Numero 13/14 - 2017

  • Numero 6 - 2012
  • Ricerca & Tecnologia

Videogiochi e apprendimento tra medium e messaggio. Considerazioni sull’uso didattico dei videogiochi

di Alessio Ceccherelli

Abstract

Questo lavoro si propone di riflettere sul rapporto tra videogiochi e apprendimento, analizzando i risultati delle ricerche effettuate in merito agli effetti, negativi e/o positivi, che i videogiochi sembrano avere a livello cognitivo/comportamentale. L’idea di base è che gli effetti positivi si riferiscano per lo più al medium in quanto tale, mentre quelli negativi siano legati per lo più al loro contenuto e all’uso che se ne fa. Si passa quindi a ragionare sulle modalità in cui i videogiochi possano essere coinvolti nell’attività didattica comune: quella più ovvia e auspicabile si propone di integrare i videogiochi (e i media digitali in genere) con gli altri media “tradizionali”, nella prospettiva di un controbilanciamento che salvaguardi le diverse abilità cognitive stimolate dai diversi media.

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1. Introduzione

Che l’apprendimento non sia così slegato dal divertimento lo sostengono da anni i tanti fautori dell’edutainment, citando l’ormai abusata frase di McLuhan «Anyone who tries to make a distinction between education and entertainment doesn’t know the first thing about either»[1]. D’altra parte, il concetto di divertimento è implicito nell’etimologia stessa del termine scuola, dal greco scholḗ (ozio, riposo), scholàzein (stare in ozio, riposarsi, aver tempo di occuparsi di una cosa per divertimento)[2].

L’idea di questo legame è comunque difficile da assimilare, almeno per chi ha in mente (e negli occhi) un certo tipo di scuola, quella delle file di banchi, dei grembiuli blu e bianchi, dei rigidi orari mattutini, delle interrogazioni alla cattedra, dei compiti a casa, e tante altre cose che discendono da una realtà scolastica non tanto dissimile – nei fatti – da un immaginario alla libro Cuore. L’assimilazione diventa poi tanto più difficile se si associa all’idea di divertimento quella di videogioco, bersaglio privilegiato di associazioni di genitori e oggetto di interpellanze parlamentari, accusato di istigare alla violenza, di ridurre la capacità sociale dei bambini, di causare dipendenza.

Eppure, la relazione tra videogiochi e apprendimento viene studiata ormai da molti anni, sin dagli anni ’80, e negli ultimi tempi si stanno moltiplicando gli articoli di giornali o di riviste che riportano cronache di sperimentazioni didattiche e risultati di ricerche sul tema. Il campo d’indagine – come era lecito aspettarsi – è per lo più americano, e in generale anglosassone.

Uno degli interventi più noti e citati in questo campo è Video games and the future of learning[3]. In esso si sostiene, mettendo in campo note teorie dell’apprendimento ed esempi applicativi, che i videogiochi sono in grado di porsi ad un tempo su un piano etico-epistemologico (sviluppo di valori condivisi), sociale (sviluppo di un insieme di effettive pratiche sociali), esperienziale (sperimentazione di diverse ed intense identità) e ricco di significatività (sviluppo della comprensione situata). Tra gli autori del saggio c’è James Paul Gee, professore alla Arizona State University, e noto per le sue prese di posizione – anche estreme e provocatorie – a favore dei videogiochi, in contrasto con l’opinione comune[4]. A suo parere, il punto fondamentale dal quale partire per riflettere sull’apprendimento è l’esperienza, in quanto il nostro cervello è in grado di immagazzinare ogni tipo di esperienza, ed è proprio questo che informa il nostro processo di apprendimento. Se le migliori esperienze di apprendimento si basano sulla motivazione, sulla declinazione di obiettivi chiari, sull’interpretazione dei risultati e su feedback immediati e continui[5], allora i videogiochi sono eccezionali strumenti di apprendimento, perché funzionano esattamente con queste caratteristiche. Le ricadute da un punto di vista didattico sono molteplici. Grazie ai videogiochi, infatti, è anche possibile sopperire ai troppo rigidi sistemi di valutazione come i test e le prove di verifica “classiche”; è più facile proporre agli studenti attività di problem solving, così come indurli a comportamenti in grado di farli maturare psicologicamente ed emotivamente, in quanto giocando si è costretti a prendere dei rischi e ad accettare le sfide. Anche l’apprendimento della lingua diventa più facile, perché il miglior modo per farlo non è da un libro o da un dizionario, ma dalla sua applicazione in un’esperienza, come può essere quella videoludica (apprendimento situato e significativo). In generale, a detta di Gee, i videogiochi provvedono ad un valido modello di apprendimento per le scuole, modello in cui gli stessi insegnanti vengono ridefiniti come progettisti dell’apprendimento[6].

