Numero 13/14 - 2017

  • Numero 13/14 - 2017
  • Saggi

A proposito di educazione e arte cinematografica. Limiti e possibilità formative

di Irene Papa

A voler condurre una riflessione pedagogica animata dalla volontà di indagare criticamente il rapporto tra individuo e società in ottica decostruttiva[1], le forme della rappresentazione culturale di una data società possono essere assunte come privilegiato oggetto di analisi in un duplice senso. Da un lato, esse rinviano a quella rete di significati appartenente alla dimensione della socialità[2], là dove le relazioni interindividuali, tessute insieme, portano alla costituzione di una “realtà comune” cui l’esperienza educativa risulta costitutivamente ancorata[3]. Dall’altro, ponendo l’accento sulla tensione originaria tra soggetto e mondo, possono penetrare nel dinamismo del reale per farsi espressione di inedite possibilità interpretative, spronando in tal modo a una modalità del conoscere che, lungi dall’affidarsi a formule preconfezionate e giudizi talvolta espressi con fuorviante superficialità, accetta e tiene conto della problematicità intrinseca all’esperienza esistenziale e, dunque, educativa[4]. In altri termini, com’è noto, tali forme di rappresentazione possono essere espressione e affermazione di una normatività, così come possono divenire interessanti strumenti di emancipazione intellettuale. Se le une presentano una “lettura ordinata” del mondo, le altre ne offrono una lettura critica.

A tal proposito, possono essere esplorate le possibilità di una relazione feconda tra educazione e arte cinematografica, nella doppia direzione che vede il cinema o come strumento disciplinante coordinato a determinati modelli educativi, o come strumento di rilettura critico-educativa della propria visione del mondo.

In quest’ottica allora parrebbe opportuno chiedersi: come si configura il rapporto tra soggetto e testo, tra spettatore e film? In base a quali caratteristiche il cinema può offrirsi come importante risorsa formativa?

In primo luogo si può affermare che attraverso lo schermo, in quanto mezzo di proiezione del film, si realizza una vera e propria “comunione” di sguardi: lo sguardo dello spettatore, lasciandosi guidare, orientare da quello del regista, può venire a contatto con un mondo possibile in grado di fornire nuove e complesse chiavi di lettura del reale[5].

In effetti, la realtà che osserviamo attraverso lo schermo è sempre una realtà “già osservata” da qualcuno che ce la restituisce da una specifica prospettiva. Così, come afferma Casetti, durante la visione di un film ciò che si offre al nostro sguardo è innanzitutto «la presenza di un vedente, di un rapporto con l’oggetto visto, di una modalità di inquadrare l’oggetto; in una parola, di un punto di vista»[6].

Il film infatti non offre una semplice documentazione dei fatti, quanto piuttosto una loro particolare interpretazione. Il lavoro di “messa in forma” che accompagna le diverse fasi di realizzazione dell’opera cinematografica corrisponde a una vera e propria “riscrittura” della realtà mediante la particolare combinazione di elementi precedentemente selezionati[7].

Come ogni testo quindi, il film viene ad assumere la sua specifica forma sulla base di un’attività intenzionale, di una particolare donazione di senso scaturita a sua volta dal personale vissuto e dalla personale visione dell’autore dell’opera. In questi termini dunque, presentando una realtà filtrata attraverso la sensibilità del regista, il testo filmico si fa espressione e testimonianza di una Weltanschauung soggettiva, portando avanti uno sguardo in cui «percezione e interpretazione, realtà e possibilità si mescolano e si confondono tra loro»[8].

Le stesse immagini cinematografiche, prima ancora che essere immagini del reale, sono immagini di una determinata percezione del reale; restituiscono un particolare modo di percepire gli altri, il mondo e gli eventi che vi si manifestano. Infatti, come ha sottolineato Sartre nel suo studio sull’immaginario, l’immagine non è altro che una “forma di coscienza” e in quanto tale, è espressione di un singolare modo di attribuire senso a un determinato oggetto. In questo senso,

il termine “immagine” non può quindi designare che il rapporto tra coscienza e oggetto; in altre parole è una certa maniera dell’oggetto di presentarsi alla coscienza o, se si preferisce, una certa maniera della coscienza di darsi un oggetto[9].

