Numero 13/14 - 2017

  • Numero 9/10 - 2014/2015
  • Saggi

L’esercizio della forma: la missione dell’università secondo Ortega y Gasset.

di Valentina D'Ascanio

Nel 1930, invitato a intervenire sulla riforma dell’università spagnola, Ortega y Gasset propone un’analisi che coniuga una più ampia diagnosi storica e politica con la riflessione sul mandato etico e sociale assegnato all’insegnamento superiore e all’educazione. Pubblicato col titolo La missione dell’università e divenuto uno dei saggi più noti del filosofo madrileno, tale intervento, per la ricchezza dei temi e per le implicazioni in esso presenti, ha costituito una voce significativa nel dibattito sul ruolo dell’università, nonostante gli anni trascorsi siano stati caratterizzati da profondi  e capillari mutamenti in ambito educativo.

Con l’intento di vagliare la possibile ricchezza di tale eredità, si è scelto di prendere in esame il concetto di essere in forma, centrale nel pensiero di Ortega e da lui impiegato per indicare e riassumere la maniera in cui l’università sarebbe potuta uscire dalla crisi in cui versava, così assumendo il proprio ruolo in quella che appariva come un’urgente riforma del pensiero, sì necessaria per rispondere e far fronte alle vicissitudini della Spagna, ma non meno ineludibile per un’Europa ancora ferita e vieppiù disorientata. La prima parte del presente contributo delineerà la cornice storica e culturale che ha visto sorgere, nella penisola iberica, un’accesa interrogazione su senso e fini dell’insegnamento superiore per poi, nella seconda parte, descrivere e riflettere criticamente sulla forma che, secondo Ortega, l’università ha perso e che è chiamata a trovare e raggiungere se vuole tornare a svolgere la sua vera missione istituzionale.

L’orizzonte e l’uomo: la Spagna di Ortega.

Quando Ortega tiene la sua conferenza, per l’università è da poco terminato un periodo caratterizzato da una serie d’interventi legislativi che ne hanno minato le già fragili fondamenta[1], come si può evincere dalla ricostruzione: infatti, sotto la dittatura del generale Miguel Primo de Rivera, salito al potere nel 1923, sono introdotte una serie di «restricciones en la libertad docente así como en la autonomía académica y administrativa de los centros»[2] e mirate azioni di controllo sull’attività didattica e amministrativa. A fare da miccia a questa situazione non poco esplosiva, è il Decreto Legge del 19 maggio del 1928 che, all’art. 53, sancisce il riconoscimento e l’equiparazione degli studi secondari condotti nei centri privati, tra i quali i Colegios de Deusto, retti dai Gesuiti, e El Escorial, guidato dagli Agostiniani. Tali misure provocarono un’ondata di proteste da parte degli studenti e dei professori, a cui il Governo rispose reprimendo con la forza la rivolta studentesca e privando della cattedra i docenti più esplicitamente critici verso l’ingerenza della politica nella vita accademica[3]. Tra questi figurava anche Ortega, il quale, titolare della cattedra di Metafisica all’Università di Madrid dal 1910, non mancò di far sentire la sua voce e di prendere una posizione netta e ferma: sospeso dall’insegnamento nel 1929, non volle riprendere la sua carica istituzionale scegliendo di tenere il corso di lezioni Qué es filosofía? «en la profanidad de un teatro»[4], così «suscitando l’entusiasmo dei suoi studenti e di tutti gli intellettuali progressisti che mordevano il freno sotto la dittatura»[5]. Insieme, le agitazioni studentesche[6], diffusesi in tutta la Spagna, e l’impegno attivo dei professori contennero la pressione governativa non solo riuscendo a ottenere la cancellazione del suddetto articolo, ma anche contribuendo alle dimissioni di Primo de Rivera, avvenute nel gennaio del 1930[7]. Se si considera che la conferenza sulla riforma dell’università ebbe luogo nell’ottobre dello stesso anno, quando la dittatura era finita e la Monarchia vicina al tramonto, è facile comprendere il tono ottimistico di Ortega, il quale, rivolgendosi ai giovani presenti, «venuti alla vita in una contingenza magnifica per i destini spagnoli, quando l’orizzonte si apre e molte, molte grandi cose diventano possibili»[8], li spronava a lavorare insieme per realizzare finalmente una università come «deve e può essere»[9].

L’invito a guardare al futuro va di pari passo con l’amara constatazione del fallimento delle passate riforme e del conseguente stato attuale delle università, «macchine malconce»[10], specchi dell’arretratezza culturale e dell’inefficiente azione della classe politica spagnola.

A tale riguardo, le parole del filosofo sono illuminanti:

Il male radicale delle cose spagnole, sia che si tratti dello Stato, o dell’Università, può essere chiamato coi nomi più diversi, ma se si cerca l’apice di tale radice, ciò da cui tutto il resto deriva ed emerge, ci imbattiamo in qualcosa a cui si addice un solo nome adeguato: la grossolanità[11].

L’enfasi, la forza e la verve polemica che animano tale giudizio sono mosse, potrebbe esser detto, dal sentire e dal sapere che la lotta contro quella che agli occhi dell’Autore appariva una malsana grossolanità è il proprio destino e la propria missione. Una lotta intrapresa da giovane, quando «senza storia né leggenda»[12], era già consapevole che la Spagna rappresentava il problema prioritario e sostanziale, un problema la cui natura non era tanto politica ma primariamente educativa. Per cancellare i particolarismi e le divisioni interne[13], così da costruire lo Stato, per combattere l’oscurantismo e il fanatismo[14]], veleni della mentalità spagnola, è ineludibile, secondo Ortega, superare l’arretratezza intellettuale e uscire dall’isolamento culturale portando e facendo conoscere i frutti dell’Europa: il pensiero scientifico e filosofico, quello tedesco in particolare. Questa opera di acculturazione era quanto mai urgente a ragione di quella che il filosofo definiva «l’assenza dei migliori»[15], vale a dire la mancanza di una classe in grado di dirigere e guidare il restante corpo sociale. Conseguenza diretta era la disarticolazione della società, da Ortega spiegata con un’efficace metafora:

Quando in un liquido si versano corpi solidi di densità differente, questi finiscono sempre per rimanere collocati all’altezza che corrisponde alla loro densità. Allo stesso modo, in ogni raggruppamento umano si produce spontaneamente una articolazione dei suoi membri secondo la differente densità vitale che possiedono[16].

L’assiduo impegno nella questione spagnola e l’attiva opera di divulgazione compiuta[17] fecero di Ortega il praeceptor Hispaniae[18], riconosciuto e apprezzato anche dagli intellettuali della nota generazione del ’98[19], per via della sua solida formazione teorica, della decisa personalità e delle doti di saggista e scrittore. Queste furono le armi con le quali, già dal primo decennio del Novecento, richiese a gran voce la europeización[20], poiché «Europa= ciencia»[21] e se

El problema español es, ciertamente, un problema pedagógico […], lo característico de nuestro problema pedagógico, es que necesitamos primero educar unos pocos hombres de ciencia, suscitar siquiera una sombra de preocupaciones científicas y que sin esta obra el resto de la acción pedagógica será vano, imposible, sin sentido[22].

Al contempo, da profondo conoscitore dello stato della sua España invertebrada[23], Ortega sapeva bene che era necessaria una nuova politica, la quale doveva fare dell’educazione la sua «función principal»[24]. D’altra parte, lo stesso «compromiso público»[25] orteghiano trae ragione dalla volontà di compiere questa missione pedagogica mediante azioni, proposte e mezzi che hanno nell’educazione il loro fine ultimo:

Ortega era, ante todo y sobre todo, un pedagogo de ámbito nacional, que buscaba la reforma y transformación educativa del país; a este fin todos los medios eran buenos: periódicos, cátedra, revista, libros, política…[26].

Tale sforzo pedagogico-politico si ritrova nell’attenzione riservata, sin dalla prima ora, all’università spagnola, alla quale non risparmiò critiche durissime, definendosi «un profesor de Filosofía in partibus infidelium»[27] e descrivendola come «un edificio sucio y sin fisionomía»[28], dove «unos hombres solemnes que, repitiendo unas palabras muertas, propagan en las nuevas generaciones su ineptitud y su pesadumbre interior»[29]. Sono, questi, sassi lanciati per svegliare un’istituzione dormiente e inerme, non «órgano de la paz»[30] in un Paese diviso e frammentato, e colpevolmente dimentica di essere il «símbolo de toda esencial pedagogía e de toda acción intelectual»[31]. Intrapresa quando ogni tentativo di riforma era paragonato «ad un cavallo della Guardia Civile che entra in un negozio di stoviglie»[32], questa battaglia per convertire gli infedeli si ritrova nella conferenza sulla missione dell’università, la quale, ammalata di quella grossolanità che avvelena la vita sociale e politica, può uscire da tale stato solo riconquistando il suo «essere in forma»[33], tornando a svolgere il suo ruolo più prezioso. Tuttavia, alla soglia degli anni Trenta, una siffatta diagnosi e l’impegno etico-educativo e politico che la muove non possono più essere ristretti ai soli confini patrî e così, pur rivolgendosi alla gioventù spagnola, Ortega è all’uomo europeo che parla, poiché cosciente che a essere in gioco non è più solo il destino della Spagna ma quello della cultura europea.

Dare forma alla propria vita: la cultura per l’uomo medio.

Per intraprendere l’analisi sulla riforma dell’università, Ortega invita a considerare in cosa consista l’insegnamento superiore e a chi sia rivolto; così, come a voler guidare i presenti, il filosofo tende loro la mano e indica la strada da seguire dicendo: «riflettiamo su ciò che di fatto significa, oggi, l’Università, in Spagna e all’estero»[34]. È questo il primo passo da compiere se si vuole «determinare rigorosamente»[35] la missione dell’università, vale a dire definire quale sia il suo compito autentico e radicale. Con questi aggettivi, Ortega inizia a pennellare quella forma che l’istituzione universitaria dovrebbe darsi se intenzionata a non ripetere gli errori del passato e a non sfuggire alla realtà con la quale essa è chiamata a misurarsi. Infatti, secondo il filosofo, «perché un essere – individuale o collettivo – possa esistere pienamente»[36] deve porre l’autenticità quale criterio guida del proprio essere e agire, sapendo che questa non è raggiungibile se non «dopo una lotta personale con la stessa sostanza del problema»[37].

Sforzo, impegno e tensione continua da opporre all’allettante tentazione di scivolare nell’imitazione, quest’ultima causa, secondo Ortega, non solo del fallimento delle precedenti riforme, ma soprattutto dell’anacronismo di un’istituzione congelata nel passato:

A causa del fatto che si contentano di imitare eludendo così l’imperativo di pensare e ripensare autonomamente i problemi, i nostri migliori professori vivono in tutto con uno spirito in ritardo di quindici o venti anni (…). Si tratta del ritardo tragico di chiunque voglia evitarsi lo sforzo di essere autentico, di creare le proprie convinzioni[38].

Pertanto, grossolanità e falsità possono essere superate solo se l’istruzione universitaria riconoscerà quelli che, per Ortega, sono gli scopi che è tenuta a realizzare: il primo, fare dello studente l’«unità di misura»[39] su cui l’insegnamento deve essere pensato e realizzato. Egli è «uomo medio»[40], la cui non eccezionalità è tanto ragione dell’esistenza delle istituzioni pedagogiche quanto motivo per introdurre e attuare una pedagogia universitaria volta a insegnare solo ciò che lo studente può effettivamente apprendere. Il secondo scopo, con forza sottolineato, riguarda nel profondo il senso e il fine dell’educazione universitaria e nasce dall’amara constatazione di essere di fronte a un’istituzione manchevole, non più luogo di una autentica formazione intellettuale volta a fornire all’uomo le chiavi interpretative per comprendere e partecipare al particolare e complicato frangente storico.

