Numero 13/14 - 2017

  • Numero 13/14 - 2017
  • Primo Piano

La didattica italiana ha fame di retorica

di Flavia Trupia

Presidente di PerLaRe-Associazione Per La Retorica www.perlaretorica.it

Qualcosa di nuovo nella didattica, anzi di antico

Retorica e didattica innovativa: un binomio che sembra una contraddizione. L’arte del dire, che trae le sue origini nella Sicilia ellenica del V secolo avanti Cristo, è considerata oggi una novità della scienza della formazione.

Malgrado la retorica sia una tecnica utile sia per i docenti che per i discenti, il suo insegnamento è ancora scarsamente presente nella formazione italiana, se non come strumento di interpretazione della poesia. In altre parole, ci insegnano a riconoscere le metafore o le anafore in un verso, ma tutto (o quasi) tace sul fronte del parlare in pubblico. Questo articolo intende dimostrare che la retorica dovrebbe tornare al centro della formazione italiana, sia per quanto riguarda la preparazione dei docenti, sia per quanto riguarda la preparazione degli studenti.

In Italia esiste una strana convinzione implicita secondo la quale ci sono discipline che non possono essere insegnate: o lo sai fare o non lo sai fare. Tra queste rientra la capacità di parlare in pubblico. Un’opinione diffusa vuole che “si nasca imparati”. Non è così. Pochissimi hanno la fortuna di nascere bravi oratori, però molti possono diventarlo e tutti possono migliorare. Come? Cogliendo i suggerimenti che vengono dalla retorica.

Cos’è la retorica

Facciamo un passo indietro per chiarire che cos’è esattamente la retorica. Olivier Reboul la definisce “l’arte di persuadere attraverso il discorso”[1].

Generalmente, però, il termine viene usato con un’accezione negativa. Il linguaggio retorico viene inteso come gonfio e pomposo, oppure come prevedibile e trito. Secondo questa interpretazione, si ricorre alla retorica quando si vogliono nascondere intenzioni opache, oppure quando non si ha molto da dire e si vuole riempire il vuoto. È importante sottolineare, invece, che se nel discorso avvertiamo un’enfasi eccessiva, siamo semplicemente di fronte a una cattiva retorica. Perché, quando un oratore mette in campo la buona retorica, l’uditorio non se ne accorge nemmeno. La buona retorica, infatti, non serve a gonfiare un discorso, ma a dare gambe e respiro alle idee. C’è, ma non si vede.

La retorica è, dunque, l’arte della parola e della comprensione del punto di vista dell’uditorio. La capacità di convincere, anche attraverso le emozioni, è alla base di questa disciplina. Nella manualistica antica, si diceva che un oratore dovesse porsi tre obiettivi: docere, informare sul fatto oggetto del discorso; movere, commuovere e coinvolgere l’uditorio; delectare, esporre gli argomenti con vivacità, evitando l’effetto noia, un freno a mano per la comprensione.

Per ottenere questi risultati, l’oratore non deve parlare a se stesso, compiacendosi delle proprie capacità, vere o presunte. Al contrario, deve rivolgersi al pubblico, modulando le sue argomentazioni sulla base delle caratteristiche e degli interessi del suo uditorio.

Retorica per docenti e studenti

Dalla retorica possono essere tratti tanti suggerimenti utili per il docente e per lo studente.

Ogni insegnante sa che il coinvolgimento del proprio uditorio è alla base dell’apprendimento. Nessuno, almeno si spera, vuole parlare con la freddezza delle istruzioni per l’uso della lavatrice. Tutti noi vogliamo che il nostro dire abbia un impatto e generi una memoria. La retorica e l’arte dell’argomentazione ci possono aiutare attraverso vari espedienti. Ne cito solo alcuni. La metafora parla agli occhi e rende vivo un discorso; gli esempi attualizzano argomenti apparentemente lontani; le argomentazioni contrapposte evidenziano i pro e i contro di un tema; le coppie causa-effetto e problema-soluzione sono utili a memorizzare e comprendere; la similitudine si rivela preziosa per trasportare ciò che è sconosciuto e complicato in un mondo conosciuto e semplice. Quest’ultimo punto merita un esempio. Una giovane azienda americana aveva inventato un motore da fissare sotto la tavola da surf, per aiutare il surfista a risalire l’onda, evitandogli la fatica di “remare” con le mani disteso sulla tavola. Il dispositivo è stato presentato agli investitori con una similitudine: “facciamo per il surf quello che la seggiovia fa per lo sci”. La similitudine ha il potere di traslare un concetto, avvicinandolo a un mondo che conosciamo. In questo modo l’inconsueto diventa consueto e il difficile si trasforma in facile.