Così, ciò che è valido per la percezione sembra valido anche per l’immagine: in entrambi i casi le cose sono quelle che sono e acquisiscono il loro specifico in virtù di una significazione attiva da parte del soggetto. Tuttavia, mentre nell’esperienza sensibile un oggetto appare “esterno alla coscienza” e si dà in maniera graduale, nell’immagine l’oggetto rappresentato si dà già carico di senso in sé, in quanto frutto di una sintesi intenzionale. Nel primo caso un susseguirsi di percezioni svelano progressivamente quegli aspetti che concorreranno a definire il possibile senso dell’oggetto per il soggetto; nel secondo caso, invece, l’oggetto ha già assunto le sue specifiche caratteristiche manifestandosi in un modo piuttosto che in un altro.

In questa prospettiva dunque, nell’immagine in quanto vera e propria “forma di coscienza” organizzata secondo una “struttura intenzionale”, possono intervenire sotto «forma immaginativa» dei saperi, dei giudizi, delle reazioni affettive che vanno a permeare l’oggetto rappresentato[10]. Nello specifico, è l’affettività che conferisce «natura espressiva» all’oggetto in immagine, e a tal proposito, come sostiene Termine:

il cinema, in maniera più diretta ed evidente delle altre arti, ha il potere di mostrarci, nelle e attraverso le immagini, quanto il sentimento sia radicato e indissociabile dal suo oggetto: quanto forte e inscindibile sia la sintesi della rappresentazione e del sentimento[11].

Il senso affettivo che scaturisce dall’immagine come vera e propria “presenza vissuta” è anche ciò che suscita nello spettatore una partecipazione coinvolgente, consentendogli così di «partecipare all’azione e alla sorte dei personaggi con grande intensità emotiva»[12].

Tuttavia, almeno in ambito cinematografico, l’affettività “liberata” attraverso l’immagine non è il solo fattore a definire il particolare coinvolgimento dello spettatore. A giocare un ruolo estremamente significativo in tal senso è quell’«impressione di realtà» emanata dall’immagine cinematografica in quanto “immagine in movimento”. Se una prima impressione di realtà è già riscontrabile nell’immagine fotografica, dove le forme restituite appaiono particolarmente fedeli alle apparenze, nell’immagine filmica l’introduzione del movimento è destinata a potenziarla ulteriormente. Come ha sottolineato Edgar Morin infatti:

La proiezione del movimento restituisce agli esseri e alle cose la loro mobilità fisica e biologica. Ma allo stesso tempo essa apporta molto di più. La fotografia era fissa in un istante eterno. Il movimento introdusse la dimensione del tempo: il film ha uno svolgimento, una durata. Nello stesso tempo le cose in movimento realizzano lo spazio che esse percorrono e attraversano, e soprattutto si realizzano nello spazio[13].

Il movimento diviene così una «potenza decisiva di realtà», e combinato con la fedeltà all’apparenza delle forme, viene a determinare «la sensazione della vita concreta», dalla quale scaturiscono «alcune partecipazioni affettive collegate alla vita reale»[14].

In particolare, la partecipazione affettiva è messa in moto dai processi di proiezione e identificazione; processi che non hanno a che fare soltanto con l’esperienza della visione cinematografica, ma che generalmente agiscono anche nella nostra vita quotidiana[15]. Il processo di proiezione è un fenomeno tramite il quale attribuiamo a qualcuno emozioni, sensazioni e sentimenti, desideri e timori nostri, spesso si manifesta quando tentiamo di comprendere un determinato personaggio secondo ciò che ha caratterizzato la nostra stessa esperienza. L’identificazione, al contrario, è un processo tramite il quale assumiamo emozioni, sentimenti, e più in generale il contenuto dell’interiorità di qualcun altro. Durante la visione del film, tali processi agiscono contemporaneamente, venendo a definire la particolare condizione vissuta dallo spettatore:

Questo flusso di immagini, di sentimenti, di emozioni, costituisce una corrente surrogata che si adatta e adatta a sé il dinamismo cenestesico, affettivo e mentale dello spettatore. […] Il cinema è proprio questa simbiosi: un sistema che tende a integrare lo spettatore nel flusso del film. Un sistema che tende a integrare il flusso del film nel flusso psichico dello spettatore[16].