La posizione di Gee è senza dubbio una delle più entusiastiche e categoriche riguardo al rapporto videogiochi-apprendimento, e si pone in netto contrasto con chi invece vede nel videogioco più un rischio ed un pericolo che un vantaggio. Negli anni, gli studi sugli effetti nefasti che il medium videoludico ha sui giocatori, soprattutto più piccoli, sono stati molti, a partire da quelli di Craig Anderson e Douglas Gentile che hanno analizzato l’esposizione a contenuti violenti e il legame con un incremento di desensibilizzazione e di pensieri, sentimenti e comportamenti aggressivi[7]. Sintetizzando, i maggiori effetti negativi imputabili ai videogiochi risiederebbero, anche in virtù del loro contenuto, nel far partecipare (inter)attivamente e continuamente ad azioni violente, azioni che il sistema di gioco premia al fine di far avanzare lo stato della partita. A questo si aggiunge il peggioramento del rendimento scolastico (più si gioca meno si va bene a scuola), la facilità di cadere in meccanismi di dipendenza (che a sua volta può causare depressione e generare alti livelli di ansia), la possibilità – se si gioca troppo -  di comportarsi impulsivamente e di avere problemi di attenzione, con la relativa difficoltà ad impegnarsi ed a sostenere un comportamento per raggiungere un obiettivo[8].

In realtà, già in alcuni di questi studi si fanno delle distinzioni che edulcorano le critiche portate ai videogiochi. Il fatto di peggiorare il proprio rendimento a scuola, ad esempio, non dipende dal giocare ai videogiochi, ma dal giocarci troppo, e dunque un discorso simile si potrebbe fare con qualsiasi altro “svago” o alternativa al fare i compiti. Stesso discorso per il legame tra il troppo giocare e i comportamenti impulsivi; anzi, in questo caso, lo studio dimostra come l’evidenza maggiore sia nella direzione opposta del rapporto causale: ovvero è chi ha già problemi di attenzione e si comporta impulsivamente che tende a passare più tempo con i videogiochi[9].

Al di là di questo, comunque, leggendo con attenzione questa lista di effetti negativi, e mettendola a confronto con quella di effetti positivi che è possibile ricostruire dai tanti articoli usciti in merito[10], l’impressione è che si venga a stabilire una separazione abbastanza netta – per usare categorie mcluhaniane – tra medium e messaggio, ovvero tra le caratteristiche strutturali e mediologiche del videogioco e l’uso che se ne fa, sia riguardo ai contenuti che attraverso di esso vengono veicolati sotto forma di narrazioni e obiettivi di gioco, sia riguardo alle conseguenze sociali e psichiche che possono essere generate da un eccessivo utilizzo. Nella figura che segue sono sintetizzati gli effetti negativi e positivi come risultano dagli studi citati; i diversi effetti sono messi in relazione con tre categorie che derivano da quelle mcluhaniane citate: il medium, l’uso che se ne fa, e il contenuto[11].

Figura 1 - Effetti positivi e negativi dei videogiochi

Figura 1 – Effetti positivi e negativi dei videogiochi

Le cose che saltano all’occhio sono almeno due.

Da un lato, gli effetti negativi sembrano per lo più derivare o da ciò che viene narrato o dall’uso (molto spesso riconducibile ad un abuso) che del medium viene fatto, non essendo direttamente imputabili al medium in quanto tale. Le eccezioni più rilevanti e significative riguardano la difficoltà ad avere una visione complessiva del mondo e quella a scendere di livello nell’analisi, ad avere un’attenzione in profondità: la loro importanza obbliga ad una trattazione dedicata, che sarà affrontata nell’ultimo paragrafo. Per quanto riguarda invece le altre eccezioni, ci si riferisce sostanzialmente alla forte capacità di attrazione e di coinvolgimento del videogioco, da cui discendono il rischio di confondere realtà e fantasia e di diventarne dipendenti. In questo, però, la componente emotiva e psichica del giocatore ha comunque un peso determinante, in quanto – come è noto – esistono soggetti particolarmente predisposti alla dipendenza, al di là dell’oggetto del quale diventano dipendenti[12]. Il discorso della dipendenza è d’altra parte molto più articolato, e meriterebbe un approfondimento a parte: non necessariamente la dipendenza va interpretata in modo negativo, in quanto la capacità di attrarre e tenere avvinti con continuità risulta importante ai fini del raggiungimento di uno scopo[13], e dunque anche dell’apprendimento.