Non bisogna dimenticare, inoltre, che il docente di oggi deve affrontare aule di ragazzi abituati al linguaggio di YouTube e di Instagram. Ma questo non è un problema, perché i social media attingono a piene mani dall’universo della retorica. Un paio di esempi tra tanti chiariranno il punto. Nell’ottobre 2017, lo youtuber e attore Guglielmo Scilla, in arte Willwoosh, dichiara la sua omosessualità con un video pubblicato su YouTube, servendosi di due espedienti retorici: l’enumerazione e la sprezzatura[2]. Per il suo coming out, Willwoosh recita un decalogo sulle cose che gli piacciono e su quelle che non gli piacciono. Con perfetta simmetria, i punti cinque di entrambe le liste nascondono una sorpresa: “Le cose che mi piacciono – spiega Willwoosh – sono le ciliege, il sushi, i libri, il rumore della pioggia, il xxx (riferimento all’organo sessuale maschile), Londra, l’indie, le stelle, i murales e gli indovinelli. Le cose che non mi piacciono invece sono il caldo, le scale, la febbre, i formaggi stagionati, la xxx (riferimento all’organo sessuale femminile), Charizard (un Pokémon ndr), lo spam, il calcio, le ingiustizie e i marsupi”.

Guglielmo Scilla riesce nell’intento di parlare di un argomento complicato con grande semplicità e leggerezza, dimostrando di saper usare anche una buona dose di sprezzatura, la capacità di far sembrare facile una cosa comunemente considerata difficile. Il video di Willwoosh ha ottenuto, fino a ora, più di un milione di visualizzazioni.

Ma questo non è il solo esempio. I rapper usano le metafore per arricchire la barra, ossia il verso, e le figure di suono per garantire il flow, il ritmo: “ho sogni troppo grandi per il mio cassetto” rappa Rocco Hunt nel suo brano “Happy meal”[3].

Questi due esempi dimostrano che gli studenti sono pronti a interpretare le figure retoriche, quando le incontrano, ma che potrebbero anche essere invitati a usarle con consapevolezza nelle occasioni nelle quali cono chiamati a raccontare, illustrare, dimostrare o riassumere. Insomma nelle occasioni comunicative tipiche dei contesti scolastici e universitari. Un’abitudine all’uso della retorica servirà loro anche nella vita e nel lavoro, dove è importante far valere le proprie ragioni attraverso lo strumento della parola. Da qui emerge una certezza. La retorica non è solo materia per umanisti, ma è la disciplina di tutti. In qualsiasi mestiere è utile saper esporre un argomento e comprendere le motivazioni del proprio interlocutore.

Tre ragioni per inserire la retorica nella formazione italiana

La retorica aiuta a parlare, a comprendere, ad ascoltare, a colpire nel segno, a essere ricordati. Sono moltissime le ragioni che dovrebbero indurre a rendere la retorica una materia trasversale di ogni indirizzo di studio. In questo articolo ne riportiamo tre.

La prima. La retorica offre strategie per parlare meglio, per gestire il corpo e per spiegare con efficacia concetti complessi.

La seconda. L’arte del dire è anche arte di ascoltare. Una capacità utile, in un mondo dove troppi si parlano addosso e si autocitano, perdendo il contatto con i propri interlocutori. Non dimentichiamo che chi è bravo a comunicare è, prima di tutto, bravo ad ascoltare.

La terza. La conoscenza della retorica è un vaccino contro forme di manipolazione e populismo. Queste ultime fanno uso di ragionamenti fallaci, solo apparentemente logici. Non solo, giocano a sostituire l’episteme con la doxa, ossia la ricerca della vera conoscenza e comprensione con la pura opinione. È il meccanismo alla base della diffusione delle fake news nei social media.