Mentre le vicende che riguardano i personaggi si svolgono davanti ai nostri occhi, attraverso un intenso coinvolgimento mentale e affettivo noi possiamo percepire con loro, condividerne sensazioni e vissuti. Si potrebbe anche affermare che lo spettatore sperimenta in questo modo la possibilità di una percezione altra, “vivendo” letteralmente le inedite tracce di un senso che si dispiega proprio di fronte a lui. Se è vero che, durante la visione di un film, lo spettatore tende a proiettarsi e identificarsi soprattutto con i personaggi che risultano più simili a lui, l’intensità della partecipazione affettiva prodotta dal cinema non esclude – anzi, spesso incoraggia – l’identificazione-proiezione con quei personaggi ignorati, se non addirittura disprezzati nella vita quotidiana[17]. In questo quadro, come specifica Morin,

il film stimola l’identificazione con il simile e con il diverso ed è questo secondo aspetto che traccia una netta linea di separazione dalle partecipazioni della vita reale[18].

In questo modo, il diverso, l’Altro entra a far parte del nostro mondo interiore, così come nell’alterità possiamo scoprire tracce di noi stessi. L’esperienza comprensiva che ne risulta può quindi tradursi in materia d’indagine e di riflessione riguardo il lavorìo del proprio immaginario, del proprio modo di rappresentare il mondo e di dare corpo al proprio vissuto. Più sinteticamente, si può trattare della presa di coscienza dei modi con cui prende forma la propria identità, almeno per ciò che riguarda i dispositivi di significazione disponibili nel quotidiano.

Di qui, inoltre, la possibilità di una rielaborazione pedagogicamente avvertita su quegli stessi processi di rappresentazione e di autorappresentazione consentirebbe al soggetto di riflettere sui propri modi di agire nel mondo e con gli altri. È, infatti, nell’esperienza autoriflessiva che la sintesi di rappresentazione con cui il cinema restituisce la complessità della condizione umana può diventare espressione di un miglior impegno formativo individuale.

In particolare, grazie alle sue peculiarità espressive, e nella lettura che ne dava Merleau-Ponty, il cinema avrebbe supportato un nuovo modo di intendere le emozioni quali la collera, l’amore e l’odio. Confermando le concezioni elaborate a suo tempo in seno alla Gestaltpsychologie, il cinema mostra come determinati stati emotivi non siano più da considerarsi dei «fatti psichici nascosti nel più profondo della coscienza altrui», ma come «tipi di comportamento o stili di condotta visibili dal di fuori»[19]. Tali modi di essere sono originariamente ancorati alla percezione, la quale non deve più essere considerata «una somma di dati visivi, tattili, uditivi», bensì «un’unica maniera di esistere che parla contemporaneamente a tutti i miei sensi»[20].

Ora, il cinema, tramite l’impiego del movimento «imita le mosse della nostra percezione visiva»[21], ed è questa particolarità che ha portato Merleau-Ponty a considerare il film anzitutto come «oggetto da percepire» e come una «forma temporale» che attraverso l’impiego di immagini, suoni, rumori e parole viene a costituire «un tutto nuovo e irriducibile agli elementi che entrano nella sua composizione»[22]. Dunque, «il film non si pensa, ma si percepisce»[23], ed è proprio per questo motivo che

l’espressione dell’uomo può essere nel cinema così intensa: il cinema non presenta, come il romanzo ha fatto a lungo, i pensieri dell’uomo, ma la sua condotta o il suo comportamento, ci offre direttamente questa maniera speciale di essere al mondo, di trattare le cose e gli altri, che per noi è visibile nei gesti, nello sguardo e nella mimica, e che definisce con evidenza ogni persona che conosciamo[24].

In definitiva, ciò che sembrerebbe sottolineare Merleau-Ponty e che risulta qui particolarmente interessante è il carattere irriducibile dell’esperienza vissuta dell’uomo, che sempre si dà in un complesso “insieme di rapporti”, e che il cinema può mostrarci in maniera esemplare, manifestando così una particolare affinità con le filosofie novecentesche:

una buona parte della filosofia fenomenologica o esistenziale consiste nello stupirsi di questa inerenza dell’io al mondo e dell’io agli altri, nel descriverci tale paradosso e tale confusione, nel fare vedere il rapporto fra soggetto e mondo, fra soggetto ed altri, anziché spiegarlo, come facevano i classici ricorrendo allo spirito assoluto. Orbene, il cinema è particolarmente adatto a fare apparire l’unione di spirito e corpo, di spirito e mondo, e l’esprimersi dell’uno nell’altro[25].

Di qui un altro fondamentale nodo formativo: la capacità cinematografica di restituire la sostanziale ambiguità dell’esperienza vissuta, di mostrare in maniera diretta la struttura relazionistica della realtà[26], viene ad essere uno stimolo alla comprensione non soltanto dell’altro, ma più in generale della realtà che può circondarci.