Dall’altro lato, è invece altrettanto importante notare come non ci sia traccia di contenuto nella colonna degli effetti positivi. È chiaro che alcune abilità vengono stimolate da alcuni generi piuttosto che da altri[14], ma il contenuto, in termini di narrazione e di immaginario veicolato, risulta essere piuttosto ininfluente. Questa constatazione, a sua volta, ci dice innanzitutto che qualsiasi gioco – anche uno che presenta contenuti violenti – è in grado di stimolare quelle abilità, e poi ci suggerisce che i giochi appositamente creati con fini educativi non hanno poi tanta ragion d’essere[15].

2. Formale o non formale? That is the question

Le posizioni in merito alle potenzialità e ai rischi dei videogiochi sono e continueranno ad essere nette e contrastanti. Su una cosa, comunque, entusiasti e detrattori sembrano concordare: i videogiochi – al di là delle storie che raccontano e delle sfide che propongono – influenzano la struttura neuronale dei giocatori, e dunque le loro abilità cognitive: chi gioca apprende, ovvero cambia qualcosa nel proprio cervello, “allenandolo” a configurazioni che possono tornare utili in contesti completamente differenti, come appunto quello scolastico in senso ampio[16].

Dato per assodato questo punto, resta da capire in che modo sia possibile coinvolgere un medium così ampiamente utilizzato al di fuori della scuola (e anzi molto spesso proprio in contrasto ad essa) all’interno di un percorso di insegnamento/apprendimento.

La questione sull’opportunità o meno dei videogiochi educativi è del resto più sfaccettata di quanto non si sia detto in precedenza. Al di là della video game education che considera i videogiochi come oggetti culturali da insegnare e su cui insegnare[17], esistono ormai tantissimi edugames, teachwares, serious games, role games, brain trainers, pensati o modificati[18], esistono già alcuni studi su come l’attività videoludica possa essere d’aiuto in simili casi[20]Cfr. K. Kalning, For disabled, video games can be a lifesaver, http://www.msnbc.msn.com/id/30116040/ns/technology_and_science-games/t/disabled-video-games-can-be-lifesaver/]. Esistono studi, ma anche sperimentazioni già attive, come quella del progetto australiano Autism Games, che propone titoli liberamente giocabili online[19].

La riflessione più interessante che deriva dalle ricerche citate, però, riguarda i giochi non pensati appositamente con finalità didattiche, e che si rivelano tuttavia fonti di apprendimento, di stimolazione cognitiva. Come sfruttare questo apprendimento in tutto e per tutto informale? È opportuno inserire i videogiochi all’interno dell’attività didattica, oppure si deve lasciar giocare in modo da avere ricadute positive in termini di problem solving, visione strategica, telescoping, etc.?

Già nel 2008, David Thomas poneva la questione in un saggio che rimandava anch’esso a McLuhan e al rapporto tra medium e messaggio, a come i cambiamenti percettivi e cognitivi dei giocatori si verifichino al di là dei contenuti (violenti) che vengono loro “sottoposti”. Nonostante siano passati alcuni anni, egli ha probabilmente ancora ragione quando sostiene che ci troviamo all’inizio per quanto riguarda la comprensione del videogioco come medium, e ancor di più del videogioco come strumento educativo, come learning tool. Nonostante questo, la schiera di educatori che vedono nel videogioco un elemento fondamentale per l’innovazione didattica è in continua crescita. La sua argomentazione si concludeva con la consapevolezza di dover comunque necessariamente fare i conti con i videogiochi: «Where McLuhan leads us, and where I’d argue he’s left us, is that we do learn from videogames. Even more so, we need to learn from videogames. But what we learn is not wholly in some educator’s control» [20]. L’altra consapevolezza era che, se si intende usare i videogiochi come strumenti di apprendimento, non tutto può essere controllato, essi possono confondere ed educare al tempo stesso: «But when it comes to teaching “reading, ‘riting and ‘rithmetic” we might find that our new digital techniques are as likely to confuse and to educate. Both outcomes lie ahead» [21].