Affrontiamo il primo punto, al quale abbiamo già accennato nel paragrafo precedente. Il canone della retorica ci viene in soccorso. Secondo la retorica antica, chi compone un discorso deve attraversare cinque fasi. La prima è l’inventio: la ricerca degli argomenti e degli altri mezzi di persuasione. La seconda è la dispositio: lo schema del discorso, l’ordine degli argomenti (la scaletta), in modo che il dire risulti chiaro. La terza è l’elocutio: lo stile del discorso con le sue figure, che lo rendono più persuasivo. La quarta è la memoria: il ricordare a memoria il discorso, compito reso più facile oggi dall’uso delle slide. La quinta è l’actio: la recitazione del discorso, anche grazie al linguaggio del corpo.

Sono pochi coloro che, prima di preparare un discorso, una lezione o una presentazione, passano in rassegna questi punti. Ed è un peccato, perché spesso il risultato è scadente proprio perché non si è tenuto conto dei vincoli e dei suggerimenti che questo schema propone. Molti oratori si concentrano sulle figure e sui coup de théâtre dell’elocutio invece che sui contenuti che avrebbero dovuto trovare grazie all’inventio. Il risultato è manieristico e falso. Altri, invece, si focalizzano solo sui contenuti, sicuri di riuscire ad affermarne la forza. Non sempre è così. I contenuti hanno bisogno di essere comunicati e, per farlo, servono lo schema della dispositio, le figure dell’elocutio, ma anche il calore dell’actio. Altri ancora puntano tutto sull’actio, facendosi trasportare da un’estasi piaciona. I piacioni piacciono, è vero. Ma, alla lunga, non convincono.

Il linguaggio del corpo, l’actio, merita un approfondimento. Molti di noi, quando parlano in pubblico, dimenticano di avere gambe, braccia, occhi e respiro. Si vedono docenti che parlano seduti dietro a una scrivania, con le braccia nascoste sotto al tavolo; studenti che espongono la loro tesina guardandosi i piedi; ricercatori alle prime armi che espongono il frutto del loro lavoro andando a tratti in apnea, abitudine che porta ad accompagnare con un “eeeeh” ogni frase. Sono errori comuni, comunissimi, che possono essere corretti con un po’ di allenamento. I cattivi oratori sarebbero buoni oratori, se qualcuno dicesse loro come migliorare. Ma nessuno lo fa.

Altro aspetto fondamentale per un oratore sono i supporti. Quante volte i testi delle slide sono illeggibili e graficamente respingenti? I video non si sentono? Gli istogrammi sono comprensibili solo per la mente perversa che li ha elaborati? Troppe. Se volessimo fare la hit parade delle slide più brutte del pianeta, avremmo l’imbarazzo della scelta. Nel XXI secolo, una retorica a supporto della didattica deve insegnare anche questo, sia ai professori che agli studenti[4].

Cambiamo argomento e passiamo al secondo punto: la retorica ha a che fare anche con l’ascolto. Chiariamo subito un equivoco. Molto spesso vengono spacciati per bravi oratori personaggi che parlano senza interrompersi mai e senza mostrare segni di imbarazzo o di esitazione. Non bisogna tuttavia confondere la parlantina con l’arte di comunicare, ossia con la capacità di entrare in sintonia con l’uditorio, di anticiparne le esigenze, di capire quando è stanco e ha bisogno di passare a un argomento più leggero. L’oratore navigato capisce se il suo discorso è chiaro dagli sguardi che ha di fronte. Non serve essere perfetti, quello che serve è guardare i componenti dell’uditorio, uno per uno. Lo scopo è coinvolgerli nel ragionamento, portarli con sé, per mano, in un viaggio. Se riusciamo a fare questo, non importa se talvolta trapela un po’ di imbarazzo o se non siamo sempre fluidi nell’esposizione. Quello che importa è la voglia di uscire da se stessi, dalla propria vanità o dalla propria ansia da prestazione. Due condizioni opposte che portano allo stesso risultato: un oratore incapace perché troppo concentrato su se stesso.