Infatti, appurato che l’università è ove si prepara all’esercizio delle professioni e all’investigazione scientifica, è altrettanto vero che a essa, puntualizza Ortega, compete un compito essenziale e primario, tanto delicato quanto “inevitabile”, vale a dire formare quella classe dirigente che dovrà guidare il paese, il cui comando si sostanzia nella «pressione o influsso che è in grado di esercitare sul corpo sociale»[41]. Un compito delicato poiché dal tipo di educazione ricevuta dipenderà la capacità di tale élite di saper svolgere il proprio ruolo e un compito inevitabile giacché, secondo l’interpretazione socio-politica orteghiana, la «Storia non è un sonetto, né un solitario. La Storia è fatta da molti: da gruppi umani preparati da essa»[42]. Ogni processo di rinnovamento può nascere unicamente dall’azione seminale di una ristretta minoranza di individui, i soli che possono sentirlo e viverlo quale autentica missione e destino ineludibile. E se da ciò deriva quindi l’imperativo «di formare una élite attiva e creativa»[43], con lucido realismo, Ortega sa bene che nella Spagna e nell’Europa di quegli anni sono quei professionisti, di estrazione borghese, che godono del «privilegio»[44] di accedere all’insegnamento superiore, coloro da cui dipenderà il grado di salute della vita pubblica, la quale «non è soltanto politica, ma in pari tempo e in prevalenza, è vita intellettuale, morale, economica e religiosa»[45]. Problematicità e multiformità dell’esistenza, umana e collettiva, sono, per Ortega, le direttrici che devono guidare la riforma dell’insegnamento superiore, il quale deve uscire dalle strettoie di un sapere professionalizzante per mirare a una conoscenza sistematica, completa e organica finalizzata a porre l’uomo medio «all’altezza dei tempi»[46] e a formare «una generazione in forma»[47], la quale potrà essere in grado di conseguire «ciò che per secoli senza di essa non si è riusciti a realizzare»[48]. Architrave della riflessione pedagogica orteghiana, la «priorità assoluta della totalità sul particolare e sul tecnicismo»[49] rappresenta la forma che la trasmissione universitaria del sapere dovrebbe assumere, una forma radicata in una idea di cultura, non più investita di slanci etico-ideali[50] e posta quale norma astratta, ma pensata per «un lugar y una fecha que es la realidad radical, que es la vida efectiva»[51]. A tale riguardo, Ortega così si esprime:

Oggi, nelle società europee comandano le classi borghesi, la cui maggioranza è formata da professionisti. (…) importa molto, dunque, che questi professionisti, oltre ad esercitare la loro professione particolare, siano capaci di vivere e di influire vitalmente su di esse in modo da essere all’altezza dei tempi. È perciò necessario ricercare nell’Università l’insegnamento della cultura o del sistema di idee vive proprie di quel tempo. Codesto è il compito radicale dell’Università. Questo è ciò che dev’essere l’Università prima e più di ogni altra cosa[52].

In tale passo si ritrova un Leitmotiv della meditazione orteghiana, «quel che pongo in questione quasi dai miei primi scritti»[53], come egli dirà nel 1937, ovvero il nesso tra civiltà e cultura[54], ove quest’ultima è la bussola per far sì che la vita umana e collettiva non siano un vano procedere senza direzione alcuna. Ma, come si può evincere, la rigenerazione intellettuale, culturale e morale non riguarda più la sola gioventù spagnola ma l’uomo europeo[55], del quale occorre ricostituire «l’unità vitale»[56] per mezzo di una cultura, la quale non può essere ridotta a mero ornamento. E di tale operazione di svilimento e impoverimento sono colpevoli, secondo Ortega, «le pretenziose università del XIX secolo, quelle di tutti i paesi»[57], la cui crisi è la risultante del tradimento del loro mandato istituzionale e il cui esito è il professionista incolto, «il nuovo barbaro regredito, regredito rispetto alla sua epoca arcaico e primitivo»[58]. Ciononostante, da autentico «educador político»[59], Ortega reclama l’impegno socio-educativo dell’università poiché convinto che solo da questo possa scaturire l’uscita dallo stato di disorientamento e demoralizzazione che sta appestando la civiltà Occidentale. Posto che per il filosofo madrileno «desmoralización (…) no significa tanto la corrupción moral o política, sino algo más profundo y elemental: la falta de tono vital; ausencia, en suma, de energías y resolución»[60], l’educazione universitaria deve coincidere ed essere promotrice di una cultura che fa della vita il suo principio, una cultura posta al servizio della vita e finalizzata a realizzare una «vida en forma»[61].

È questa un’esistenza costantemente animata da uno stato di tensione e di allerta, sospinta da una creatività che è esecutività e nella quale l’attuazione del proprio progetto personale è compiuta nella, per mezzo e nonostante la circostanza nella quale è capitato di vivere. Con lapidaria chiarezza, Ortega così illustra tale snodo centrale nella sua antropologia filosofica:

El sentido de la vida no es, pues, otro que aceptar cada cual su inexorable circunstancia y, al aceptarla, convertirla en una creación nuestra. El hombre es el ser condenado a traducir la necesidad en libertad[62].

Nella dialettica tra decisione e necessità e in quella tra libertà e finalità, la cultura rappresenta “l’organo vitale” mediante il quale dare ordine e conferire inediti significati ai mutevoli e cangianti caratteri della realtà; tuttavia, soggetto e cultura sono in un rapporto di mediazione continua, poiché se è vero che la libertà del primo è data dall’impiego critico della seconda, è altrettanto necessaria l’azione creativa dell’uomo sul sistema culturale affinché questo non si sclerotizzi e atrofizzi. È centrale altresì riportare che quando parla di idee vive per comunicare e sintetizzare il senso profondo della cultura, Ortega vuole intendere le «soluciones (…), valoraciones, entusiasmos, estilos de pensamientos, de arte, de derecho que emanan sinceramente del fondo radical del hombre»[63] e che, quando vigenti e pulsanti, ispirano e orientano tutta l’esistenza del corpo sociale, impedendo che questa non degradi in «vitalidad mecanizada»[64], artificiale e inerte. E proprio in questa creazione che fa i conti, sempre, con una libertà finita, Ortega situa non solo l’unica ribellione autenticamente fertile, ma l’antidoto a quella ribellione delle masse, tragica regressione socio-politica e culturale della società europea, una società depersonalizzata e priva di alcun riferimento normativo e assiologico. In tale cornice, può essere colta la vicinanza tra La missione dell’università e La ribellione delle masse, al punto che, per la continuità delle tesi trattate, la prima opera è considerata «una derivación en clave educativa de la segunda y guarda con ella una proporción analógica en sus causas y consecuencias»[65]. A tale riguardo, il barbaro regredito e primitivo, stigmatizzato nel corso della conferenza, può dirsi l’uomo medio, la cui individualità si è rovinosamente dissolta nell’anonimato e omologazione della massa. Com’è noto, inoltre, questi due saggi sono attraversati da quel filo rosso che tiene insieme le tante traiettorie avute dalla riflessione orteghiana, vale a dire l’appartenenza viscerale dell’Autore alla circostanza spagnola saldata a una posizione fieramente europeista, in virtù della tradizione europea, tesoro culturale da affermare, tutelare e al quale attingere; e di tale preziosa eredità fa parte anche l’Università, poiché, secondo Ortega, «la coltivazione e l’insegnamento del sapere organizzato come corporazione pubblica, come istituzione, è qualcosa di esclusivamente europeo»[66]. Cosicché la diagnosi della caduta del tono vitale del Vecchio Continente trova nell’uomo medio il suo sintomo più evidente: questi, infatti, viziato dall’industrializzazione e dall’incremento dei mezzi materiali, dallo sviluppo tecnico e scientifico e dall’estensione dei diritti, è stato poi «abbandonato a se stesso»[67] dal XIX secolo che lo ha prima coccolato, così regredendo a uomo-massa, colui che «ripete in se stesso un tipo generico»[68]. Privo di proiezione verso il futuro e ingrato nei confronti dell’ampia «esperienza vitale decantata goccia a goccia nei millenni»[69], incapace di sforzarsi di dare forma a una vita autentica, inerme di fronte all’essere «fatalmente costretti a esercitare la libertà»[70] di scegliere, sono questi i tratti riscontrabili in siffatta «anomalia»[71] di uomo che, per Ortega, è conseguenza, e non causa, del livellamento delle differenze che disegnavano le identità europee, con la loro varietà negli stili di vita, la sperimentazione nei modi del pensiero, il peculiare riconoscersi in determinati valori.

A tale riguardo, Gian Paolo Prandstraller, rilevata la vicinanza del pensatore spagnolo ad alcuni intellettuali del XIX, tra cui Spengler, Dewey, Toynbee,  che vedevano «nel processo culturale un referente insostituibile dei fatti sociali»[72], fa notare come, nella loro teorizzazione, la decadenza sia un momento della cultura, vale a dire «la fase involutiva, dopo quella evolutiva»[73]. Certamente Ortega non nega che il decadere porti con sé una comparazione, «si decade da uno stato superiore verso uno stato inferiore»[74], tuttavia, quest’analisi da sola non basta, poiché occorre specificare da cosa si decade e, quantunque si trattasse di una decadenza culturale, ancora si rimarrebbe nell’alveo di una lettura parziale non potendo parlare di una crisi assoluta dell’Occidente. La decadenza «del nostro tempo»[75], precisa invece il filosofo madrileno, consiste nell’assenza di coscienza della «sua altitudine vitale»[76] e, di conseguenza, della propria «vitalità declinante»[77]; esso, infatti,

si caratterizza per la strana presunzione d’essere di più che ogni altro tempo passato (…); non riconosce epoche classiche e normative, ma considera la propria vita come nuova, superiore a tutte le antiche e irriducibile a esse[78].

È la recisione del legame tra biografia e storia[79], la mancata consapevolezza di contenere in sé le tracce del passato e l’incapacità di tesaurizzare tale eredità per immaginare il futuro; un vitalismo fine a se stesso, non nutrito e regolato da una coscienza storica che ricordi «l’incertezza essenziale ad ogni vivere»[80], la quale impone un attento e costante «rimanere all’erta»[81] sapendo che ogni conquista, individuale e sociale, soggiace alla provvisorietà e alla finitezza della condizione umana. Proprio da tale concezione dell’esistenza quale ricercato lavoro, vale a dire fare della volontà di perfezionamento la stella polare del proprio peregrinare nel mondo, Ortega traccia la linea di demarcazione tra nobiltà e massa, dove la prima «è sinonimo di vita impegnata, posta sempre a superare se stessa, a trascendere ciò che è, verso ciò che si propone come dovere ed esigenza»[82]; non quindi una discendenza di classe ma quella «nobiltà dello spirito»[83] che avvicina il pensatore spagnolo al rappresentante della cultura tedesca di inizio Novecento: Thomas Mann. Diversamente interpreti della fine di un’epoca, in entrambi si ritrova quella vita ascendente di matrice nietzschiana e l’ethos aristocratico derivante e alimentato da una volontà di educazione e autoeducazione; un’aristocrazia che è impegno etico e slancio creativo, anticorpi alle degenerazioni della società e della cultura di massa. Una idea di impegno che ispira la riflessione orteghiana già dal 1924:

L’individuo scelto si seleziona da solo (…) e un uomo per il quale la vita è allenamento, parola che (…) traduce esattamente ciò che in greco si chiamava ascetismo (l’ascetismo, askesis, è il regime di vita che seguiva l’atleta, pieno di esercizi e privazioni costanti per mantenersi in forma…)[84].

Sono tali uomini a costituire quella minoría selecta, la cui vita nobile è contrapposta alla vita volgare, mediocre e conformistica della massa. Tuttavia, è a tale élite che Ortega rivolge l’accusa di non aver svolto la propria autentica missione, vale a dire anticipare progetti, ideali, principi e norme, scorgendo in siffatta defezione «l’altra faccia della ribellione delle masse»[85]. Non più distinta ma fusa con la moltitudine degli uomini, la minoranza scelta non ha saputo operare sulla massa dandole una configurazione, una direzione e modelli da imitare; è centrale riportare, infatti, che, per il filosofo madrileno, il processo dialettico minoría-massa, da cui dipende il destino storico di ogni società, è regolato dalla legge dell’esemplarità-docilità in base alla quale le aristocrazie sono state tali quando, nel proprio tempo, «hanno incarnato un modo esemplare di essere uomo e (…) proprio per ciò, hanno arricchito la collettività e stimolato la massa dei non creativi a perfezionarsi»[86]. Sicché se l’Europa è caduta nella barbarie, la quale è assenza o inefficacia delle norme poiché, «dove c’è poca cultura, queste regolano la vita soltanto grosso modo»[87], e l’uomo-massa si mostra presuntuoso verso qualsivoglia istanza superiore e si ritiene autorizzato a intervenire in ogni questione della vita pubblica, ciò è dovuto anche al fatto che «nelle scuole che tanto inorgoglivano il secolo passato (…) si sono dati gli strumenti per vivere intensamente, ma non la sensibilità per i grandi doveri storici»[88], non si è stato in grado di portare alla luce e allevare uomini vitali e creativi, di coltivare e far germinare la “nobiltà” presente «in ciascuno ma solo come potenzialità»[89]. Per Ortega, far maturare tale potenzialità richiede fare della cultura il lievito di un darsi-forma che è processualità in uno spazio e in tempo e problema sempre da risolvere: se infatti, la vita non può essere ridotta al mero dato biologico giacché essa è primariamente storicità, futuribilità, dinamismo e cambiamento, l’uomo opera un confronto/scontro con la circostanza che, pur non predeterminando la riuscita del suo progetto vitale, limita la sua libertà e delimita «un orizzonte vitale di possibilità»[90]. Tuttavia, la realizzazione di una vita guidata dall’imperativo etico dell’autenticità rimane decisione, attività e lotta irriducibilmente personale e, in ciò, il filosofo spagnolo situa ricchezza e drammaticità dell’esistenza:

Vivere non è entrare, per inclinazione, in una condizione previamente scelta, così come si sceglie il teatro dopo cena: è piuttosto un incontrarsi in modo immediato, e senza saper come, calati, sommersi e proiettati in un mondo incangiabile, in questo mondo. La nostra vita finisce con l’essere la continua sorpresa di esistere, senza che ci sia preventivamente annunciata, naufraghi in un orizzonte imprevedibile[91].