Qui torniamo all’interrogativo posto a titolo di questo paragrafo: formale o non formale? Quanto possiamo – formalmente – controllare rispetto agli obiettivi di apprendimento che ci si pone e quanto, invece, va lasciato alle libere dinamiche che scaturiscono dal rapporto tra il gioco e il giocatore?

Tentativi di integrare i videogiochi nell’attività didattica tradizionale ce ne sono stati e continuano ad esserci. Uno studio del 2003, basato su sondaggi effettuati dalla British Education and Technology Agency (BECTA) e dalla società TEEM (Teachers Evaluating Educational Multimedia), riportava una serie di sperimentazioni didattiche con i videogiochi, sia all’interno di progetti di ricerca finanziati, sia come esperienza di insegnamento/apprendimento durante le lezioni vere e proprie (Kirriemuir & McFarlane, 2003).

Di qualche anno successivo sono due sperimentazioni che hanno interessato scuole della Gran Bretagna. Una è Teaching with games, promossa da Microsoft, Electronic Arts e Take-Two sull’uso didattico di alcuni videogiochi nelle scuole: un simulatore (The Sims 2), un gestionale (Roller Coaster Tycoon 3), e uno strategico (Knights of Honor); l’altra è Unlimited Learning, che si è invece basata su Neverwinter Nights, uno dei più noti giochi di ruolo[22].

Un altro più recente ed interessante tentativo riguarda un progetto americano, e nello specifico una district school di New York, la Quest to Learn, «committed to graduating strong, engaged, literate citizens of a globally networked world», attraverso una pedagogia centrata sul learning by doing che immerge gli studenti in contesti differenziati e basati sulla sfida e la collaborazione[23].

L’impressione che scaturisce da questi tentativi è della scarsa o difficile replicabilità della sperimentazione. A parte quest’ultimo caso, che di per sé è comunque decisamente sui generis, uno dei dati emersi con più chiarezza nel sondaggio della BECTA è proprio l’abbandono del videogioco come learning tool oltre il periodo riguardante il progetto dal quale scaturisce la sperimentazione, e questo nonostante un sostanziale successo sia in termini di gradimento che di efficacia didattica. Parimenti, con Teaching with games e Unlimited Learning non si è avuta una continuità in grado di creare una normalizzazione didattica del videogioco.

Al di là di questo, gli ostacoli dell’introduzione dei videogiochi in classe sembrano riguardare soprattutto la dimensione logistica e di processo, ovvero la conciliazione tra tempo di gioco e tempi delle lezioni, la verificabilità dei contenuti del gioco, lo scarso supporto metodologico ai docenti, la precaria dotazione tecnologica degli istituti coinvolti[24]. La messa a regime di questo approccio richiederebbe uno sforzo imponente del sistema scolastico, che dovrebbe riadattare la propria programmazione e il proprio apparato tecnologico, e soprattutto dei singoli docenti, i quali non soltanto dovrebbero cambiare l’approccio metodologico (questo andrebbe fatto a prescindere dai videogiochi), ma diventare – come sostiene Gee – learning designers, sullo stesso piano dei game designers. Quanto è realizzabile, e quanto è auspicabile, una prospettiva simile?

Questa sorta di ingegnerizzazione del processo di apprendimento ricorda da vicino le teorie e le pratiche dell’Instructional Design, che già a sua volta non ha riscosso molto successo nei contesti scolastici, nonostante le sue premesse siano senza dubbio efficaci e migliorative dello stato di salute del sistema d’istruzione; ma in realtà quanto viene richiesto in questo caso è una capacità progettuale in grado di scendere a fondo nelle dinamiche cognitive, emotive, psichiche degli studenti: un compito estremamente arduo e, a nostro parere, anche ambiguo. Una tale figura nasce infatti dalla necessità di strutturare un’esperienza di apprendimento in grado di rendere questo apprendimento più efficace e più attraente, e per farlo vengono chiamate in causa le teorie più recenti che fanno capo principalmente alla prospettiva costruttivista (apprendimento situato e significativo, cooperative learning, comunità di apprendimento, etc.) Un’eccessiva enfasi sulla parte della progettazione (che pure è fondamentale in ogni contesto di apprendimento) non rischia però di vincolare troppo l’esperienza didattica alle esigenze del contenuto da trasmettere e alle capacità dell’insegnante, inibendo anche le possibilità di personalizzazione e individualizzazione? Gee parla esplicitamente di riprofessionalizzazione e di script che il docente deve sapersi scrivere per raggiungere gli obiettivi preposti: «Teachers are designers of learning, and can create experiences tailored to suit their outcome. If we “re-professionalize” teachers as designers, they can create their own scripts for what they want students to learn»[25]. L’idea che gli studenti debbano apprendere quello che vogliono gli insegnanti andrebbe argomentata, perché questa è – ad esempio – anche la base delle teaching machines e di una visione behaviorista dell’apprendimento: esattamente quello che si intende “combattere”. Inoltre, per quanto bravi possano essere questi futuri insegnanti, quale sarebbe il grado di attrattività di videogiochi facilmente automodificabili alle proprie esigenze?