E ora il terzo punto: la retorica come vaccino[5] contro fake news, inferenze indebite e bufale varie che vengono spacciate come verità indiscutibili. Farsi un’opinione sull’attualità senza conoscere il meccanismo delle fallacie è come andare nudi al Polo Nord. Ma cosa sono le fallacie? Si tratta di ragionamenti solo apparentemente logici, ma che in realtà nascondono una volontaria o involontaria manipolazione della verità[6]. Un esempio classico è quando si fa passare un’opinione personale per un dato di fatto oppure si distrugge una tesi con argomentazioni che sembrano logiche, ma non lo sono. Le fallacie sono comunemente utilizzate nelle riunioni di lavoro, in famiglia, nella politica e nel Web. Gli hater, gli odiatori professionisti dei social, le adorano!

Un esempio classico di notizia fallace riguarda la sicurezza. I casi di criminalità di cui parlano i media hanno portato alla certezza diffusa – e spacciata come verità – di un aumento del pericolo in Italia, anche a causa degli immigrati. Non è così. Lo dice l’annuario Istat 2017, i cui dati sono riferiti al 2016[7]: il numero di omicidi, furti e rapine è diminuito del 4,5 per cento. Ma il meccanismo della fallacia è sordo nei confronti del dato. Ogni singolo caso subisce una generalizzazione indebita, fino a far percepire una realtà completamente inventata: un’Italia in cui la criminalità dilaga e aumenta mese dopo mese. Non come una volta, quando si poteva stare tranquilli…

Le fallacie sono alla base della fake news sui vaccini che provocano l’autismo; del fiorire dei consigli sulle diete che vengono da tutti, tranne che dagli esperti in scienza della nutrizione; delle polemiche sulla prevedibilità dei terremoti e così via. La doxa, l’opinione diffusa, vince sull’episteme, il ragionamento che tende alla vera conoscenza e comprensione. “La doxa è (…) opinione, credenza comune, è quello che ritiene, o può essere indotta a ritenere, la gente della strada, senza basarsi su prove o argomentazioni strutturate” scrive Mark Thompson, ex direttore generale della BBC e oggi amministratore delegato del New York Times, nel suo libro La fine del dibattito Pubblico [8].”La doxa appartiene al mondo della retorica, è la moneta di scambio dei retori” aggiunge Thompson.

Attenzione, però, le fallacie non devono essere demonizzate. Esistono e sono sempre esistite. La differenza, rispetto al passato, è la loro diffusione capillare attraverso il web. Tutti usiamo le fallacie ed è naturale che continuiamo a farlo. L’importante è avere la consapevolezza dell’arma che abbiamo in bocca, quando ce ne serviamo, e di cosa abbiamo davanti, quando le subiamo.

Lo studio delle fallacie, inoltre, non riguarda solo le materie umanistiche, ma anche le materie scientifiche. Le donne e gli uomini di scienza devono essere in grado di difendere il frutto del loro lavoro, evitando che sia distrutto da un post virale su Facebook.

Due format didattici: la “Guerra di Parole” e il “Grande Processo della Retorica”

“Nessuna verità può essere veramente capita e predicata con ardore se prima non sia stata masticata dai denti della disputa” sosteneva Pietro Cantore nel XII secolo. In linea con questo principio, PerLaRe-Associazione Per La Retorica ha sperimentato due format didattici, che hanno lo scopo di preparare al parlare in pubblico, alla negoziazione e al dibattito: la “Guerra di Parole” e il “Grande Processo della Retorica”.

La “Guerra di Parole”, sul modello medievale della disputatio in utramque partem, è una formula che coglie l’essenza stessa della negoziazione e del dibattito civile. Il bravo oratore, infatti, è capace di capire le ragioni e la psicologia del proprio interlocutore, mettendosi nei suoi panni e riuscendo a indovinare quali saranno i punti sui quali cederà e quali quelli sui cui sarà inflessibile.

I partecipanti, divisi in due squadre, devono sostenere una tesi e poi il suo contrario, dibattendo gli uni contro gli altri. Il dibattito deve essere civile: è vietato interrompere, parlare per troppo tempo, insultare. Ma si possono usare espedienti retorici e fallacie.

