristalli di esperienza sedimentati nelle altre Io-ità) sembrano riportarci al cogente dibattito novecentesco sullo scetticismo filosofico.

Ci sembra allora inevitabile una riflessione sull’umano e sulle sue fondamentali responsabilità.

…Resta da sottolineare il carattere per molti versi “ingiustificabile”-e non necessario o naturale- delle forme di vita umane; il fatto che, se le forme di vita sono riprodotte, è  perché noi le riproduciamo quotidianamente attraverso le nostre attività e pratiche. E la circostanza che le forme di vita dipendano dunque anche da noi (e sono pertanto qualcosa di potenzialmente contingente, e in una certa misura arbitrario), non è, per lo scettico in noi, constatazione indolore.

Tocchiamo così l’esito più radicale dell’impulso scettico: quello di esentarci dalle nostre prime responsabilità, non solo etiche quanto antropologiche: la responsabilità di partecipare ai giochi linguistici, esprimendo i miei stati e riconoscendo quelli altrui, significando qualcosa con le mie azioni e reagendo a quelle altrui, insomma, trovando nuovi attori disposti a interagire con me, mettendomi in rapporto con altri miei simili, in definitiva perpetuando una forma di vita.

Se non “rispondiamo” e “corrispondiamo”, gli altri e i loro atti restano privi del significato che noi diamo loro nell’identificarli, come se fossimo alienati da quella forma di vita. Il motivo per cui tale responsabilità vorremmo forse non averla, va rintracciato nel disagio per la scoperta che le nostre forme di vita sono (per molti versi) soltanto nostre, ossia che il loro tessuto connettivo dipende anzitutto dal mio rispondere ed esprimere, incoraggiare e trattenere, istruire e riprendere, dare esempi e correggere, rimproverare e perdonare.

La scoperta che l’agire e il dire umano riposano in ultima istanza su nulla di più — ma anche nulla di meno — di questo complesso e turbinante insieme di espressioni e reazioni. Si tratta di una visione tanto semplice quanto difficile (da accettare), e tanto difficile in quanto (e perché) ci appare del tutto banale e scontata, impressionante nella semplicità della fondazione che attribuisce alle nostre forme di vita [11].

Possiamo ora concludere con le parole di Hofstadter che meglio rendono l’idea del viaggio che ci propone in questo suo lavoro:

Sospesi a metà tra l’inconcepibile immensità cosmica dello spazio-tempo relativistico e il guizzare elusivo e indistinto di cariche quantiche, noi esseri umani, più simili ad arcobaleni e miraggi che ad architravi o macigni, siamo imprevedibili poemi che scrivono sé stessi – vaghi, metaforici, ambigui, e a volte straordinariamente belli.

Scarica "Douglas Hofstadter, Anelli nell’Io, Mondadori 2007" in formato PDF.

  1. Hofstadter D., Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante, Adelphi, Milano 1984
  2. Un interessante concentrato del dibattito mente-corpo si può trovare in Odifreddi (1996) all’indirizzo:   http://www.vialattea.net/odifreddi/mente.htm. Consigliamo anche Damasio A. R., Emozione e Coscienza, Adelphi 2000
  3. Il linguaggio macchina è un linguaggio binario: ogni istruzione è rappresentata da un numero binario, cioè da una sequenza di 1 e 0. L’intero programma in linguaggio macchina è quindi una lunga sequenza da 1 e 0. Il primo passaggio ad un livello di maggiore comprensibilità è costituito dal linguaggio assembly, nel quale ogni istruzione elementare è codificata con simboli, che prevedono l’uso dei caratteri alfanumerici. Fin dagli anni ‘50 furono creati dei linguaggi, detti ad alto livello, che mettevano a disposizione del programmatore istruzioni più vicine al suo modo di pensare e di costruire gli algoritmi.
  4. Otto Kernberg, Mondo interno e realtà esterna, Bollati Boringhieri 1985
  5. Tolman E.C., L’uomo psicologico. Saggi sulla motivazione e sull’apprendimento, Franco Angeli 1976
  6. Il concetto di agenticità umana (human agency), punto cardine dell’intera teoria social-cognitiva di Albert Bandura, può essere definito come la capacità di agire attivamente e trasformativamente nel contesto in cui si è inseriti. Bandura, A., Autoefficacia: teoria e applicazioni. Erikson 2000
  7. Il Teorema di incompletezza di Kurt  Gödel ci obbliga a considerare imperfetti tutti i sistemi assiomatici, mostrandoci il baratro della ricorsività della dimostrazione. Qualsiasi riferimento bibliografico supererebbe i limiti di questa recensione. Due sole indicazioni: Penrose R., Ombre della mente, Rizzoli 1996; Nagel E., Newman J. R., La prova di Gödel, Bollati Boringhieri 1992
  8. Maturana H.R., Varela J.V., Autopoiesi e Cognizione, Marsilio, Venezia 1985 (ed. or. 1980). Il debito di Hofstdater nei confronti di questo famoso saggio è indubbio. Il concetto di sistema autopoietico, ovvero sistema che si auto-produce e che si modifica in base alla sua organizzazione allo scopo di conservare costante la sua stessa organizzazione, è sorprendentemente coerente con le argomentazioni del libro. Il nostro autore, però, rifiuta approcci anche solo vagamente cibernetici. Piuttosto fonda l’emergere dell’Io sulle proprietà auto-organizzanti dei patterns di significato.
  9. Morin E., L’Identità umana, Raffaello Cortina, Milano 2002 (ed. or. 2001). Anche in Morin troviamo molti riferimenti per questo libro. In particolare segnaliamo la centralità della Cultura (output e input del processo umano di ominizzazione ) e la Riflessività (potremmo anche dire un anello a feedback) della Mente su se stessa che lascia, appunto, emergere la coscienza.
  10. Hofstdater (2007), prefazione, pag. 4
  11. Sparti D., L’importanza di essere umani, Feltrinelli 2003