Questa prospettiva, insomma, si dimostra eccessivamente ottimistica, quando non presuntuosa: al di là della bontà e dell’efficacia del prodotto finale, non tutto può essere controllato quando un soggetto pensante, e per di più in età evolutiva, entra in relazione con un medium così complesso come il videogioco.

4. La terza via: in media stat virtus

La prospettiva opposta, quella cioè di demandare tutto all’informale e continuare a far giocare i ragazzi al di fuori dell’ambito scolastico, per poi sfruttare i miglioramenti che questa consuetudine porta a livello cognitivo, è altrettanto problematica, rischiando col dare ragione ai tanti studi che evidenziano le qualità negative del medium. C’è chi sostiene che i videogiochi siano l’esempio migliore di apprendimento tangenziale, un apprendimento cioè che «is not what you learn by being taught but rather what you learn by being exposed to things in a context which you are already highly engaged in» [26]. Videogiocare è però troppo allettante rispetto allo studiare sui libri e al fare i compiti a casa, e il rischio di un abuso e di una deriva è davvero altissimo: chiunque abbia visto qualcuno dinanzi ad un videogioco non ha potuto non notare lo stato ipnotico e la sua totale immersione all’interno dell’universo videoludico. È sufficiente questo “comportamento mediale” a garantire una formazione a tutto tondo del soggetto? Sono sufficienti, cioè, quelle abilità cognitive stimolate a garantire una vita culturalmente e socialmente idonea al vivere comune?

Probabilmente no. Probabilmente una sintesi tra le due posizioni, un controbilanciamento dell’uso del videogame con l’uso (almeno a scuola) degli altri media, è una posizione più condivisibile e più realizzabile. D’altra parte, è vero che il videogioco abilita qualcosa ma è altrettanto vero che qualcosa, a livello cognitivo, viene se non disattivato sicuramente messo in secondo piano. Anche Steven Johnson, sicuramente schierabile tra gli entusiasti e gli integrati, sottolinea questo rischio: «Argomentazioni complesse e sequenziali, in cui ciascuna parte è costruita sulla precedente, e in cui un’idea può richiedere di essere sviluppata per un intero capitolo, non sono molto adatte a vivere sullo schermo di un computer». In questo modo diventa «difficile trasmettere una visione complessiva del mondo»[27].

La questione non è tanto che una visione complessiva del mondo sarebbe difficile (impossibile?) da esprimere tramite un videogioco, quanto che l’elaborazione di una Weltanschauung viene facilitata dall’uso del medium gutenberghiano per eccellenza, dal libro: una mente che prevalentemente gioca ai videogiochi (ed usa altre tecnologie digitali), senza controbilanciare l’attività cognitiva con media differenti, è in grado di avere ed esprimere una complessa e articolata visione del mondo? Non si sta parlando di visione strategica delle situazioni, ma di uno sguardo complesso sulla realtà, che sia al tempo stesso uno sguardo culturale, politico, etico. L’argomentazione espressa in questo articolo, ad esempio, può o meno essere condivisibile nel suo contenuto, ma ciò su cui tutti non possono che concordare è che sarebbe impossibile renderla attraverso un medium diverso dalla scrittura, e allo stesso modo molto più difficile farla propria attraverso un’esperienza percettiva basata sull’ascolto o sulla visione, o – nello specifico videoludico – sull’immersione: ci vuole la lettura, in quanto essa «richiede e impone astrazione e concettualizzazione, già soltanto per il fatto che è convenzionale: il legame tra il segno alfabetico e il concetto o il referente è assolutamente astratto e si basa su una norma condivisa» [28].