Nello specifico, tale comprensione è incoraggiata dal dinamismo intrinseco allo sguardo cinematografico offerto allo spettatore. In questo senso infatti, il punto di vista offerto dal regista è un punto di vista “mobile”, caratterizzato dalla possibilità di presentare le diverse prospettive dei singoli personaggi coinvolti nella vicenda rappresentata[27]. In questo modo, lo spettatore è chiamato a confrontare – e a confrontarsi con – le differenti esperienze di vita dei personaggi, il loro stato emotivo e, in una parola, la loro specifica Weltanschauung. Ciò può avvenire, ad esempio, quando ci vengono presentati diversi personaggi che, col loro carico di vissuti, percepiscono e dunque reagiscono in maniera differente a un medesimo avvenimento.

In questo caso, lo sguardo dell’autore offre un punto di vista sul punto di vista dei personaggi[28], presentati attraverso diversi gradi di intensità e varietà, secondo quanto previsto dalla sua specifica strategia narrativa di focalizzazione, intesa come «il modo in cui vengono regolati all’interno di un racconto i rapporti di sapere fra istanza narrante, personaggio e spettatore»[29]. Così, attraverso differenti forme di focalizzazione, il regista fornisce allo spettatore una serie di informazioni specifiche sul mondo in cui si svolge la storia narrata e sui personaggi che vi agiscono, sul loro carattere, le loro aspirazioni e i loro sentimenti. Naturalmente, la focalizzazione può variare nel corso della narrazione, e può fornire allo spettatore un sapere maggiore rispetto a quello dei personaggi coinvolti nella vicenda rappresentata. In tal caso, lo spettatore si troverà in una “condizione privilegiata” che potrà consentirgli di cogliere il senso complessivo dell’opera, soprattutto alla luce delle differenti intersecazioni di senso tra i vari personaggi. In questo modo, lo spettatore ha l’opportunità di cogliere il vero significato di una situazione, mentre i personaggi che vi sono completamente immersi ne hanno una visione parziale. Detto altrimenti, mentre i personaggi risultano “situati” nei limiti della loro esperienza soggettiva, allo spettatore è concessa una visione più ampia che gli consente di porre in relazione tra loro i diversi vissuti dei personaggi; nonché la possibilità di cogliere il senso del tutto come delle parti. Così, il meta-punto-di-vista che lo spettatore elabora a partire dalla sua particolare posizione assume uno specifico rilievo formativo nello sviluppo di un pensiero complesso, delineandosi come

strumento per cogliere l’esistenza e l’azione di paradigmi riduttivi e disgiuntivi all’interno delle proprie o delle altrui concezioni, così da favorire la cosiddetta ‘comprensione dell’incomprensione’[30].

Se, come scrive Edgar Morin, «comprendere significa intellettualmente apprendere insieme, com-prendere, cogliere insieme (il testo e il suo contesto, le parti e il tutto, il molteplice e l’uno)»[31], allora il cinema può offrirsi come valido strumento formativo: evocando tutta la problematicità che investe l’esperienza vissuta dell’uomo ci invita a interrogarci sulle motivazioni sottese a determinati comportamenti dell’uomo, sulle molteplici manifestazioni di senso che riguardano le pratiche intersoggettive e i processi culturali propri di una società.

Tuttavia, non sempre il cinema può incoraggiare una conoscenza critica dell’uomo e della società, anzi. A tal proposito pare opportuno soffermarsi brevemente su alcuni aspetti riguardanti il mutamento radicale che ha investito lo statuto stesso dell’immagine – cinematografica e più in generale massmediatica – e le conseguenti ripercussioni sia nelle modalità di partecipazione dello spettatore, sia nel complesso panorama culturale contemporaneo.

Come sottolineato da Simonigh sulla scorta delle riflessioni di Jean Baudrillard[32], il profondo cambiamento in questione prende avvio nella seconda metà del Novecento, e in particolare a partire dagli anni Sessanta quando, parallelamente all’avvento della televisione, inizia ad affermarsi una nuova tendenza estetica mossa dall’intento di offrire allo spettatore una “rappresentazione oggettiva” del mondo attraverso un’immagine che risulti il più possibile fedele alla realtà fin nei suoi minimi dettagli. Ha inizio così l’«epoca dell’iperrealismo», ossia una fase in cui si afferma una vera e propria «estetica dell’oggettività» basata su una presunta «equivalenza tra immagine e reale»[33], che mediante l’utilizzo di tecnologie sempre più avanzate, si propone di restituire un’immagine «più reale della realtà stessa»[34].