Di fronte alla radicalità insita nell’esistenza e all’incertezza che, come un’ombra, accompagna l’agire individuale e collettivo, e preso atto del disorientamento e imbarbarimento della civiltà europea, Ortega guarda all’università invitandola a educare la generazione del presente trasmettendole una cultura che origini dalla vita e con la quale essa possa far fronte alle sfide che il vivere inesorabilmente pone. L’esercizio di questa missione sociale funzionale alla circostanza storica rappresenta la via per contrapporre all’impersonale della massa la singolarità della persona e per dotare la civiltà europea di coloro che potranno indicare un programma di vita costruito su un patrimonio di norme condivise.

Apertura e scambi. O la forma del pensiero.

L’intervento sulla riforma dell’università è l’occasione, per Ortega, per riproporre i temi che costellano il suo itinerario intellettuale: il mandato socio-politico assegnato alla pedagogia, la vita, quale incessante da fare che reca con sé creazione e dramma, e la centralità di una cultura posta al servizio delle esigenze vitali, poiché essa «frente a lo problemático de la vida (…) – en la medida en que es viva y autentica – representa el tesoro de los principios»[92]. Alla luce della criticità del frangente storico, per il pensatore spagnolo, la riforma universitaria non può esimersi dal far propri tali assunti: è quanto mai urgente, infatti, che l’università torni a essere per la vita, calandosi nella concretezza del tempo per guardare ai problemi dell’uomo occidentale e intercettare le sfide che si profilano all’orizzonte. In altri termini, essere la compiuta declinazione istituzionale del senso profondo dell’educare che, per il filosofo, «significa preparare nel presente le vite future»[93]. Ciò implica e richiede una pedagogia che si liberi dall’anacronismo in cui è caduta e che rifiuti quello che, nella riflessione orteghiana, è uno dei mali del tempo: reputare la cultura un “armamentario” ereditato dall’esterno e acquisito per sempre e non la riflessione senza fine sul senso dell’esistenza individuale e collettiva, un continuo sforzo critico per prendere coscienza delle mancanze e delle difficoltà, immaginando così possibili vie per reagire a uno stato di bisogno. Secondo Ortega, l’istruzione universitaria, ridotta a professionalizzazione e carente di una preparazione globale e completa, ha prodotto una generazione dotta ma non colta, costituita da uomini non in grado di formarsi e possedere un’idea sul mondo e sul loro agire, non dissimili dalla pietra, la quale «non è incolta perché non riesce in certe soluzioni, ma perché non ha sentore dei problemi»[94]. Tuttavia, l’eccesso di preparazione tecnica e professionale non costituisce il solo motivo di «questa forma specifica di incultura»[95]; per il filosofo, infatti, essa è dovuta anche al capriccio «scientistico»[96] che l’università ha voluto soddisfare presumendo di poter fare di ogni studente uomo di scienza. Tale pretesa ha avuto conseguenze deleterie, poiché ha indebitamente complicato l’insegnamento, così retroagendo negativamente sulla preparazione professionale e, soprattutto, ha relegato ai margini la trasmissione della cultura.

Il filosofo spagnolo è molto chiaro su questo punto:

Non si vede nessuna ragione valida per cui l’uomo medio abbia bisogno [di] o debba essere uno scienziato. Conseguenza scandalosa: la scienza in sé e per sé ovvero la ricerca scientifica, non appartiene in maniera immediata e costitutiva alle funzioni primarie dell’Università e non ha neanche a che vedere senz’altro con esse[97].

Con tale affermazione, Ortega non vuole sostenere che l’attività scientifica non rientri tra i compiti universitari, piuttosto, ciò che il filosofo richiede è un’essenziale separazione garantendo un contatto che per l’università è vitale. In tal senso, così si esprime: «Il presupposto radicale per l’esistenza dell’Università è un’atmosfera piena di entusiasmi e di sforzi scientifici»[98], tuttavia, essa è, «inoltre, scienza»[99], poiché quest’ultima nella fisiologia della vita universitaria è equiparabile a un organo necessario ma con un funzionamento distinto dagli altri.

Per comprendere le affermazioni di Ortega bisogna ricordare che la riflessione sul rapporto tra scienza e università caratterizza il panorama intellettuale europeo del Novecento e si ritrova, variamente declinata e affrontata, negli scritti di pensatori provenienti da ambiti differenti, tra i quali, ad esempio, Benedetto Croce, il quale mette in guardia nei confronti di quel contatto, «inevitabile e per sé innocente»,[100] che nell’università si può avere tra la scienza e gli interessi pratici, ma che «può divenire spesso malefico perché, reagendo sulla scienza, ne turba la libera vita»[101]. D’altra parte, l’intellettuale abruzzese non manca di rilevare la presenza di pseudo-uomini di scienza rei di aver sacrificato la vocazione in nome della carriera e di essere pertanto espressione di quell’«universitarismo»[102] che deve essere denunciato e combattuto dall’interno, vale a dire da quei professori che hanno a cuore «la dignità degli studii»[103]. Spostandosi nella Germania del primo dopoguerra, anche Max Weber parla della scienza come vocazione che deve esser sostenuta da un atteggiamento avalutativo e da quella «probità intellettuale»[104] che, al contrario, appare sempre meno contraddistinguere la condotta dei professori universitari, i quali dalla cattedra propagano le proprie idee politiche. E ancora, denuncia il sociologo tedesco, l’uomo di scienza si comporta «al modo di un impresario»[105] poiché riduce l’attività, verso la quale dovrebbe provare un’intima dedizione a tramite per ricavare prestigio e fama; fenomeno, questo, che nelle università della Germania, «si osserva su larga scala e lascia ovunque un’impronta di meschinità»[106].

Se quindi, con accenti differenti, sono numerose le voci che si levano per evidenziare come l’attività scientifica all’interno dell’università possa perdere il suo carattere di vocazione ed essere contaminata da interessi extra-scientifici di natura politico-ideologica e utilitaristica, similmente, per Ortega, la scienza «implica una vocazione particolarissima ed oltremodo rara nella specie umana»[107] ed è la manifestazione più alta di «un intelletto in forma»[108], un intelletto nutrito non dalle conclusioni ma dal cammino verso queste e sostenuto da una curiosità che, per il filosofo spagnolo, deve essere intesa nel suo significato primario e sostanziale, ovvero cura e preoccupazione per l’oggetto di studio. Non solo incessante fare, la scienza è una vera e propria creazione, poiché lo scienziato non aspira a conoscere ciò che gli altri prima di lui hanno fatto e a riutilizzare gli altrui progressi, ma sente la necessità di andare oltre e lasciare un contributo originale. È evidente, quindi, come l’essere scienziato rappresenti una traiettoria vitale e personale, un progetto costantemente in divenire che richiede «il coraggio di vivere sempre esposto alle intemperie spirituali»[109]. Poste tali premesse, a giudizio di Ortega, l’università mostra un regime istituzionale falso e demoralizzato, poiché confonde preparazione professionale e fare ricerca all’interno dell’università, così finendo per insegnare troppo e male. In particolare, come l’io individuale è costretto, se vuole compiutamente realizzare il suo programma, ad accettare le limitazioni imposte dalle circostanze, così l’istituzione universitaria, se vuole essere in forma e rispondere all’imperativo dei tempi, deve «scuotere l’albero delle professioni da molta scienza, affinché ne rimanga quella strettamente necessaria»[110]. Occorre introdurre e applicare quello che il filosofo madrileno denomina «principio di economia nell’insegnamento»[111], vale a dire trasmettere la cultura che serve per vivere e le conoscenze necessarie per esercitare adeguatamente la professione scelta, avvalendosi di procedimenti sobri e snelli. Riflessioni sui fini dell’educazione e sull’agire educativo sono parimenti presenti e, può esser detto, rispecchiano il connubio di teoria e prassi che informa tutta la proposta di Ortega, tanto caparbiamente lontana da qualsivoglia astrazione o generalizzazione quanto tenacemente immersa nella realtà individuale, sociale e storica. D’altro canto, se com’è stato notato, «“Misión de la Universidad” es aquel en que la doctrina pedagógica se cine más a las necesidades españoles de reforma de los estudios»[112] e, verrebbe da aggiungere, alla situazione socio-politica e culturale europea, la centralità data anche all’insegnamento professionale deriva dalla constatazione che essere un bravo medico o avvocato, per fare degli esempi, non corrisponde solo al raggiungimento di uno scopo individuale che ubbidisce a urgenze e voleri personali, ma soddisfa un bisogno della collettività, al punto che le evoluzioni nelle traiettorie professionali vanno di concerto con le richieste provenienti dal corpo sociale; in altri termini, «la società necessita di un certo numero di servizi; e questi vengono svolti da determinati gruppi di individui»[113] e, pertanto, «le professioni sono propriamente delle esigenze sociali»[114].  Per Ortega, quindi, la trasmissione di una mole di conoscenze scientifiche aveva avuto quale esito negativo una generazione di professionisti impreparati a svolgere il proprio lavoro e ciò era la prova di un’università che non aveva saputo adempiere alla sua funzione socio-pedagogica.

La mancata distinzione tra l’attività pedagogica volta a insegnare dei contenuti scientifici e il fare ricerca rappresenta, d’altro canto, un maldestro tentativo di eludere i caratteri di vocazione e creazione che, per Ortega, sono costitutivi della scienza, la quale, «nel suo vero e proprio significato (…) è soltanto ricerca: porsi dei problemi, lavorare per risolverli e approdare a una soluzione»[115]. Il fatto che sia impartita o appresa non ha quindi nulla a che fare con il creare, ma rimane nell’ambito della trasmissione e assimilazione di conoscenze che sono parte del patrimonio culturale. Se, come detto in precedenza, l’illusione scientista era mossa dalla pretesa di rendere scienziato ogni studente, dimenticando di porre quest’ultimo al centro della prassi pedagogica e annullando la particolarità della scienza rispetto alle attività professionali, tale velleità utopistica si infrange contro ciò

che non può essere insegnato meccanicamente, e cioè quell’unica realtà della scienza che è la tragica attitudine del pensiero che crea se stesso con strenuo sforzo e che pertanto si rifiuta di riceverla in eredità[116].

È questo il “problema pedagogico” che Ortega non smetterà mai di sottolineare, nei suoi primi scritti fino alla maturità, e che riguarda non solo la scienza ma anche l’arte, vale a dire l’impossibilità di poter rendere tramite l’insegnamento questi ambiti del fare umano necessità e bisogni vitali per lo studente. Egli, nella gran maggioranza dei casi, potrà sentirle solo come imposizioni provenienti dall’esterno: sono pochi coloro che le vivono come un’esigenza interna alla quale dedicare ogni sforzo ed energia. La constatazione che «estudiar es, pues, algo constitutivamente contradictorio y falso»[117], poiché si obbliga lo studente a far qualcosa che non avverte come autenticamente proprio, deve guidare, secondo Ortega, non solo la riforma dell’università, ma quella di tutto l’insegnamento, che è stato ridotto alla trasmissione meccanica di un repertorio di idee morte, inassimilabili e che permangono come un corpo estraneo. Di fronte a siffatta degenerazione, il filosofo fa appello al ritorno a una cultura che sia “un organo esistenziale”, a una selezione accurata e mirata degli insegnamenti per una valida preparazione professionale e al riconoscimento che «enseñar no es primaria y fundamentalmente sino enseñar la necesidad de una ciencia y no enseñar la ciencia cuya necesidad sea imposible hacer sentir al estudiante»[118].