Videogioco e altro, dunque. Un altro che, preferibilmente, sia diverso dal punto di vista mediologico e cognitivo. In una parola: il libro, la forma libro, il binomio scrittura/lettura. In questo modo non si corre, però, il rischio di cadere nella gattopardesca ipocrisia di confinare il videogioco al di fuori dell’ambito scolastico, e quindi riservare alla scuola soltanto il controbilanciamento rappresentato dai libri? Il rischio c’è, indubbiamente; ma è proprio sul tentativo di evitarlo che la scuola dovrebbe lavorare molto e mettersi in discussione. Non si tratterebbe di una vera e propria trasformazione sistemica, come richiederebbe la prospettiva alla Gee o alla Quest to Learn, ma di una trasformazione culturale sì. È necessario “accettare” la rivoluzione culturale e cognitiva che i media digitali hanno portato e stanno portando con sé, sapendone apprezzare le tante potenzialità, potenzialità che – per molti aspetti – sono migliorative della situazione attuale. Lo sforzo richiesto è notevole, specialmente in contesti, come quello italiano, ancora inesorabilmente indietro sul piano dell’innovazione didattica, tecnologica, culturale (per tacere dell’aspetto politico ed economico che aggrava ulteriormente la situazione). Paesi come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, molto più aperti alle sperimentazioni, dovranno faticare ancora affinché quelle sperimentazioni diventino realtà quotidiana e sistema; ma gli altri vedranno le loro fatiche moltiplicarsi. Questo non vuole dire, però, che questo sforzo non vada comunque fatto, e che sia importante iniziare a farlo già adesso, accogliendo i videogiochi almeno come argomento di discussione, per imparare a conoscerli senza pregiudizi, timori o altezzosità, introducendoli in classe come esperienze apprenditive che sono già in possesso dei ragazzi e che dunque si possono sfruttare, per poi passare magari a qualche tentativo di sperimentazione vera e propria che, come visto, può avere il difetto di non saper diventare sistema, ma che ha dimostrato una notevole efficacia sul piano del raggiungimento degli obiettivi formativi. In questo, la passione di alcuni pochi docenti non può essere sufficiente, ma è senz’altro necessaria, come necessaria è una visione a livello istituzionale.

5. Cosa direbbe Darwin?

C’è però un’ultima questione che bisogna affrontare; una questione che in parte mette in discussione quanto appena detto e che pone un interrogativo pressante: quanto “controllare” la qualità e la quantità dei videogiochi giocati dai bambini? È interessante, a proposito, quanto dice Steven Johnson: è importante «evaluate the shows and games not just in terms of violence or obscenity, but in terms of the mental engagement that they require» [29].

Al di là dei contenuti, comunque, e dei più o meno discutibili divieti ai minori che ci sono e che – nel dubbio – possono sempre essere rispettati, la domanda più sottile che ci si pone come formatori e genitori è: fino a che punto gestire l’uso dei media aiuta i ragazzi a non smarrire abilità cognitive conquistate in una lenta e faticosa evoluzione della specie, e da che punto in poi questa evoluzione verso nuove strutture e nuove capacità percettive/riflessive viene frenata?

La questione del multitasking è in questo senso emblematica. Molte ricerche sottolineano come l’agire multitasking inibisca alcune capacità, come quella di concentrarsi e di approfondire un concetto, di scendere in profondità nell’analisi (la già citata Attenzione Parziale Continua): il nostro cervello, si sostiene da più parti, non è predisposto ad un’attività multitasking[30]; tenere la televisione in sottofondo durante la giornata, ad esempio, causerebbe problemi nell’apprendimento ai bambini tra gli 8 mesi e gli 8 anni[31].

E se invece le ultime generazioni, e sempre più le future, stessero vivendo un profondo cambiamento a livello evoluzionistico? La domanda/provocazione è: i bambini “digitali”, multitasking e hard gamers, che stanno perdendo inesorabilmente alcune qualità cognitive, avranno la vita più difficile oppure si tratta di una perdita che viene compensata con l’acquisizione di altro, un altro che serve darwinianamente alla specie per sopravvivere in una realtà estremamente complessa sotto tutti i punti di vista?