Tale tendenza estetica sorge e si afferma sulla base di istanze etiche volte a rivendicare una più autentica rappresentazione del mondo e dei fatti, possibilmente priva di mistificazioni che potrebbero ostacolarne una corretta comprensione.

Se in tal senso l’immagine iperrealistica ha inizialmente effetti positivi fino a diventare uno strumento di denuncia sociale[35], nel corso degli anni Ottanta e Novanta, non solo si rafforza l’equivalenza tra immagine e realtà, ma quest’ultima viene ad essere “contaminata” dalla sua immagine, sino ad esserne sostituita. Si tratta di un fenomeno strettamente connesso all’uso strumentale dell’immagine iperrealistica, presto assoggettata alle logiche di mercato. Proprio in questo periodo infatti, con l’obiettivo di catturare rapidamente l’attenzione di un pubblico sempre più vasto, l’industria culturale massmediatica sembra orientarsi sulla proposta di immagini in grado di suscitare nello spettatore “emozioni forti”, più intense di quelle provate nella realtà. Si determina così un mutamento significativo nelle condizioni di partecipazione del pubblico. In particolare, la rappresentazione, concentrata solo su determinati aspetti della realtà e spesso ottenuta mediante la realizzazione di effetti speciali, punta a una sovra-stimolazione percettiva capace di destare nello spettatore «istinti primordiali» ed «emozioni elementari»[36].

Le immagini così elaborate, cariche di sensazionalismo, ci mostrano una “realtà spettacolarizzata” anche in quelli che possono esserne gli aspetti più intimi o deteriori; e non è un caso che un ruolo di primo piano nelle rappresentazioni di questi anni sia stato affidato alla coppia Eros-Thanatos, della quale ogni aspetto è entrato a far parte della dimensione del visibile, divenendo spettacolo[37].

In altri termini, le ragioni del business e la competitività del mercato in questione spingono l’industria culturale a puntare sempre più su rappresentazioni cariche di iperrealismo e sensazionalismo. Gli istinti primordiali e le emozioni elementari che ne derivano costituiscono infatti un ingrediente fondamentale per assicurare la vendita e l’ampio successo di pubblico dei prodotti massmediatici, attraendo così anche gli investimenti pubblicitari. In questo contesto, viene a determinarsi un cambiamento profondo circa le modalità di partecipazione dello spettatore:

In questa sorta di escalation di rilanci, mentre lentamente le difese e perciò le soglie di tolleranza dello spettatore si innalzavano, rendendolo assuefatto a ogni sorta di rappresentazione, scendeva anche la sua capacità di sentire. L’emotività del tutto fine a se stessa privava progressivamente lo spettatore della possibilità di accedere a una progressione sia del sentire, sia del legame con l’alterità[38].

Dunque, la sovra-stimolazione percettiva porterebbe il coinvolgimento dello spettatore a un livello, per così dire, superficiale, dove sempre meno spazio è lasciato alla dimensione immaginativa e a quel lavorio interpretativo soggettivo indispensabile per un’esperienza estetica autenticamente formativa. In particolare, ciò che sembra venir meno nell’ambito del sensazionalismo è la reciprocità del confronto con l’altro; quella reciprocità alimentata dalla complementarietà dei processi di proiezione e identificazione. Durante la rappresentazione iperrealistica infatti, il coinvolgimento attivo del soggetto-spettatore risulterebbe fortemente inibito a vantaggio di una passività che sembrerebbe favorire in particolare il processo di identificazione. In questo quadro, non solo lo spettatore è naturalmente portato a identificarsi con i personaggi, ad assumere passivamente i contenuti della loro interiorità, ma si alimenta anche quel particolare «effetto suggestivo» che spinge lo spettatore a «provare, anche dopo la visione di immagini e dunque nel contesto reale, le emozioni e le sensazioni suscitate durante la visione delle immagini stesse»[39].

Il rapporto tra la realtà e la sua immagine tenderebbe sempre più a fondarsi su un «principio d’indistinzione», con l’effetto di incoraggiare un’interpretazione del mondo – individuale e collettiva – spesso astratta, semplicistica, fuorviante. Come specifica Simonigh, da tale situazione

deriva naturalmente un’uniformità dal potere normativo e totalizzante che – quasi superfluo esplicitarlo – pericolosamente inclina a usi e abusi strumentali dell’immagine e che determina significative conseguenze negli assetti culturali, con ripercussioni ideologiche, politiche, sociali ed economiche su scala mondiale[40].