Come detto in precedenza, per il filosofo spagnolo, la “tracotanza investigativa” di cui si era resa colpevole l’università aveva ridotto la varietà delle discipline culturali insegnate ed era espressione della confusione tra scienza e cultura, una confusione che, agli occhi di Ortega, appariva come un chiaro fenomeno del tempo, permeato nell’istituzione universitaria poiché componente di quell’atmosfera pubblica che la avvolge e che incide più dell’«atmosfera pedagogica prodotta artificialmente dentro le sue mura»[119]. Si è infatti in un’epoca storica, afferma Ortega, in cui la fiducia nella scienza è «una convinzione caratteristica della nostra cultura»[120], una fede che non origina da un fatto scientifico ma da un bisogno vitale, vale a dire dalla  necessità di credere che la conoscenza scientifica possa fornire delle risposte certe e ferme sull’uomo e sul mondo. Sarebbe un errore ritenere che la riflessione orteghiana voglia muovere una critica alla scienza e, a tal riguardo, basti ricordare la dura accusa mossa all’università per aver preteso che chiunque potesse essere educato a “tale sublime moto dell’intelligenza”; e ancora, andando indietro negli anni, un Ortega poco più che ventenne, dalle colonne de El Imparcial, esorta a non dimenticare che «la ciencia (…) representa (…) la única garantía de supervivencia moral y material en Europa»[121].

Ciò contro cui tuona questo strenuo difensore della tradizione scientifica europea è, invece, la convinzione che la scienza sia la cultura tout court e che, quindi, possa fornire «un’idea completa dell’uomo e del mondo»[122]: essa può catturare solo una parte della complessità della vita e, nella necessità di fermarla per osservarla e comprenderla, le sfuggono le componenti “più mutevoli, sottili e volatili”. Weltanschauung scientista, dominio delle scienze esatte e «terrorismo intellettuale dei laboratori»[123], ricerca e adozione di spiegazioni totalizzanti sono queste le derive avutesi tra il XIX e XX secolo, accanitamente stigmatizzate dal filosofo spagnolo, il quale riconosce «la validità del sapere scientifico-positivo, a condizione che esso si installi in uno specifico ambito e livello all’interno della complessa articolazione e stratificazione del reale»[124]. Si mostra presuntuosa e ingannevole la scienza, secondo Ortega, nel momento in cui crede che formalismo e rigore metodologico possano arrestare la cavalcata dell’esistenza: al contrario, «la vita non può aspettare che le scienze chiariscano scientificamente l’Universo. Non si può vivere ad kalendas graecas»[125] e sfuggire alla perentorietà, all’andatura incalzante dell’agire nel mondo. L’urgenza della vita deriva dal suo essere un dare forma sempre spostato in avanti nel tempo e «dall’impellenza di costruirla su sicure basi di riferimento»[126]. Nel mare di dubbi in cui naviga, l’uomo è costretto giocoforza a reagire e appellarsi al pensiero, a dare un’interpretazione alla situazione in cui si muove, sostenendosi al repertorio di convinzioni, sistemi valoriali, principi e norme che definiscono la cultura del suo tempo. Se quindi per Ortega è evidente «la génesis existencial del pensamiento como respuesta a una necesidad de la vida»[127], di fronte alla quale, istanza decisiva e radicale, trae giustificazione anche la sofferenza del pensare, ciò di cui si è testimoni è una «crisi dell’intelligenza – e con essa dell’Università»[128], dove l’uscita dalla prima richiede quella che Ortega, nel 1926, definiva una vera e propria «riforma»[129], vale a dire il netto rifiuto di qualsivoglia sistema interpretativo che recida il legame tra le idee e la situazione storica e concreta dell’uomo; per l’università, ritrovare la propria forma e realizzare la sua vocazione istituzionale comporta l’abbandono di visioni unilaterali e riduzionistiche, che sono alla base della «tendenza che ha portato al predominio dell’investigazione»[130] e alla marginalizzazione della cultura. Partecipare alla riforma dell’intelligenza, essere «un organo di salvezza della stessa scienza»[131] e contribuire al tema del tempo sono questi gli scopi che, secondo il filosofo spagnolo, devono quindi guidare la riforma dell’università. Quest’ultima, infatti, deve educare la nuova generazione affinché sappia rispondere e agire nei confronti di quella crisi europea, la quale, «vital e intelectual de forma inseparable»[132], porta allo scoperto le trappole di un pensiero che ha perduto la sua forma, poiché non aperto e multiforme ma limitante e circoscritto. Partecipando al dibattito culturale che, nel XX secolo, ha visto protagonisti, con toni e accenti singolari, Husserl, Heidegger, Adorno, Horkheimer, Habermas, anche per Ortega il destino dell’epoca consiste nel superare la modernità che, nella sua riflessione, equivale a lasciarsi alle spalle quel XIX secolo che ne rappresenta il culmine. A tale riguardo, egli così scrive: «Contra él, frente a él, han de organizarse nuestros rasgos peculiares (…). No es dudoso que en superar la conducta de ese siglo radica nuestro porvenir»[133]. Tuttavia, non vi sono salti nella storia ma continuità, per cui, in Ortega, non vi è la condanna dei presupposti della modernità, bensì, l’esigenza di riconoscere quel che di valido hanno portato nonostante l’inattualità per il tempo presente; solo così, infatti, la crisi profondissima che, «el conjunto de la ciencias, que el integrum de la ideología europea»[134], attraversano potrà essere il transito verso «el anuncio de una incalculable ampliación y renovamiento del pensar humano»[135].  Un rinnovamento che, posta la radicalità e storicità della vita individuale e collettiva, per il filosofo spagnolo deve originare dall’abbandono del razionalismo: la razón pura tiene que ser sustituida por una razón vital, donde aquélla se localice y adquiera movilidad y fuerza de transformación»[136].

Nel nuovo rapporto tra cultura e vita, la ragione vitale rappresenta quel metodo che, riconoscendo la concretezza, la specificità e la singolarità del vivere, orienta l’uomo, impegnato nell’attuazione della propria vocazione, permettendogli di cogliere e comprendere il carattere mutevole e dinamico della realtà. Per Ortega, una delle fallacie del razionalismo consiste, infatti, nel suo «método intelectual»[137], vale a dire quell’utopismo che, invece «de ajustar el pensamiento a lo que son las cosas, (…) supone que la realidad se ajusta al perfil abstracto, formalista, que abandonado a sí mismo dibuja el intelecto»[138]. Il dispotismo di una tal ragione, assolutizzata e astratta, aveva prodotto il disorientamento in cui viveva l’uomo europeo, il quale non aveva gli strumenti per aprirsi alla multiforme ricchezza del reale e per far fronte ai propri problemi della concreta esistenza; era venuto meno il contatto con la condizione umana, si era dimenticato che «el hombre non è res cogitans, sino res dramatica»[139]. A partire da tale concezione antropologica, Ortega vede nella ragione vitale quel modo del pensiero che si pone al servizio dell’esistenza; quest’ultima, tuttavia, ha nella storicità l’altra sua dimensione costitutiva e quindi, per Ortega, è parimenti necessario situare ogni accadimento nel proprio orizzonte vitale e culturale per interpretarlo nel suo accadere temporale. Infatti,

i problemi umani non sono, come quelli astronomici o chimici, astratti; sono problemi di massima concretezza, perché sono storici. E l’unico metodo di pensiero che permette di trattarli con un minimo di adeguatezza è la “ragione storica”[140].

Rifiutando tanto la concezione materialistica della storia quanto lo storicismo hegeliano, il filosofo spagnolo afferma la storicizzazione della ragione[141] e vede nella ragione storica il solo strumento interpretativo atto a indagare quanto all’uomo è capitato riuscendo a comprenderne il senso alla luce della specifica congiuntura vitale e circostanziale, «senza sconfinare in atteggiamenti teologizzanti, unilateralmente ottimistici o pessimistici, o addirittura in velleitarismi utopici»[142]. Permanenza e staticità delle forme di vita e del pensiero sono delle illusioni e, in virtù di tale presupposto, Ortega non esita a proclamare l’inadeguatezza della concezione intellettualistica-razionalistica e a richiedere che la ragione fisico-matematica ceda il passo alla ragione storica. Inoltre, il rifiuto di un unico punto assoluto e centro del reale lo porta sia ad affermare che la verità è vitale e storica[143] sia a fare della prospettiva[144] l’organizzazione della realtà, nonché il criterio epistemologico del suo razio-vitalismo. Si può evincere la sensibilità del filosofo spagnolo verso i cambiamenti di ordine epistemologico che stavano interessando la fisica[145], la biologia[146] e le ricerche storico-antropologiche[147], cambiamenti che ponevano in primo piano nuove categorie concettuali, quali la possibilità, la discontinuità e la pluralità; tuttavia, è centrale riconoscere che la teoria prospettica della verità, con la quale Ortega pone in discussione il carattere extra-storico della verità razionalistica, non cade nella trappola del relativismo giacché sancisce la validità della ragione[148].

D’altro canto, la ragione vitale e storica è, per Ortega, l’espressione di un modo del pensiero che riconosce l’estensione spaziale e temporale della realtà, che rifugge da generalizzazioni e astrazioni e che, non opposto alla vita, si nutre e si appoggia a questa. Per aver richiesto questa razionalità, Ortega «ha leído correctamente los signos del siglo XX»[149], poiché ha voluto «penetrar la vitalidad con racionalidad y (…) reconocer la razón en lo viviente»[150] prospettando, per far fronte alla crisi della civiltà occidentale, una nuova Aurora[151]. Dall’aurora della ragione storica e vitale doveva muovere anche la scienza, la quale aveva idolatrato l’intelligenza, così dimenticando che questa non è un habito[152], e si era sterilmente ripiegata su stessa tanto da non vedere i bisogni umani. L’allontanamento da questi, secondo Ortega, era il motivo di quella «mala hora en el mundo»[153] che la scienza stava passando e, per porvi rimedio, era necessario che essa riconoscesse «la obligación histórica de no elegir sus problemas, sino aceptar los que el tiempo le propone»[154]. Nondimeno, non erano solo ragioni epistemologiche a sostenere la critica orteghiana nei confronti del dispotismo di una ragione disincarnata, ma anche motivazioni di natura sociale e politica, vale a dire la riduzione della ragione in chiave tecnicistica-strumentale e il suo uso in senso pratico-ideologico, esemplificato dal fenomeno delle rivoluzioni, con, in primis, la salita al potere pubblico della massa.

Riguardo al predominio esercitato da una razionalità tecnicistica e strumentale, per Ortega, questo era l’esito di quel connubio tra scienze esatte e industrialismo, nato in seno alla classe borghese per ragioni squisitamente economiche e utilitaristiche. Con fine arguzia, il filosofo spagnolo mostra come l’egemonia tributata alla fisica sia sorta in una particolare atmosfera storica e in virtù di questa debba essere compresa: «Risultò che le verità fisiche, nelle loro qualità teoriche, possedevano la condizione di essere utilizzabili dalle convenienze vitali dell’uomo»[155] poiché rendevano possibile intervenire sulla natura e dominarla a proprio vantaggio. Da ciò, il trionfo dell’industrializzazione e della tecnica e la crescente importanza data alla fisica, alla quale «le classi medie si interessarono (…) non per curiosità intellettuale, ma per interesse materiale»[156].

Per Ortega, questo articolato scenario comporta la degenerazione della scienza in mero tecnicismo, giacché essa «non esiste se non interessa nella sua purezza e per se stessa»[157]. Si profila, dunque, una società con una burocrazia ipertrofica abitata da quell’uomo massa che è un incivile in un «mondo civilizzato»[158], in altri termini un Naturmensch che vive della tecnica e trascura «i principi generali della cultura»[159]. Nella parcellizzazione del sapere e nell’efficacia convertita «en el nuevo criterio de evidencia»[160], sotto l’egemonia della razionalità tecnicistica-strumentale, il filosofo vede le manifestazioni di una nuova forma di barbarie, prodotta dai progressi della scienza e dall’accumulo di conoscenze sempre più settoriali, specialistiche e parziali: similmente a Max Weber che parlava di «specialisti dell’intelligenza»[161], anche Ortega denuncia lo specialismo dell’uomo di scienza, il quale rappresenta «il prototipo dell’uomo-massa»[162]. Egli può dirsi tale poiché «è un barbaro molto esperto in un solo argomento»[163] che quindi ignora totalmente che il mondo è intricato, ampio ed esigente, al contempo, è ammalato di una bieca autoreferenzialità a causa del quale «di fronte ad un qualsiasi problema si contenta di pensare ciò che trova comodamente nella sua testa»[164] senza possedere la benché minima consapevolezza di essere tragicamente al di sotto del proprio livello storico. Così, la condizione dello specialista, che porta dentro di sé «un frammento di qualcosa»[165], rispecchia «la frantumazione dell’umano»[166], la dispersione e disarticolazione dei saperi e una cultura europea spenta e inerte.