La risposta non è certo possibile darla ora, in quanto solo nel medio-lungo periodo si potranno vedere gli effetti di questa intensa esposizione mediatica basata sul digitale e sul virtuale. Le scienze neurocognitive potranno aiutarci nella comprensione e accelerare alcuni processi conoscitivi, ma per il momento è forse più saggio impegnarsi affinché chi si occupa di educazione (dalla famiglia alla scuola all’università fino alla politica) si renda conto che un dialogo e un’integrazione tra i media, anche per quel che concerne l’apprendimento, non solo è possibile, ma necessario.

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  1. http://en.wikiquote.org/wiki/Marshall_McLuhan
  2. http://www.etimo.it/?term=scuola
  3. J.P. Gee et al. Video games and the future of learning, 2004 http://www.academiccolab.org/resources/gappspaper1.pdf
  4. Cfr. J.P. Gee, 10 Truths About Books and What They Have to Do With Video Games, 2011 http://www.jamespaulgee.com/node/52
  5. Su questo concordano teorie psicologiche e pedagogiche anche molto diverse tra loro.
  6. http://blogs.kqed.org/mindshift/2011/02/ten-surprising-truths-about-video-games-and-learning/
  7. Cfr. C.A. Anderson, K.E. Dill, Video games and aggressive thoughts, feelings, and behavior in the laboratory and in life, in «Journal of Personality and Social Psychology», n° 78, 2000, pp. 772–790; C.A. Anderson, B.J. Bushman, Effects of violent video games on aggressive behavior, aggressive cognition, aggressive affect, physiological arousal, and prosocial behavior: A metaanalytic review of the scientific literature, in «Psychological Science», n° XII, 2001, pp. 353–359; C.A. Anderson, K. Buckley, D.A. Gentile, Violent video game effects on children and adolescents: Theory, research, and public policy, New York, Oxford University Press, 2007.
  8. Per un elenco più dettagliato si rimanda al bell’articolo presente su http://www.raisesmartkid.com/3-to-6-years-old/4-articles/34-the-good-and-bad-effects-of-video-games, aggiornato a febbraio 2012.
  9. Cfr. D.A. Gentile et al., Video game playing, attention problems, and impulsiveness: Evidence of bidirectional causality, in «Psychology of Popular Media Culture», I (1), 2012, pp. 62-70.
  10. Anche in questo caso si rimanda innanzitutto alla pagina http://www.raisesmartkid.com/3-to-6-years-old/4-articles/34-the-good-and-bad-effects-of-video-games, e ai testi di S.B. Johnson, Everything Bad Is Good for You: How Today’s Popular Culture Is Actually Making Us Smarter, New York, Riverhead Books, 2006, M. Prensky, Don’t Bother Me Mom – I’m Learning!, St. Paul, Paragon House, 2006, J. McGonigal, Reality is Broken: Why Games Make Us Better and How They Can Change the World, New York, Penguin, 2011.
  11. Una nota su questa tripartizione è necessaria. Con il famoso motto The medium is the message, McLuhan sosteneva che la potenza di un medium prescinde dai messaggi che attraverso di esso vengono veicolati: esso è in grado di riconfigurare il nostro sensorio, la nostra percezione del mondo e le nostre categorie concettuali a prescindere dai contenuti comunicati e dall’uso che può esserne fatto. Il fatto che la televisione possa essere usata per fini pubblicitari o propagandistici (uso del mittente), che essa possa non essere vista o essere vista 10 ore al giorno (uso del destinatario), che con essa si propongano trasmissioni politiche, film violenti, programmi culturali (contenuto): tutto questo ha una potenza tutto sommato minore rispetto alla riconfigurazione sensoriale-percettiva-cognitiva da essa indotta (medium). Anche Castells e Debray, tra gli altri, hanno mostrato come questa idea vada presa con le molle e come essa possa essere anche ribaltata (The message is the medium), ma entrambi ne riconoscono la potenza concettuale e – alla fin fine – la validità; cfr. M. Castells, The Information Age: Economy, Society and Culture: Vol. 1 – The Rise of the Net-work Society, Oxford, Blackwell Publishers Ltd, 1996 e R. Debray, Introduction à la médiologie, Paris, PUF, 2000.