A tal proposito, sono diversi gli studiosi che nel corso del Novecento hanno visto nell’industria culturale e dello spettacolo un’importante fonte di sostegno ideologico al vigente sistema di potere, constatando il pericolo di una normalizzazione del mondo e di un’omologazione delle coscienze.

In particolare, già nel ‘44, Horkheimer e Adorno sembrano vedere nel progressivo indebolimento della dialettica tra realtà e rappresentazione un significativo fattore di manipolazione:

La vita, tendenzialmente, non deve più potersi distinguere dal film. In quanto esso, battendo di gran lunga il teatro illusionistico, non lascia alla fantasia e al pensiero degli spettatori alcuna dimensione in cui possano – sempre nell’ambito dell’opera filmistica, ma svincolati dai suoi puri dati – spaziare e muoversi per conto proprio senza perdere il filo, addestra le proprie vittime a identificarlo immediatamente con la realtà. L’atrofia dell’immaginazione e la spontaneità del consumatore culturale odierno non ha bisogno di essere ricondotta a meccanismi psicologici[41].

Qualche decennio più tardi, Guy Debord, nella sua riflessione critica sulla società dello spettacolo, arriva a considerare lo spettacolo stesso un’attività specializzata del potere[42], espressione di una «Weltanschauung oggettivata»[43], ovvero di un «discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo»[44]. Se nel ‘67 Debord rileva nello spettacolo una vera e propria «materializzazione» dell’ideologia[45] che si pone nelle sue forme come «presenza permanente» della «giustificazione totale delle condizioni e dei fini dell’esistente»[46], nel 1988, riprendendo e ampliando le sue tesi nei Commentari alla società dello spettacolo, gli riconosce un potere sempre maggiore, in particolare in virtù della sua massiccia diffusione e dell’innovazione tecnologica. L’autore afferma infatti che «lo spettacolo si è mischiato a ogni realtà, irradiandola»[47], arrivando a influenzare la maggior parte dei comportamenti e degli stili di vita. Ecco perché Debord arriva a identificare contenuti e modelli offerti dallo spettacolo con l’autorità stessa[48].

Infine, all’inizio del XXI secolo, proprio l’indistinzione tra la realtà e la sua immagine, soprattutto nell’ambito della globalizzazione culturale, ha portato Jean Baudrillard a denunciare l’esistenza di una «Realtà Integrale», ossia una realtà falsificata, “simulata”, che ben poco ha a che fare col referente reale, espressione dell’egemonia del modello di società occidentale e affermazione della sua presupposta superiorità culturale. In questa chiave, la Realtà Integrale gli appare come «una sorta di purificazione etnica della realtà sotto il segno del Bene, tutto ciò che vi resiste si converte in terrorista e cade sotto l’influenza dell’asse del Male»[49]. Così intesa, la Realtà Integrale sarebbe anche ciò che ha favorito «l’asservimento delle menti a un unico modello»[50], inaugurando così l’era di un’egemonia basata sull’«interiorizzazione del padrone da parte del servo emancipato»[51].

Eppure, nonostante le criticità sollevate in merito allo spettacolo cinematografico, al nuovo statuto dell’immagine e al suo rapporto col referente reale, il cinema può ancora assumere un valido ruolo formativo, spesso incoraggiando una conoscenza della società in senso critico. In che modo? A tal proposito, come suggerisce Malavasi:

Il cinema ha un valore formativo quando rivela una dimensione sconosciuta della realtà che percepiamo, invisibile nella comune rappresentazione del mondo o dimenticata, negletta nel fluire vorticoso dell’esperienza[52].

Dunque, in altri termini si potrebbe affermare che il cinema stimola una conoscenza critica della società quando testimonia di un reale al di là della realtà-simulacro, ovvero quando ci mostra esperienze vissute nel segno della problematicità, della tensione che sempre investe la relazione tra l’uomo e il mondo, tra l’uomo e gli altri. Resta ferma infatti la capacità del cinema – evocata in precedenza – di mostrarci in maniera diretta determinate “esperienze in situazione”, “forme del senso” sulle quali possiamo essere portati a riflettere, accedendo così a chiavi di lettura ulteriori.