Per Ortega, sono chiari i principi che devono essere alla base dell’educazione delle future generazioni, di un’umanità sorretta dalla coscienza storica e animata dalla spinta verso il futuro: riconoscere la centralità della vita quale valore primario e in virtù di essa trasmettere una cultura che, fondata sull’integrazione dei saperi e sull’impiego di un pensiero mobile e articolato, traduca e renda ragione della pluralità, imprevedibilità e anche irrazionalità del reale. All’università, allora, spetta il compito di prospettare e costruire un sistema educativo che rimedi «all’ignoranza dell’universale»[167], riconosca chiaramente la distinzione tra insegnamento, scienza e cultura e che, con la contaminazione tra i saperi, favorisca un nuovo equilibrio tra gli stessi. Se la Facoltà di cultura[168] immaginata da Ortega può dirsi il sostrato istituzionale della ricerca della totalità e dell’organicità, un’attuale ed efficace didattica è il mezzo per istruire e raffinare capacità di sintesi, di integrazione e di raccordo, ineludibili per non scivolare in un accumulo nozionistico e per salvare la stessa scienza dalle sue dannose e stringenti settorializzazioni. In altri termini, «bisogna vitalizzarla, cioè dotarla di una forma compatibile con la vita umana che la produsse e per la quale fu creata»[169].

In una realtà poliedrica e prospettica, la missione dell’università è intercettare, comprendere e tener conto dei bisogni della vita pubblica e potrà farlo unicamente accettando quella che è la circostanza storica. Per Ortega, tale presa di responsabilità morale, sociale e politica si sostanzia in un ritrovato contatto con l’attualità, in un momento in cui le possibilità d’intervento pubblico si diffondono e si ramificano e diviene impellente, per la civiltà europea, trovare nell’università quel faro culturale che illumini il presente.

Questo attraversamento di alcune delle opere pedagogiche più significative di Ortega ha posto in luce quanto il concetto di forma sia trasversale, pertenendo tanto alla formazione dell’uomo quanto alla costruzione del profilo dell’istituzione, e come esso possa rappresentare, ancora oggi, un valido riferimento e una fascinosa suggestione per immaginare le trasformazioni che pur sappiamo problematiche della nostra università per il nostro tempo.

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  1. L’inizio della crisi dell’università spagnola risale al XVII secolo, quando terminato il noto “Siglo de Oro”, è cominciata una progressiva perdita della produzione intellettuale, dovuta alla proibizione di studiare fuori dalla Spagna e di far arrivare testi stranieri. Come afferma E. Lafuente Ferrari, «desde el siglo XVII la Universidad está cerrada a todo lo que sea realmente la cultura moderna. Es fuera de la Universidad donde se ensayan algunos intentos de modernización de nuestra cultura (…). La Universidad estaba enquistada en un mandarinismo en forma y vicios seculares, que representaban sobre todo los colegios mayores, con una absoluta cerrazón de espíritu a la novedad de su tiempo». La situazione non migliorò se si considera che l’attuazione del primo piano universitario avvenne nel 1807, anno di quella Guerra d’Indipendenza che non permise alla Spagna di «sacar los frutos que el siglo XVIII hubiera podido sembrar». Così, nel XIX secolo, accadeva «que los catedráticos muchas veces no fueran ni licenciados; nombrados interiormente, prolongaban su estancia en las cátedra, como es de suponer, con escaso fruto para los alumnos». In E. Lafuente Ferrari, Los antecedentes de la Universidad española del siglo XX, in AA. VV. La Universidad, Madrid, Ciencia Nueva, 1969, pp. 25-32, p. 26. Inoltre, si assiste a un’evidente centralizzazione, la quale dà luogo a un’università burocratizzata, soggetta a un marcato interventismo da parte dello Stato e non in grado di fornire un’adeguata preparazione tecnica e professionale. Nel tentativo di rinnovare l’università spagnola, e più in generale di uscire dal ritardo culturale che contraddistingueva la Spagna, nel 1876, su iniziativa di Francisco Giner de lo Rios è fondata la Institución Libre de Enseñanza, un centro educativo, ispirato ai principi del krausismo, movimento filosofico che, tra il XIX e il XX secolo, rappresenta «un tentativo di rinnovamento liberale, di impronta razionalistica, che mira a collocare la Spagna nell’alveo della cultura europea». Seguendo quindi il razionalismo armonico krausista, la Institución Libre de Enseñanza si imporrà come un centro di cultura laica che raccoglierà un nutrito gruppo di intellettuali che avranno un peso decisivo nel tentativo di riformare le istituzioni educative e la Spagna. In A. Mariani, Nel “krausismo spagnolo”, in F. Cambi, A. Bugliani, A. Mariani, Ortega y Gasset e la Bildung. Studi critici, Milano, Edizioni Unicopli, 2007, pp. 69-90, p. 69. Inoltre, cfr. S. Giberstein de Rovinski, Concepto de universidad en José Ortega y Gasset, in «Revista de Filosofía», Universidad de Costa Rica, E, 22, 1968, pp. 261-296.
  2. F. Vicente Jara, Á. González Hérnández, Concepto y misión de la universidad. De Ortega y Gasset a la reforma universitaria del nacional-catolicismo, in «Revista Española de Educación Comparada», 8, 2002, pp. 137-173, p. 137.
  3. In particolare, il Decreto Legge del 19 maggio del 1928 riportava: «Los Catedráticos gozaran de plena libertad pedagógica en el desempeño de sus funciones docentes para la exposición, análisis y crítica de doctrinas, teorías y opiniones (…) sin que le sea lícito atacar los principios básicos sociales, que son fundamento de la constitución del país, ni a su forma de Gobierno, ni a los Poderes, ni Autoridades; castigándose con las sanciones procedentes las infracciones de este precepto, ya gubernativamente por las autoridades académicas o bien por los Tribunales de Justicia, según la índole y gravedad del caso». In Decreto-Ley 19 de mayo 1928, art. 73, Gaceta de Madrid, 21 de mayo.
  4. J. Ortega y Gasset, Qué es filosofía? (1930), in Id., Obras Completas, vol. VII, Madrid, Alianza Editorial-Revista de Occidente, 1983, pp. 275-438, p. 275. Ortega si riferisce al teatro Barceló di Madrid dove tenne la serie di lezioni che furono seguite da un vasto pubblico. In riferimento all’affermazione, essa può essere pienamente compresa se si considera che per Ortega la filosofia rappresenta quel sapere radicale che può soddisfare la sete di conoscenza dell’uomo e che, in quanto occupazione teoretica, contraddistingue l’uomo “nobile” che la giudica un’attività indispensabile per avere una vita qualitativamente umana. Facendo proprie le analisi di Max Scheler sulla sociologia del sapere, anche il filosofo spagnolo ribadisce la supremazia, esemplarità e l’autenticità del sapere filosofico rispetto alle altre scienze, le quali necessitano della filosofia. A tale riguardo, occorre considerare che, negli anni Trenta, la crisi dei fondamenti aveva rimesso in discussione gli assunti alla base delle scienze esatte, compresi quelli della fisica, e mostrato la necessità di una riflessione filosofica; a ciò è da aggiungere che il ritorno verso la filosofia, dopo che questa era stata ridotta alla sola epistemologia, segnalava il superamento dell’apogeo del positivismo e il bisogno di guardare alla conoscenza filosofica, in particolare alla metafisica, per affrontare lo studio dell’uomo. Cfr. M. Scheler, Die Wissensformen und die Gesellschaft. Probleme einer Soziologie des Wissens, in Gesammelte Werke, t. VIII, Bern und München, 1960.
  5. L. Pellicani, Introduzione, in José Ortega y Gasset, Scritti politici, a c. di L. Pellicani e A. Cavicchia Scalamonti, Torino, Unione Tipografica-Editrice Torinese, 1979, pp. 9-105, p. 20.
  6. Cfr. AA. VV. La Universidad, cit.; D. Jato Miranda, La rebelión de los estudiantes. Apuntes para una historia del alegre S.E.U., Madrid, Ariel, 1953; P. Laín Entrelago, El problema de la Universidad. Reflexiones de urgencia, Madrid, Cuadernos para el diálogo, 1968.
  7. Vale la pena aggiungere che, l’anno seguente, nel 1931, le università «fueron los centros principales que llevaron a la caída de la Monarquía» retta da Alfonso XIII. S. Giberstein de Rovinski, op. cit., p. 262. Inoltre, un ruolo importante ebbe lo stesso Ortega con El error Berenguer (1930), un articolo molto duro, la cui frase conclusiva, «Delenda est Monarchia», non lasciava spazio a fraintendimenti. Per richiedere e sostenere il passaggio alla Repubblica, Ortega fondò con Gregorio Marañon e Perez de Ayala, il 10 febbraio 1931, la Agrupación al Servicio de la República, un movimento di intellettuali liberali che, pur di appoggio al partito socialista, manteneva la totale autonomia di giudizio e libertà d’azione. Secondo Armando Savignano, gli anni dal 1919 al 1932 vedono «un accentuato impegno militante» da parte di Ortega, impegno che avrà termine con lo scioglimento della Agrupación a seguito della crisi di legittimità che stava vivendo la Repubblica e della mancanza di soluzioni progressiste per contrastare le polarizzazioni ideologiche e gli estremismi. In A. Savignano, J. Ortega y Gasset, La ragione vitale e storica, Firenze, Sansoni Editore, 1984, p. 222.
  8. J. Ortega y Gasset, La missione dell’università, Napoli, Guida Editori, 1991 (1930), p. 29.
  9. Ibidem.
  10. Ibidem.
  11. Ivi, p. 32.
  12. J. Ortega y Gasset, La pedagogia sociale come programma politico, in Id., Scritti politici, cit., pp. 365-385, p. 365. La presentazione che Ortega fa di sé può essere compresa se si considera che la conferenza, dalla quale è stato tratto il suddetto saggio, è avvenuta il 12 marzo 1910, quando egli, nato nel maggio del 1883, stava per compiere ventisette anni. In tal periodo, terminati gli studi in Germania, i quali lasciarono una marcata impronta nella sua formazione, era prossimo a divenire titolare della cattedra di Metafisica presso l’Università di Madrid. Nonostante il suo pensiero sia ancora agli albori, in questo saggio sono affrontati quei temi sui quali il filosofo madrileno non smetterà mai di riflettere e di scrivere: l’equilibrio tra cultura e vita, la dimensione etico-sociale della pedagogia, nonché la situazione spagnola. Inoltre, la sua nota capacità oratoria, della quale si servirà come una vera e propria arma di seduzione e che è già evidente in questa occasione, porta a ritenere che la descrizione data di sé, nei primi momenti del discorso, sia anche uno studiato artificio retorico impiegato per conquistarsi la “benevolenza” dei presenti.
  13. Nel 1989, con la perdita dei Paesi Bassi, del Milanesato, di Napoli e dei possedimenti coloniali di Cuba, Puerto Rico e delle Filippine, secondo Ortega, inizia per la Spagna un processo di disintegrazione, determinato dalla mancanza di un progetto di vita comune e dal venir meno della coesione sociale per cui il popolo si divide in compartimenti stagni, vale a dire in gruppi divisi e chiusi nel loro particolarismo. Cfr. J. Ortega y Gasset, España invertebrada. Bosquejo de algunos pensamientos históricos, Madrid, Calpe, 1921; per un’analisi dei concetti di disintegrazione e particolarismo nel pensiero di Ortega, cfr. J. Marías, Ortega. Las trayectorias, Madrid, Alianza Universidad, 1983.
  14. Come sottolinea A. Mariani, «la fioritura del pensiero spagnolo – aperto e liberale – che si era sviluppata nel medioevo fino al primo terzo del XVII secolo, fu seguita da un declino dovuto essenzialmente all’autocrazia, al dogmatismo e all’inquisizione». In A. Mariani, op. cit., p. 83. Ancora nel XIX secolo, l’oscurantismo governa e condiziona l’insegnamento superiore, infiacchito da un piatto utilitarismo e preda del fanatismo delle varie congregazioni sostenute dalle classi privilegiate.
  15. J. Ortega y Gasset, Spagna invertebrata. Lineamenti di alcune riflessioni storiche, in Id., Scritti politici, pp. 507-596, p. 556.
  16. Ivi, p. 561.  Il tema minoranze-masse, affrontato da Ortega già in questa opera, sarà alla base dell’analisi della situazione europea, seguente alla prima guerra mondiale, che il filosofo svilupperà nella nota opera La ribellione delle masse. È possibile, quindi, tracciare una linea di continuità tra le due opere, tuttavia, è altrettanto necessario riportare che il rapporto tra minoranze e masse è uno snodo teorico centrale nella riflessione socio-politica orteghiana presente sia nelle conferenze dei primi anni, come Vieja y nueva política, del 1914, sia in opere della maturità, quali El hombre y la gente. Cfr. J. Ortega y Gasset, Vieja y nueva política (1914), in Id., Obras Completas, Vol. I, cit., pp. 265-307; J. Ortega y Gasset, El hombre y la gente (1957), in Id., Obras Completas, Vol. VII, cit., pp. 71-271
  17. Nato in una nota famiglia di giornalisti, Ortega ha fondato e collaborato con prestigiose riviste, nelle quali ha raccolto le sue conferenze e scritto numerosi articoli con l’intento di far conoscere al popolo ciò che accadeva in Spagna e in Europa. Tra le riviste sono da segnalare, El Imparcial, El Sol, nonché la Revista de Occidente, la quale diventerà la più prestigiosa rivista di filosofia e scienze umane dei paesi di lingua spagnola. Inoltre, nel 1918, in qualità di Direttore della Biblioteca de las Ideas del Siglo XX, favorirà la pubblicazione delle principali opere di Born, Einstein, Russell, Husserl, Scheler, Simmel, Spengler, Sombart, Freud e Jung. In ambito accademico, attorno alla sua personalità, si costituirà la nota Escuela de Madrid che riunirà alcuni tra i suoi allievi più noti, tra i quali María Zambrano, Joaquín Xirau e Julián Mariás. Inoltre, «quisiera poner de relieve el influjo educativo que Ortega tuvo en los países llamados del Cono Sur de Sudamérica (Argentina, Chile y Uruguay), donde se encuentra una comunidad de valores y sentires compartidos y donde su influencia se intensificará gracias a la radiación de varios miembros de la “Escuela de Madrid”, exiliados a causa de la guerra civil española. Es, sin embargo, en Puerto Rico donde se percibe una mayor influencia. En su universidad se llevan a la práctica algunos de los planteamientos desarrollados en la obra (….) Misión de la universidad, y muchos de los escritos de Ortega han sido allí utilizados como texto de estudio». In J. Escámez Sánchez, José Ortega y Gasset (1883-1955), in «Perspectiva: revista trimestral de educación comparada», París, UNESCO: Oficina International de Educación, vol. XXIII, n.º 3-4, 1993, pp. 808-821, p. 819.
  18. M. S. Dworkin, General Editor’s Foreword, in R. McClintock, Man and his circumstances. Ortega as educator, New York, Teachers College Press, 1971, pp. VII- XII, p. VII.
  19. La generazione del ’98 è così chiamata per il riferimento al 1898, anno in cui la Spagna perse le sue colonie ed entrò in una profonda crisi sociale, politica e culturale. Questo evento storico rappresentò l’orizzonte temporale e il fattore condizionante la vita di coloro che appartenevano a tale generazione, tra i quali figuravano: Unamuno, Baroja, Azorín Menéndez Pidal, Ganivet, Zuloaga, Manuel de Falla, Blasco Ibáñez. È questa la generazione che comincia ad aver coscienza dell’arretratezza culturale che contraddistingueva la Spagna del tempo e che cerca di dare impulso alla vita intellettuale del Paese, in particolare attraverso una vasta produzione letteraria. Come pone in evidenza Marías, per questi intellettuali, il naufragio della Spagna ha rappresentato il «punto de partida» dal quale era impossibile prescindere se si voleva dare inizio a un’epoca nuova. In J. Marías, Ortega. Circunstancia y vocación, Madrid, Alianza Universidad, 1984 (1983), p. 67.