  12. Cfr. M. Valleur, J.C. Matysiak, Sexe, passion et jeux vidéo. Les nouvelles formes d’addiction, Paris, Flammarion, 2003 (tr. it., Sesso, passione e videogiochi. Le nuove forme di dipendenza, Torino, Bollati Boringhieri, 2004).
  13. Cfr. J. McGonigal, op.cit.
  14. I giochi strategici, ad esempio, rafforzano qualità differenti rispetto ai giochi basati sulla simulazione o sull’azione, e così i giochi orizzontali rispetto a quelli verticali. Per una distinzione tipologica tra videogiochi orizzontali e verticali, cfr. A. Ceccherelli, Oltre la morte. Per una mediologia del videogioco, Napoli, Liguori, 2007.
  15. In effetti, non in pochi concordano sul fatto che gli edugames siano generalmente meno attraenti e divertenti rispetto a quelli commerciali (tanto che per essi si spende annualmente pochissimo), perdendo così buona parte della loro efficacia didattica: se non divertono, perché ci si dovrebbe “giocare”?
  16. Anche Gentile, in un recente articolo su Nature Reviews/Neuroscience, ha dimostrato un’apertura in merito agli sviluppi positivi del videogioco in ambito didattico: http://www.news.iastate.edu/news/2011/dec/NatureVG.
  17. Cfr. D. Felini, (a cura di), Video game education. Studi e percorsi di formazione, Milano, Unicopli, 2012
  18. Si pensi alla sperimentazione di MinecraftEdu, versione educational del gioco commerciale Minecraft (http://minecraftedu.com/). appositamente per scopi didattici, dallo sviluppare operazioni logiche e matematiche, all’acquisire nozioni sotto forma di simulazioni interattive e ludiche, all’esplorare virtualmente ambienti reali, fino a venire incontro a disturbi specifici dell’apprendimento. Quest’ultimo campo applicativo sembra essere il più stimolante, perché associa alla dimensione ludica un approccio multisensoriale in grado di rendere didatticamente attivi soggetti con disabilità: il gioco funziona come elemento motivante ed inclusivo, ponendosi nell’ottica della pedagogia speciale. A dispetto di un’industria videoludica ancora in ritardo rispetto alle istanze dei soggetti diversamente abili[19. Si veda l’attività della fondazione AbleGamers (http://www.ablegamers.com/), attiva fin dal 2004, e del progetto Game Accessibility (http://www.game-accessibility.com/).
  19. Il progetto nasce dalla collaborazione tra il Swinburne University’s Multimedia Design Program, la Bulleen Heights Specialist School, la Swinburne Autism Bio-Research Initiative (SABRI) e il National eTherapy Centre (NeTC). I siti di riferimento sono due: uno che ospita i giochi veri e propri (www.whizkidgames.com), l’altro pensato come supporto a genitori e docenti con istruzioni e guide (http://www.autismgames.com.au/).
  20. D. Thomas, «Messages and Mediums: Learning to Teach With Videogames», in Beyond Fun: Serious Games and Media (a cura di D. Davidson), ETC Press, 2008, p. 63.
  21. Ibidem
  22. Cfr. I. Fulco, Teaching with Games: I videogiochi entrano a scuola, 2006 http://www.lastampa.it/cmstp/rubriche/stampa.asp?ID_blog=30&ID_articolo=1099
  23. http://q2l.org/
  24. Cfr. J.K. Kirriemuir, A. McFarlane, Use of Computer and Video Games in the Classroom, 2003. http://internet-safety-primary-education.wikispaces.com/file/view/10.1.1.101.6469%5B1%5D.pdf
  25. http://blogs.kqed.org/mindshift/2011/02/ten-surprising-truths-about-video-games-and-learning/
  26. J. Portnow, The Power of Tangential Learning, 2008 http://www.edge-online.com/opinion/power-tangential-learning)
  27. S.B. Johnson, op. cit., trad. it. Tutto quello che fa male ti fa bene. Perché la televisione, i videogiochi e il cinema ci rendono più intelligenti, Milano, Mondadori, 2006
  28. A. Ceccherelli, op. cit., p. 234
  29. D. Mann, Video Games and TV: Do They Make Kids Smarter? http://www.webmd.com/parenting/features/video-games-tv-do-they-make-kids-smarter
  30. E. Di Pasqua, Altro che maggiore «elasticità»: il multitasking «fa male» http://www.corriere.it/salute/09_agosto_25/multitasking_fa_male_cd63c3b4-916c-11de-b01b-00144f02aabc.shtml
  31. E. Di Pasqua, Tv in sottofondo, un rischio per i bambini http://www.corriere.it/salute/12_aprile_23/televisione_bambini_dipasqua_212a2d52-8d33-11e1-a0b5-72b55d759241.shtml