In quest’ottica allora, il cinema può farsi strumento di critica sociale, e può farlo in particolare se si sofferma sui rapporti tra l’individuo e la società nel tempo della crisi. L’impegno pedagogico del cinema può tradursi quindi nella messa a punto di uno sguardo critico, riflessivo, interrogante, che, lungi dal proporre una narrazione rassicurante e conciliante con l’ordine esistente, riesca piuttosto a rinvenirne le contraddizioni e gli aspetti “irrazionali” o “irrelazionistici”. D’altronde, se per Sartre l’impegno dello scrittore in quanto mediatore consisteva soprattutto nel restituire ai suoi lettori una «coscienza inquieta»[53], si può allora dire altrettanto dell’autore (o autori) di un’opera cinematografica. In tal caso, in uno stretto rapporto tra vita e cultura, l’inquietudine restituita, oltre ad essere tratto distintivo – in quanto originario –  dell’esperienza esistenziale, si profila anche come una “postura intellettuale” impegnata a suggerire nuove possibilità con le quali concepire noi stessi e il mondo in cui siamo chiamati a progettarci[54]. Naturalmente, il termine “inquietudine” qui ha ben poco a che fare con i significati che gli sono correntemente attribuiti, ma, come specifica Madrussan, riguarda piuttosto

un modo di essere nel mondo che contraddistingue il pensiero interrogante, la curiosità, l’insaziabile desiderio di ulteriorità, perfino una più acuta sensibilità rispetto alla superficialità di ciò che pare noto[55].

Nell’incedere inquieto del pensiero risiede allora una «straordinaria fonte di vitalità formativa»[56] che si esplicita in un «esercizio di relazioni»[57] e, più precisamente in un’«educazione alla problematicità»[58]. Tale è l’autentico impegno formativo cui può puntare l’arte cinematografica: abitare l’inquietudine tentando di porsi al riparo da interpretazioni semplicistiche o da giudizi tranchant, per alimentare un pensiero in grado di schiudere nuove possibilità interpretative e, dunque, nuove possibilità progettuali.