    Pur estimatore degli apporti di tale generazione e condividendone alcune delle speranze e delle intenzioni, Ortega ne criticò la mancanza di preparazione filosofica e le scarse capacità teoriche; vale la pena segnalare, inoltre, che Ortega ricevette le attenzioni degli esponenti della generazione del ’98 e, per il suo precoce esordio nella scena intellettuale del tempo, è stato erroneamente considerato facente parte di questa. In realtà, fu «su precocidad, su temprano éxito, es decir, su mayor “edad social”, que lo hizo tener figura pública desde muy pronto, casi al mismo tiempo que los mas jóvenes del 98». In Ivi, p. 136.

  20. J. Ortega y Gasset, Asamblea para el Progreso de las Ciencias (1908), in J. Ortega y Gasset, Obras Completas, Vol I., cit., pp. 99-104, p. 102.
  21. Ibidem.
  22. Ivi, p. 103.
  23. J. Ortega y Gasset, España invertebrada, cit.
  24. J. Ortega y Gasset, Asamblea para el Progreso de las Ciencias (1908), in Id., Obras Completas, Vol. I, cit., p. 100.
  25. A. Casado, Ortega y la educación, perfiles de una trayectoria, in «revista española de pedagogía», n°220, ano LIX, septiembre-diciembre 2001, pp. 385-402, p. 388.
  26. J. L. Abellán, Historia crítica del pensamiento español, Voll. 5, Madrid, Espasa-Calpe, 1991, p. 191.
  27. J. Ortega y Gasset, Meditaciones del Quijote, Madrid, Cátedra, 2014 (1914), p. 43.
  28. J. Ortega y Gasset, Una fiesta de paz (1909), in Id., Obras Completas, Vol. I, cit., pp. 124-127, p. 124.
  29. Ibidem.
  30. Ibidem.
  31. J. Ortega y Gasset, Impresiones de un viajero (1916), in Id., Obras completas, vol. VIII, cit., pp. 361-371, p. 367.
  32. J. Ortega y Gasset, La missione dell’università, cit., p. 28.
  33. Ivi, p. 33.
  34. Ivi, p. 41.
  35. Ivi, p. 38.
  36. Ivi, p. 39.
  37. Ibidem.
  38. Ivi, p. 41.
  39. Ivi, p. 51.
  40. Ibidem.
  41. Ivi, p. 47.
  42. Ivi, p. 31. L’assenza dei migliori costituiva, secondo Ortega, il principale problema della società spagnola, la quale, a ragione di ciò, era divisa e frammentata in gruppi contrapposti. La mancanza di un gruppo che potesse fungere da guida per il Paese pesava sulla riuscita della riforma dell’università e, non a caso, sin dalle prime battute, Ortega afferma: «dubito, infatti, che oggi esista in Spagna un gruppo abbastanza in forma per questa riforma, sia dello Stato sia dell’Università. E se non esiste, tutto quanto si persegue senza i dovuti requisiti non serve a nulla». E poi, rivolgendosi ai giovani accorsi alla conferenza, precisa: «È superfluo ribadire che non sono venuto qui per distogliervi dall’agire nella vita pubblica della Spagna, per indurvi a non esigere e chiedere con forza la Riforma dell’Università. Affermo esattamente il contrario: vi incito a fare tutto ciò, ma in modo serio, in forma». Ivi, p. 34. Emerge, da questo passo, il ruolo di Ortega quale guida intellettuale e morale, nonché animatore e interprete della volontà di rinnovamento che animava la Spagna negli anni Trenta; tuttavia, vale la pena ricordare che un tale compito era stato sentito e fatto proprio già a partire dal primo decennio del Novecento, manifestandosi chiaramente nella conferenza tenuta il 23 maggio 1914 dal titolo Vieja e nueva política. Di ampia risonanza, al punto che diversi intellettuali e uomini politici riconobbero in Ortega quell’uomo in forma, prendendo a prestito la sua espressione, capace di inculcare un nuovo progetto di rinnovamento etico-politico della vita collettiva che guardasse al futuro e facesse leva sugli aspetti più vitali della società spagnola, questa conferenza rappresentò l’atto di nascita della Liga de educación política española, «un raggruppamento di energica solidarietà» che si proponeva di intervenire nella vita nazionale alla luce della «manifesta incapacità dei vecchi partiti, delle antiche istituzioni, delle idee comuni di prolungare la propria esistenza apparente, anche se niente e nessuno venisse a combatterli. Conservano soltanto la capacità delle macerie di soffocare sotto il loro carico le nuove germinazioni». In J. Ortega y Gasset, Programma della Lega di Educazione Politica Spagnola, in Id., Scritti politici, cit., pp. 206-214, p. 206.
  43. L. Pellicani, Introduzione, in J. Ortega y Gasset, Scritti politici, cit., p. 16.
  44. J. Ortega y Gasset, La missione dell’università, cit., p. 42. Come Ortega fa notare: «Tutti coloro che ricevono l’insegnamento superiore non sono tutti quelli che potrebbero e dovrebbero riceverlo; sono soltanto i figli delle classi agiate. L’Università rappresenta un privilegio difficilmente giustificabile e sostenibile. Ecco un tema: gli operai nell’Università. (…) se si crede doveroso, come lo credo io, far accedere l’operaio al sapere universale, è perché lo si considera importante e desiderabile». Ibidem. La posizione del filosofo madrileno a favore dell’estensione dell’insegnamento universitario merita particolare attenzione nella misura in cui il Nostro, da una certa critica, è stato tacciato di conservatorismo e di ostilità verso la democratizzazione della società. Sicuramente è palese che, per Ortega, la società, «per la sua stessa essenza», è sempre aristocratica, ma, come egli stesso precisò, parlava della società «e non dello Stato». In J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, Milano, TEA, 1988 (1929), p. 42. Piuttosto, egli fu il fautore di una democrazia liberale e di un socialismo riformista e, sempre, tenace oppositore di qualsivoglia tentativo rivoluzionario a cui era necessario contrapporre il diritto alla continuità, vale a dire innovare poggiando sul passato per costruire il futuro. Come è facile comprendere, inoltre, la filosofia politica orteghiana non può essere disgiunta dall’evoluzione intellettuale dello Stesso, ossia «da una giovanile condivisione degli ideali del socialismo culturale-umanitario coniugati con certe istanze liberali ad una disamina, nella fase matura, della dottrina liberale con qualche insofferenza per talune attitudini populiste e il rifiuto di ogni velleità radical-rivoluzionaria in nome del gradualismo riformista; per concludersi, con l’esilio, in atteggiamenti tipici del conservatorismo illuminato». In A. Savignano, Introduzione a Ortega y Gasset, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 122.
  45. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit., p. 35. L’importanza di formare professionisti adeguatamente preparati nel loro lavoro, ma soprattutto capaci di avere una presa sulla complessità della realtà nazionale è sottolineata anche nel corso della conferenza Vieja e nueva política, durante la quale si rivolge alla gioventù spagnola, comunicandole la gravità dell’ora: «Queste parole di sollecitazione rivolgiamo oggi agli spagnoli che, poiché si dedicano al lavoro scientifico e letterario, all’industria, alla tecnica amministrativa e commerciale, hanno l’obbligo di avere una idea serena e ragionata dei problemi nazionali». In J. Ortega y Gasset, Programma della Lega di Educazione Politica Spagnola, in Id., Scritti politici, cit., p. 213.
  46. J. Ortega y Gasset, La missione dell’università, cit., p. 46. Nella filosofia orteghiana, il concetto di tempo non possiede alcuna valenza assoluta, ideale o astratta; al contrario, esso reca con sé un significato esistenziale e storico poiché indica l’altitudine vitale in base alla quale differenti generazioni mostrano una sensibilità diversa rispetto ai problemi della propria epoca e ognuno individuo può sentire di appartenere, più o meno, al tempo in cui vive. La stessa idea di decadenza di un’epoca discende dal fatto che il tempo presente può apparire più elevato, uguale o più basso di quello passato. Cfr. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit., p. 48.
  47. J. Ortega y Gasset, La missione dell’università, cit., p. 35.
  48. Ibidem. Tale affermazione può essere pienamente compresa se si considera che nella generazione Ortega vede la fonte del mutamento storico poiché questa incarna una sensibilità di fronte alla vita radicalmente diversa rispetto a quelle che l’hanno preceduta. Ciò dà luogo a una profonda e pervasiva mutazione del modo in cui è affrontata la vita, con i problemi che si presentano, e degli ideali e dei valori che ispirano e regolano la condotta individuale e collettiva. Trattando il tema delle generazioni e del loro significato nella dinamica storica, il filosofo madrileno afferma: «Las variaciones de la sensibilidad vital que son decisivas en historia se presentan bajo la forma de generación. Una generación no es un punado de hombres egregios, ni simplemente una masa: es como un nuevo cuerpo social integro, con su minoría selecta y su muchedumbre, que ha sido lanzado sobre el ámbito de la existencia con una trayectoria determinada». In J. Ortega y Gasset, El tema de nuestro tiempo, Madrid, Revista de Occidente en Alianza Editorial, 2006 (1923), p. 78.
  49. C. Bonvecchio (a c. di), Il mito dell’università, Milano-Udine, Mimesis, 2012, p. 42.
  50. Nella prima fase della riflessione, ancora influenzato dal neo-kantismo, per Ortega, l’equilibrio tra cultura e vita è a favore della prima, la quale è un ideale etico e socio-pedagogico. Di conseguenza, la libertà deve essere piegata a un ordine ideale e l’io individuale, legato a interessi particolari e contingenti, deve divenire io trascendentale, «educado en la disciplina de lo universal y abierto a un orden trascendente de valor». In P. Cerezo Galán, La voluntad de aventura. Aproximamiento crítico al pensamiento de Ortega y Gasset, Barcelona, Editorial ARIEL, S. A., 1984, p. 18. Come si può evincere dallo scritto pedagogico più importante di questo periodo giovanile, La pedagogía social como programa político, è forte una filosofia della prassi, di chiara ispirazione etica, che ha quale fine la formazione culturale dell’uomo in quanto parte dell’umanità; in tal senso, l’azione politica è prassi culturale, pedagogia sociale ed educazione per mezzo e per la società. J. Ortega y Gasset, La pedagogia sociale come programma politico, in Id., Scritti politici, cit., pp. 365-385.
  51. J. Ortega y Gasset, El tema de nuestro tiempo, cit., p. 50.
  52. J. Ortega y Gasset, La missione dell’università, cit., pp. 47-48.
  53. J. Ortega y Gasset, Prologo per i Francesi (1937), in Id., La ribellione delle masse, cit., pp. 3-33, p. 32.