Le due squadre, preparate da PerLaRe-Associazione Per La Retorica, si devono organizzare, scegliendo le argomentazioni e designando i propri portavoce. Il format prevede due round. Ogni round comprende: un appello iniziale di un minuto, un dibattito di 20 minuti e un appello finale di un minuto. Nel secondo round la sequenza si ripete identica, ma le posizioni da sostenere si invertono: la squadra che sosteneva “A” dovrà sostenere “non A” e viceversa. Una giuria, composta da persone che hanno fatto della parola il proprio mestiere, decreta la squadra vincitrice.

PerLaRe-Associazione Per La Retorica ha organizzato due edizioni della “Guerra di Parole” tra gli studenti di diverse facoltà dell’Università di Tor Vergata e i detenuti del carcere di Regina Coeli. Nel 2016 i partecipanti hanno dibattuto sui confini della legittima difesa, mentre nel 2017 sulla verità, la bugia e le fake news. La “Guerra di Parole” ha vinto il premio Prodotto Formativo dell’Anno della rivista Persone e conoscenze. Partner del progetto, oltre all’Università degli Studi di Tor Vergata, sono la Crui-Conferenza dei Rettori delle Università Italiane e Toyota Motor Italia. La Regione Lazio ha dato il patrocinio all’iniziativa.

Una formula simile alla “Guerra di Parole” ha luogo oggi nelle scuole superiori con la sfida oratoria del “Debate”, al quale nel 2018 prenderà parte anche PerLaRe.

Il “Grande Processo della Retorica”, invece, è una formula che ha l’obiettivo di sviscerare i pro e i contro di un argomento, misurando, al contempo, l’abilità degli oratori. Le “parti” del processo sono rappresentate da due oratori che devono dibattere sull’innocenza o la colpevolezza di un tema. Ad esempio, un oratore sosterrà che il merito è innocente e l’altro che il merito è colpevole. Un giudice farà da moderatore e il pubblico decreterà l’innocenza o la colpevolezza del tema attraverso un applausometro.

Nel complesso il Processo dura 30 minuti. Dopo 15 minuti, è prevista una pausa per consentire al pubblico di avvicinarsi ai contendenti e sussurrare loro suggerimenti per il proseguimento del dibattito. Oltre a PerLaRe-Associazione Per La Retorica, partner del Processo sono: Luiss Business School, Associazione Civita e – nell’ultima edizione – Federmanager Roma e ConcretaMente. Il progetto ha ottenuto il patrocinio della Regione Lazio. Nel 2017 sono stati processati i seguenti temi: innovazione, predica, tottismo (mito della persona famosa che diventa maestra di etica e di estetica), algoritmo, Europa (in collaborazione con la Fondazione De Gasperi), merito (in collaborazione con Federmanager Giovani e Federmanager Roma).

La Guerra e i Processi sono giochi retorici che simulano quanto succede nella vita, dove ci si confronta, ci si scontra e, solo qualche volta, si trova un accordo. L’obiettivo non è convincere o trovare una soluzione. L’obiettivo è dimostrare che si può discutere in modo pacifico e proficuo e che, per farlo, non basta improvvisare ma bisogna rispettare le regole e prepararsi. Civiltà, voglia di mettersi in gioco e tecnica: questa è la retorica che ci piace.

Flavia Trupia

Presidente di PerLaRe-Associazione Per La Retorica

  1. Reboul, O., Introduzione alla retorica, Bologna, Il Mulino, 2002.
  2. http://www.perlaretorica.it/quando-scopri-che-a-tuo-figlio-piacciono-i-marsupi/
  3. Hunt, R, Happy Meal in Poeta urbano, Sony Music, 2013.
  4. Anderson, C., TED Talks, The Official Guide to Public Speaking, New York, New York Times Bestsellers, 2016.
  5. Trupia, F., L’esavalente della retorica, vaccinarsi da politici e hater, in Huffington Post, 10 luglio 2017 http://www.huffingtonpost.it/flavia-trupia/l-esavalente-della-retorica-vaccinarsi-da-politici-e-hater_a_23023221/)
  6. D’agostini, F., Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico, Torino, Bollati Boringhieri, 2010.
  7. Istat, Annuario statistico italiano, 2017 (https://www.istat.it/it/archivio/207188).
  8. Thompson, M., La fine del dibattito Pubblico. Come la retorica sta distruggendo la lingua della democrazia, Milano, Feltrinelli, 2017.