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  1. Cfr. AA. VV. (a cura di A. Erbetta), Decostruire formando. Concetti, pratiche, orizzonti, Como-Pavia, Ibis, 2010.
  2. Cfr. P. Bertolini, L’esistere pedagogico. Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata, Firenze, La Nuova Italia, 1988, pp. 153-156.
  3. Come sottolinea Bertolini, la socialità “fa riferimento ad una rete di relazioni interindividuali che si struttura secondo una «forma» che, proprio in quanto tale, supera o va oltre l’insieme stesso delle relazioni da cui peraltro è sempre costituita. Non a caso la socialità costruisce prodotti suoi propri (il sapere stesso, la cultura in senso antropologico, ma anche quella che viene definita «mentalità di gruppo» ecc.) che pur rinviando all’azione, all’intervento, all’inventiva di singoli individui, non si riducono ad essi ma vanno ben al di là di essi”. Ivi, p. 155.
  4. Cfr. AA. VV. (a cura di A. Erbetta), L’educazione come esperienza vissuta. Percorsi teorici e campi d’azione, Torino, Tirrenia Stampatori, 2005.
  5. In tal caso si può forse estendere al testo filmico ciò che Madrussan suggerisce a proposito del testo letterario, pur tenendo conto delle peculiarità espressive che fanno capo a due forme artistiche assai diverse: “Considerato innanzitutto in quanto medium tra autore e lettore, ogni testo corrisponde a una declinazione specifica del rapporto, stringente e inevadibile, tra vita e cultura”. Cfr. E. Madrussan, Briciole di pedagogia. Cinque note critiche per un’educazione come inquietudine, Roma, Anicia, 2012, p. 82.
  6. Cfr. F. Casetti, L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Milano, Studi Bompiani, 2005, p. 56.
  7. Ivi, pp. 34-39.
  8. Ivi, p. 104.
  9. Cfr. J. P. Sartre, L’imaginaire. Psychologie phénomenologique de l’imagination (1940), trad. it. Immagine e coscienza. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione, Torino, Einaudi, 1976, p. 18.
  10. Ivi, pp. 153-155.
  11. Cfr. L. Termine, C. Simonigh, Lo spettacolo cinematografico. Teorie ed estetica, Torino, Utet, 2003, p. 228.
  12. Ivi, p. 232.
  13. Cfr. E. Morin, Le cinéma ou l’homme immaginaire. Essai d’anthropologie sociologique (1956). trad. it. Il cinema o l’uomo immaginario, Milano, Cortina, 2016, p. 118.
  14. Ivi, pp. 118-119.
  15. Ivi, pp. 94-95.
  16. Ivi, p. 104.
  17. Ivi, pp. 105-106.
  18. Ivi, p. 107.
  19. Cfr. M. Merleau-Ponty, Le cinéma et la nouvelle psychologie (1947), trad. it. Il cinema e la nuova psicologia, in Id., Sens et non sens (1966), trad. it. Senso e non senso, Milano, Il Saggiatore, 1968, p. 74. Come precisa Enzo Paci nell’Introduzione di Senso e non senso, il termine “comportamento” è qui utilizzato da Merleau-Ponty per indicare un’esperienza originariamente ambigua, che non può essere unilateralmente considerata come esperienza esclusivamente soggettiva o esclusivamente oggettiva, ma che si presenta piuttosto come «un modo di essere del rapporto tra gli uomini e un modo di essere del rapporto degli uomini col mondo». Cfr. E. Paci, Introduzione, in M. Merleau-Ponty, Senso e non senso, cit., p. 12.
  20. Cfr. M. Merleau-Ponty, Op. cit., p. 71.
  21. Cfr. E. Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, cit., p. 122.
  22. Cfr. M. Merleau-Ponty, Op. cit., pp. 75-76.
  23. Ivi, p. 80.
  24. Ibidem.
  25. Ivi, p. 81.
  26. Cfr. E. Madrussan, Il relazionismo come paideia. L’orizzonte pedagogico del pensiero di Enzo Paci, Trento, Erickson, 2005.
  27. Cfr. C. Simonigh, Introduzione. Comprendere il cinema, comprendere la complessità, in E. Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, cit., p. X.
  28. In quest’ottica allora, come suggerito da Rondolino e Tomasi, sarebbe opportuno «distinguere fra un’identificazione primaria, quella dello spettatore con la macchina da presa, e un’identificazione secondaria, quella coi personaggi». Cfr. G. Rondolino, D. Tomasi, Manuale del film. Linguaggio, racconto, analisi, Torino, Utet, 2011, p. 152.
  29. Ivi, p. 41.
  30. Cfr. C. Simonigh, Chronique d’un été. Educare all’umanesimo planetario, in “Paideutika”, n. 16. VIII, 2012, p. 66.
  31. Cfr. E. Morin, Les sept savoirs nécessaires à l’éducation du futur, (1999), trad. it. I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, Cortina, 2001, p. 98.
  32. Cfr. C. Simonigh, L’immagine-spettacolo, Roma, Bonanno, 2011, pp. 153-169.
  33. Ivi, p. 42.
  34. Ivi, p. 164.
  35. Ivi, p. 163.
  36. Ivi, p. 164.
  37. Ivi, pp. 93-112.
  38. Ivi, p. 167.
  39. Ibidem.
  40. Ivi, p. 172.
  41. Cfr. M. Horkheimer, T. Adorno, Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente (1944), trad. it. Dialettica dell’Illuminismo, Torino, Einaudi, 1966, pp. 136-137.
  42. Cfr. G. Debord, La société du Spectacle, (1967), trad. it. La società dello spettacolo, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2008, p. 59.
  43. Ivi, p. 54.
  44. Ivi, p. 59.
  45. Ivi, p. 179.
  46. Ivi, p. 54.
  47. Ivi, p. 194.
  48. Ivi, p. 208.
  49. Cfr. J. Baudrillard, L’agonie de la puissance, trad. it. L’agonia del potere, Milano-Udine, Mimesis, 2008, p. 19.
  50. Ivi, p. 16.
  51. Ivi, p. 15.
  52. Cfr. P. Malavasi, Interpretare il testo filmico tra fascinazione e riflessione pedagogica, in AA. VV. (a cura di P. Malavasi, S. Polenghi, P. C. Rivoltella), Cinema, pratiche formative, educazione, Milano, Vita e Pensiero, 2005, p. 60.
  53. Cfr. J. P. Sartre, Situations I, II, III, IV (1947), trad. it. Che cos’è la letteratura?, Milano, Il Saggiatore, 2009, pp. 57-62.
  54. Cfr. E. Madrussan, Educazione e inquietudine. La maoeuvre formativa, Como-Pavia, Ibis, 2017.
  55. Ivi, p. 26.
  56. Ivi, p. 30.
  57. Ivi, p. 31.
  58. Ivi, p. 211.