  54. Civiltà, per il filosofo spagnolo, indica «anzitutto volontà di convivenza», vale a dire sentire il rapporto reciproco con gli altri, riconoscendosi in un sistema di credenze, le quali includono valori, norme e ideali. In J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit., p. 83. Quando tale sistema viene a mancare si ha la dissociazione, ovvero la divisione in gruppi contrapposti all’interno della società. La cultura di un’epoca è data dall’insieme delle sue credenze, le quali, quando diventano socializzate, acquisiscono un carattere normativo e assiologico ed etico-politico, poiché non sono solo delle interpretazioni sul mondo, ma anche dei veri piani d’azione. In tale cornice, può essere letta la distinzione fatta da Ortega tra idee e credenze, dove le prime rappresentano ciò che sappiamo mentre le seconde rappresentano il collante grazie al quale i membri di una collettività si riconoscono come mutualmente legati e guidati dal medesimo sistema valoriale. In particolare: «De las ideas-ocurrencias – y conste que incluyo en ellas las verdades más rigorosas de la ciencia – podemos decir que las producimos, las sostenemos, las discutimos…(…). Lo que no podemos es…vivir de ellas.», invece, le «creencias constituyen el continente de nuestra vida y, por ello, no tiene el carácter de contenidos particulares dentro de ésta. Cabe decir que no son ideas que tenemos, sino ideas que somos». In J. Ortega y Gasset, Ideas y creencias (y otros ensayos de filosofía), Madrid, Revista de Occidente-Alianza Editorial, 1986 (1940), pp. 24-25.
  55. Come fa notare P. Cerezo Galán, «Crisis cultural de Europa y crisis reduplicativa de la vida española parecían llegar al colmo del paroxismo en torno a 1930. Consumada la Dictadura de Primo de Rivera, (…) todo estaba por hacer, en una coyuntura en que la misma Europa andaba a la deriva». In P. Cerezo Galán, op. cit., p. 72.
  56. Ortega y Gasset, La missione dell’università, cit., p. 50.
  57. Ivi, p. 47.
  58. Ivi, p. 48.
  59. R. Corrigan, La misión pedagógica de José Ortega y Gasset, in «Actas del primer congreso internacional de hispanistas», 6-11 settembre, 1962, pp. 231-237, p. 236.
  60. P. Cerezo Galán, op. cit., p. 60.
  61. Ibidem. Riguardo all’idea di vita in forma, la critica si divide tra coloro che vi vedono un deciso influsso di Nietzsche e altri che vi riscontrano l’influenza di Simmel, in particolare la lettura che questi ha dato di Goethe nell’opera omonima. Nello specifico, la prima posizione è rappresentata da P. Cerezo Galán, secondo il quale «la mística de la vida creadora sustituye a la otra mística, hieratizada y solemne, del culturalismo» e altresì «se comprende que la propuesta de Ortega consista en el ideal nietzscheano de la «vita ascendente» como realización progresiva de las potencias vitales». In P. Cerezo Galán, op. cit., p. 54. È evidente come tale concezione della vita, quale tensione creativa, sia collegata alla necessità, espressa chiaramente da Ortega, di rendere la cultura consonante agli interessi vitali. A tale riguardo, P. Cerezo Galán fa notare il chiaro riferimento a Niezsche presente ne El tema de nuestro tiempo: «Todo lo que hoy llamamos cultura, educación, civilización, tendrá que comparecer un día ante el juez infalible Dionysos, decía proféticamente Nietzsche en una de sus obras primerizas». In J. Ortega y Gasset, El tema de nuestro tiempo, cit., p. 45. Pur rilevando che per la critica nei confronti della «beatería culturalista», Ortega è debitore di Niezsche, e non mancando di evidenziare le differenze tra Simmel e Ortega, in merito al tono più «eminentemente culturalista» del primo e la «connotación biologista» della idea di vita del secondo, le analisi di M. Arroyo e N. Orringer sono riconducibili alla seconda posizione e sostengono che vi sia un chiaro influsso del Goethe di Simmel. In M. Arroyo, El sistema de Ortega y Gasset, Madrid, Edic. Alcalá, 1968, p. 117. In particolare, secondo Orringer, l’opera simmeliana ha fornito «gran parte de la sustancia doctrinal que constituye los cuatro últimos capítulos de El tema de nuestro tiempo», nei quali Ortega pone in primo piano la vita quale principio e richiede l’affermazione dei valori vitali. In N. Orringer, Ortega y sus fuentes germánicas, Madrid, Gredos, 1979. p. 304.
  62. J. Ortega y Gasset, Prologo para alemanes (1958), in Id., El tema de nuestro tiempo, cit., pp. 13-81, p. 51.
  63. J. Ortega y Gasset, En torno a Galileo (1933), in Id., Obras Completas, Vol. V, cit., pp. 13-164, p. 77.
  64. J. Ortega y Gasset, El «Quijote» en la escuela (1920), in Id., Obras Completas, Vol. II, cit., pp. 273-306, p. 277.
  65. R. E. Aras, Ortega, la universidad y la integración del saber, in «Consonancias», 2008, p. 8.
  66. J. Ortega y Gasset, Per il centenario di un’università (1932), in Id., La missione dell’università, cit., pp. 85-97, p. 87.
  67. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit., p. 76.
  68. Ivi, p. 37.
  69. J. Ortega y Gasset, Prologo per i francesi (1937), in Id., La ribellione delle masse, cit., p. 29.
  70. Ivi, p. 62.
  71. Ivi, p. 32.
  72. G. P. Prandstraller, «Ortega y Gasset e il problema della decadenza dell’Occidente», in L. Infantino e L. Pellicani (a c. di), Attualità di Ortega y Gasset, Firenze, Le Monnier, 1984, pp. 267-276, p. 267.
  73. Ibidem.
  74. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit., p. 53.
  75. Ivi, p. 60.
  76. Ibidem.
  77. Ivi, p. 59.
  78. Ivi, p. 60.
  79. A partire dalla fine degli anni Venti, una parte della critica, rappresentata tra gli altri da Arroyo e Orringer, sottolinea l’influsso di Heidegger nel pensiero orteghiano, il quale sembra entrare in una nuova fase caratterizzata dall’ontologia dell’esistenza. Tuttavia, il tema degli scambi tra i due filosofi è piuttosto “intricato” e lo stesso Ortega ha più volte ribadito la presenza di alcuni temi, che poi sostanzieranno la teorizzazione heideggeriana, già nelle sue prime opere, ad esempio le Meditaciones del Quijote: il rifiuto del sostanzialismo dell’essere, il dialogo serrato e ineludibile tra l’io e il mondo, la verità come alétheia, la vita come futurizzazione. Inoltre, il filosofo spagnolo non ha mancato di rivolgere critiche all’Autore di Sein und Zeit, sottolineando la mancanza di chiarezza riguardo alla definizione dell’essere e distanziandosi dalla concezione esistenzialista della vita, dove questa è definita solo nel suo essere dramma e tragedia. Riguardo alla rivendicazione di Ortega circa la priorità di tali temi nel suo pensiero, possono essere prese a riferimento le considerazioni di D. Marrero Navarro, il quale è in disaccordo con quanto affermato dal filosofo spagnolo e sottolinea l’influenza esercitata da Heidegger, e quelle di J. Marìas e J. Gaos, che sostengono l’autonomia delle tesi orteghiane, già sviluppate in opere antecedenti a Sein und Zeit. Cfr. J. Marìas, J. Gaos, Ortega y Heidegger, in «La Palabra y el hombre», V, 1961, pp. 278-304. D. Marrero, El centauro. Persona y pensamiento de Ortega y Gasset, San Juan de Puerto Rico, Imprenta Soltero, 1951.
  80. Ibidem.
  81. Ivi, p. 61.
  82. Ivi, p. 75.
  83. T. Mann, Nobiltà dello spirito e altri saggi, a cura di A. Landolfi, con un saggio di C. Magris, Milano, Mondadori, 2015 (1997).
  84. J. Ortega y Gasset, Cosmopolitismo (1924), in Id., Scritti politici, cit., pp. 636-642, p. 639.
  85. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit., p. 61.
  86. L. Pellicani, Introduzione, in J. Ortega y Gasset, Scritti politici, cit., p. 61.
  87. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit., p. 80.
  88. Ivi, p. 65.
  89. F. Cambi, La pedagogia e la Bildung in Ortega, in F. Cambi, Adriano Bugliani, A. Mariani, op. cit., pp. 13-66, p. 42.
  90. J. Ortega y Gasset, Cos’è la filosofia, nota e cura di N. González Caminero, trad. it., di M. De Nicolò, Milano, Marietti editori, 1973, p. 190.
  91. Ivi, pp. 188-189.
  92. J. Ortega y Gasset, Meditaciones del Quijote, cit., p. 87.
  93. J. Ortega y Gasset, Appunti per un’educazione del futuro (1953), in Id., La missione dell’università, cit., pp. 115-126, p. 125.
  94. J. Ortega y Gasset, La pedagogia della contaminazione (1917), in Id., La missione dell’università, cit., pp. 99-107, p. 104.
  95. Ivi, p. 105.
  96. Ivi, p. 65.
  97. Ivi, p. 61.
  98. J. Ortega y Gasset, La missione dell’università, cit., p. 79.
  99. Ibidem.
  100. B. Croce, Scienza ed università, in «La Critica», 4, 1906, pp. 319-321, p. 319.
  101. Ibidem.
  102. Ivi, p. 321.
  103. Ibidem.
  104. M. Weber, La scienza come professione, in Id., Il lavoro intellettuale come professione. Due saggi, nota introd. di D. Cantimori, trad. it. di A. Giolitti, Torino, Giulio Einaudi editore, 1984, p. 29.
  105. Ivi, p. 17.
  106. Ibidem.
  107. J. Ortega y Gasset, La missione dell’università, cit., p. 63.
  108. Ivi, p. 78.
  109. J. Ortega y Gasset, La pedagogia della contaminazione (1917), in Id., La missione dell’università, cit., p. 101.
  110. J. Ortega y Gasset, La missione dell’università, cit., pp. 65-66.
  111. Ivi, p. 55.
  112. A. Maillo, Las ideas pedagógicas de José Ortega y Gasset, in «Revista de Educación», Vol. XIII, nº 38, 1955, pp. 71-78, p. 75.
  113. J. Ortega y Gasset, Sulle professioni (1934) , in Id., L’uomo e la gente, trad. it. di L. Infantino, Roma, Armando, 2005, pp. 225-238, p. 230.
  114. Ibidem.
  115. J. Ortega y Gasset, La missione dell’università, cit., p. 62.
  116. J. Ortega y Gasset, La pedagogia della contaminazione, in Id., La missione dell’università, cit., p. 102.
  117. J. Ortega y Gasset, Sobre el estudiar y el estudiante (primera lección de un curso (1933), in Id., Obras Completas, Vol. XXII, pp. 15- 25, p. 21.
  118. Ivi, p. 24.
  119. J. Ortega y Gasset, La missione dell’università, cit., p. 40.
  120. Ivi, p. 70.
  121. J. Ortega y Gasset, El Imparcial, 10 agosto 1908, in Id., Obras Completas, Vol. I, cit., pp. 105-110, p. 106.
  122. J. Ortega y Gasset, La missione dell’università, cit., p. 70.
  123. J. Ortega y Gasset, Cos’è filosofia?, cit., p. 38.
  124. A. Savignano, J. Ortega y Gasset. La ragione vitale e storica, cit., p. 94.
  125. Ibidem.
  126. A. Savignano, Introduzione a Ortega y Gasset, cit., p. 82.
  127. P. Cerezo Galán, op. cit., p. 274.
  128. J. Ortega y Gasset, Per il centenario di un’Università, in Id., La missione dell’università, cit., p. 96.
  129. J. Ortega y Gasset, La riforma dell’intelligenza (1924), in Id., Scritti politici, cit., pp. 656-663, p. 656.
  130. V. De Tomasso, La funzione dell’università nel pensiero di José Ortega y Gasset, in «Annali della Pubblica Istruzione», XIV, n°. 2, 1968, pp. 189-195, p. 194.
  131. J. Ortega y Gasset, La missione dell’università, cit., p. 76.
  132. A. Gutiérrez Pozo, Ortega ante la crisis de la vida y la cultura europeas, in «Diálogos», 1999, pp. 161-191, p. 174.
  133. J. Ortega y Gasset, Nada «moderno» y «muy siglo XX» (1916), in Id., Obras Completas, Vol. II, cit., pp. 22-24, p. 22.
  134. J. Ortega y Gasset, Investigaciones psicológicas (1915-16), in Id., Obras Completas, Vol. XII, cit., pp. 333-453, p. 343.
  135. Ibidem.
  136. J. Ortega y Gasset, El tema de nuestro tiempo, cit., p. 149.
  137. J. Ortega y Gasset, Fraseología y sinceridad (1926), in Id., Obras Completas, Vol. II, cit., pp. 481-490, p. 483.
  138. Ibidem.
  139. J. Ortega y Gasset, El tema de nuestro tiempo, cit., p. 61.
  140. J. Ortega y Gasset, Prologo per i francesi, in Id., La ribellione della masse, cit., p. 27. È centrale soffermarsi sul rapporto tra Ortega e Dilthey, quest’ultimo definito dal filosofo spagnolo il pensatore più rappresentante del XIX secolo per aver sostenuto che l’uomo può essere compreso solo nella sua storia, così rifiutando la visione trascendentale e intellettualistica del conoscere. Tuttavia, secondo Ortega, le loro teorizzazioni partono da un punto diverso e distante, in quanto il problema della vita teorizzato da Dilthey non prende in esame la ragione vitale e pertanto raggiunge un minor sviluppo teorico. Inoltre, secondo Ortega, non possono esservi, nella storia dell’umanità, nulla di permanente e costante, a differenza di Dilthey che vedeva nella letteratura, nella poesia e nella religione degli invarianti storici. Cfr. J. Ortega y Gasset, G. Dilthey y la idea de la vida (1933-34), in Id., Obras Completas, vol. VI, pp. 165-214, cit.; J. Ortega y Gasset, Origen y epílogo de la filosofía (1943), in Id., Obras Completas, Vol. IX, pp. 347-434, cit.
  141. Alla concezione hegeliana della storia, Ortega dedica diversi scritti, Origen y epilogo de la filosofía, En el centenario di Hegel, Hegel y América, nei quali afferma che è necessario invertire la formula hegeliana, vale a dire che la storia è razionale, e da qui la razionalità della storia, per sostenere la storicità della ragione. Secondo il filosofo spagnolo, infatti, la visione ottimistica e provvidenziale della storia, presente nella teorizzazione hegeliana, non include il futuro, poiché implica l’attualizzazione del passato e l’autocoscienza del presente. Al contrario, per Ortega, la storia significa protendere verso il futuro e, quindi, un’adeguata concezione del reale storico non può prescindere dal guardare al futuro. Cfr. J. Ortega y Gasset, En el centenario di Hegel (1931), in Id., Obras Completas, Vol. V, pp. 411-429, cit.; Id., Hegel y América (1928), in Id., Obras Completas, Vol. II, pp. 563-576, cit.; Id., Origen y epilogo de la filosofía, in Id., Obras Completas, Vol. IX, cit. Per un’analisi critica della ragione storica di Ortega e delle su e differenze con l’idealismo cfr.: L. Dujovne, La concepción de la historia en la obra de Ortega y Gasset, Buenos Aires, Rueda, 1968; N. González Caminero, La dialéctica de la historia según Ortega y Gasset, Santander, Miscelánea Comillas, XLVI, 1966, pp. 7-46.
  142. A. Savignano, Introduzione a Ortega y Gasset, cit., p. 100.
  143. Nel pensiero orteghiano, i concetti di verità e prospettiva sono legati nella misura in cui ogni vita non è altro che il singolarissimo punto di vista sulla realtà, la quale può essere colta da diverse prospettive tutte egualmente vere. La verità, pertanto, è vitale e storica giacché è una prospettiva intellettuale, inserita all’interno della prospettiva vitale, la quale è individuale, concreta, dinamica, temporale e completa. Ortega rifiuta nettamente la concezione della verità sub specie aeternitatis, affermandone il carattere individuale-trans-temporale e storico permanente. Quindi, «alla verità intesa come universalità e immutabilità, si è sostituita quella della verità vitale, limitata (prospetticamente) e temporalmente (circostanza) con la perdita del contatto con l’essere (statico ed eleatico). In A. Savignano. J. Ortega y Gasset. La ragione vitale e storica, cit., p. 76. Per il rapporto tra verità e prospettiva, cfr. J. Ortega y Gasset, Verdad y perspectiva (1916), in Id., Obras Completas, Vol. II, pp. 15-21; per un’analisi critica di tale snodo teorico orteghiano, cfr. A. Rodríguez Huéscar, Perspectiva y verdad, Madrid, Revista de Occidente-Alianza Editorial, 1966. Occorre aggiungere che, nelle Meditaciones del Quijote, Ortega, nel presentare la verità come vitale, la concepisce come alétheia, vale a dire illuminazione intellettuale e raggiungimento del proprio punto di vista sulle cose, e impiega tale concetto per spiegare «la pedagogìa de la alusiòn». A tale riguardo, egli scrive: «Quien quiera enseñarnos una verdad que no nos la diga: simplemente que aluda a ella con un breve gesto, gesto que inicie en el aire una ideal trayectoria, deslizándonos por la cual lleguemos nosotros mismos hasta los pies de la nueva verdad. (…) Esa pura iluminación subitánea que caracteriza a la verdad, tiénela esta solo en el instante de su descubrimiento. Por esto su nombre griego, alétheia – significó originariamente lo mismo que después la palabra apocalipsis – es decir, descubrimiento, revelación, propiamente develación, quitar de un velo o cubridor». In J. Ortega y Gasset, Meditaciones del Quijote, cit., pp. 109-110. Per una dettagliata analisi del concetto di verità quale illuminazione e dei rapporti con Heidegger, si può fare riferimento al commento di J. Marías, in J. Ortega y Gasset, Meditaciones del Quijote, cit, pp. 109-114.
  144. Per Ortega, la prospettiva è l’ingrediente costitutivo della realtà e mediante essa ognuno può accedere alla propria verità; secondo García Morente, prospettiva e punto di vista si completano a vicenda giacché quest’ultimo indica il soggetto che contempla mentre il primo termine sta a significare l’organizzazione della realtà, vale a dire delle cose come si presentano allo spettatore. In tale cornice, possono essere comprese le parole di Ortega, il quale scrive: «La realidad cósmica es tal, que sólo puede ser vista bajo una determinada perspectiva. (…) Lejos de ser su deformación, es su organización. Una realidad que vista desde cualquier punto resultase siempre idéntica es un concepto absurdo». In J. Ortega y Gasset, El tema de nuestro tiempo, cit., p. 147; cfr. M. García Morente, El tema de nuestro tiempo. Filosofía de la perspectiva, in «Revista de Occidente», II, 1923, pp. 201-216.
  145. J. Ortega y Gasset, El sentido histórico de la teoría de Einstein (1923), in Id., El tema de nuestro tiempo, cit., pp. 183-198.
  146. J. J. Uexküll v., Umwelt und Innenwelt der Tiere, Berlin, Springer, 1909; Id., Theoretische Biologie, Berlin, Springer, 1928. Dalla teorizzazione biologica di Uexküll, Ortega è stato influenzato sin dal 1913 e dal concetto di Umwelt ha tratto suggestioni per pervenire all’idea di circostanza. Tuttavia, come sottolinea Marías, il filosofo spagnolo supera il livello biologico per includere tutta la vita umana così opponendo una Innenwelt. Cfr. J. Marías, Ortega. Circunstancia y vocación, cit.
  147. Nel saggio Las Atlantidas (1924), Ortega fa riferimento alle ricerche storico-antropologiche di Frobenius e riconosce la validità della sua teoria degli ambiti culturali, la quale a suo giudizio, porta in primo piano che la diversità e molteplicità delle culture e la necessità di rifiutare l’egemonia della cultura europea-occidentale. Come a Splenger, anche a Frobenius, Ortega rimprovera di non aver abbandonato l’empirismo storico e di aver voluto ricercare gli elementi omologhi tra le varie culture, mossi dalla visione che la struttura essenziale della vita umana sia sempre identica. Cfr. J. Ortega y Gasset, Las Atlantidas (1924), in Id., Obras Completas, Vol. III, pp. 281-316, cit.
  148. Riguardo a questo snodo teorico possono essere prese a riferimento le parole di Gualtiero Cangiotti: «Il relativismo mortifica la ragione; la relatività, al contrario, riconosce la presenza della ragione in tutti i molteplici punti di vista umani. In tal modo vitalizza e storicizza la verità, inserendola nel campo che le è propria della realtà radicale: la vita dell’uomo» . In G. Cangiotti, L’uomo contemporaneo di Ortega y Gasset, Urbino, Argalia, 1972, p. 60.
  149. H. G. Gadamer, W. Dilthey y Ortega y Gasset: un capítulo de la historia intelectual de Europa, in «Revista de Occidente», Madrid, nº48-49, 1985, pp. 77-88, p. 88.
  150. Ibidem.
  151. J. Ortega y Gasset, Aurora de la razón histórica (1935), in Id., Obras Completas, Vol. XII, cit., pp. 326-330.
  152. J. Ortega y Gasset, La riforma dell’intelligenza, in Id., Scritti politici, cit., p. 662. In particolare, Ortega, riferendosi all’intelligenza, afferma: «Non è quindi un habito nel senso aristotelico, qualcosa che si ha e, in un certo modo si è: appare più come qualcosa che sopravviene, un epignonemon».
  153. J. Ortega y Gasset, El tema de nuestro tiempo, cit., p. 24.
  154. Ibidem.
  155. J. Ortega y Gasset, Cos’è filosofia?, cit., p. 33.
  156. Ibidem.
  157. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit., p. 88.
  158. Ivi, p. 87. In particolare, Ortega scrive: «L’uomo nuovo desidera l’automobile e ne gode; però crede che è un frutto spontaneo di un albero edenico. Nel fondo della sua anima ignora il carattere artificiale, quasi inverosimile, della civiltà, e non estenderà il suo entusiasmo per gli strumenti fino ai princìpi che li rendono possibili».
  159. Ibidem.
  160. P. Cerezo Galàn, op. cit., p. 71.
  161. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze, 1965, p. 306.
  162. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit., p. 108.
  163. J. Ortega y Gasset, La missione dell’università, cit., p. 75.
  164. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit., p. 72.
  165. Ivi, p. 110.
  166. L. Pellicani, Introduzione, in J. Ortega y Gasset, Scritti politici, cit., p. 88.
  167. J. Ortega y Gasset, La pedagogia della contaminazione (1917), Id., La missione dell’università, cit., p. 105.
  168. Per Ortega, la Facoltà di cultura doveva includere le seguenti discipline culturali: Fisica, immagine fisica del mondo; Biologia, i temi fondamentali della vita organica; Storia, il processo storico della specie umana; Sociologia, la struttura e il funzionamento della vita sociale; Filosofia, la visione dell’Universo. Inoltre, in un passo de La missione dell’università, chiarisce i contenuti che devono essere insegnati: «Nella “Facoltà” di cultura non si spiegherà la fisica come questa si presenta a chi dovrà essere per tutta la vita un ricercatore fisico-matematico. La fisica della Cultura è la rigorosa sintesi ideologica dell’immagine e del funzionamento del cosmo materiale come risultato della ricerca fisica fatta fino ad oggi. Inoltre, questa disciplina mostrerà in che consiste il modo di conoscenza usato dal fisico per giungere alla sua portentosa costruzione, il che obbliga a chiarire e ad analizzare i princìpi della Fisica e a tracciare brevemente, ma molto precisamente, uno scorcio della sua evoluzione storica. Quest’ultimo fatto permetterà allo studente di rendersi conto chiaramente come era il «mondo» nel quale più o meno viveva l’uomo di ieri, di ieri l’altro o di mille anni fa e, per contrasto, prendere piena coscienza della peculiarità del nostro «mondo» attuale». In J. Ortega y Gasset, La missione dell’università, cit., pp. 72-73.
  169. J. Ortega y Gasset, La missione dell’università, cit., p. 76.