L’idea di organizzare un ciclo d’incontri sulla DIDATTICA INNOVATIVA ALL’UNIVERSITÀ di Roma “Tor Vergata” è nata da un’esigenza di fondo, generale quanto ambiziosa: quella d’interrogarsi sulle modalità con cui sia possibile, in qualche modo, apportare un contributo perché l’Italia riesca a entrare – rientrare – nella “società della conoscenza” da protagonista.
La sfida potrebbe anche apparire temeraria e in qualche modo del tutto utopica se non ci fossero le ricerche, le riviste e le cattedre di Storia delle università sorte negli ultimi decenni a ricordarci come il Paese – inteso in senso non certo politico-istituzionale quanto culturale – nel passato riuscì a eccellere nel mondo solo nelle fasi in cui, mettendo al centro delle politiche dei governi la cultura, nelle sue diverse declinazioni, seppe impegnarsi nel sostegno e nella promozione degli studi superiori, sia attivando insegnamenti sia favorendo l’acquisizione di linguaggi, di saperi e di competenze diverse tra docenti e studenti.
Non è certo questa la sede per ripercorrere fasi e percorsi che affondano le radici in sistemi e organizzazioni di conoscenze stratificati, profondamente variabili nei tempi e negli spazi.
Mi limito solo a sottolineare alcuni elementi.
In primo luogo, nonostante i mutamenti e le difficoltà del passato e del presente resta innegabile come il livello complessivo della ricerca del nostro sistema universitario sia più che buono e in diversi casi eccellente, anche se, paradossalmente, i ricercatori italiani, ai primi posti per la produttività scientifica, risultano agli ultimi per finanziamenti in Europa. Non voglio unirmi al coro di chi lamenta la “fuga dei cervelli”, ritenendola ipocrita (alla constatazione non corrispondono né investimenti per le università né soluzioni politiche efficaci) e fuorviante (la ricerca è internazionale; nessun Paese deve essere geloso dei propri studiosi, piuttosto si deve chiedere come fare per attrarre cervelli stranieri). Di fronte all’esodo dei nostri laureati, bisogna seriamente valutare il rischio che il sistema nazionale possa divenire periferico nel sistema globale dell’educazione.
Pur tra innumerevoli problemi e contraddizioni, resta il fatto che le università italiane hanno comunque saputo assorbire i mutamenti profondi che la società civile ha registrato dal secondo dopoguerra in avanti. Non solo il numero degli studenti è fortemente aumentato, ma è profondamente cambiato anche nella sua composizione interna. Alla notevole crescita della domanda d’istruzione da parte di giovani di condizioni precedentemente escluse dall’istruzione superiore, si sono infatti aggiunte nuove componenti generazionali, adulte e prima pressoché inesistenti, che, attraverso gli speciali permessi riconosciuti ai lavoratori e al lifelong learning hanno mutato, quantitativamente e qualitativamente, la popolazione degli iscritti. Ancora: i nuovi sistemi d’incentivazione della mobilità – Erasmus e simili -, i tirocini e la più generale internazionalizzazione hanno contribuito a trasformare radicalmente il livello della preparazione degli universitari, nonché il loro grado di conoscenza delle lingue. Grazie alle più generali trasformazioni geopolitiche, informatiche e delle comunicazioni, la fisionomia di una popolazione studentesca territorialmente omogenea non esiste più, per fortuna.
Mentre le professioni di ieri e di oggi stanno subendo profonde trasformazioni, si profilano inoltre nuove professioni di cui nessuno al momento è in grado di stabilire con precisione sbocchi e destini, e ciò, unito ai significativi e altrettanto inevitabili cambiamenti degli ambiti disciplinari, non può che sollecitare i docenti e le componenti apicali delle realtà accademiche a interrogarsi profondamente sulla validità e sull’efficacia sia delle strutture didattiche esistenti sia dei metodi d’insegnamento praticati. Non si può infatti continuare a trasmettere saperi e conoscenze con i linguaggi di venti, trent’anni fa, ignorando – o facendo finta d’ignorare – le mutazioni in atto: le capacità e le forme di apprendimento sono profondamente mutate e del tutto differenti già rispetto a quelle dell’ultima generazione sono le motivazioni e le aspettative degli studenti, iscritti e potenziali iscritti.
Una sollecitazione nei confronti della realizzazione di percorsi volti a sostenere il miglioramento della competenza didattica dei docenti universitari deriva certo dall’affermarsi dell’informatica e dei nuovi mezzi di comunicazione e dall’esigenza di conoscerne e saperne applicare le potenzialità che esse offrono da un punto di vista didattico. Non si tratta però solo di limitarsi ad apprendere delle tecniche o di adeguarsi passivamente al nuovo, quanto d’interrogarsi, più in generale, sulla tenuta di sistemi che, senza nulla togliere ai valori della tradizione culturale e scientifica praticata, riescano a essere più approfonditi e più articolati, più flessibili e aperti al confronto.
Già il Processo di Bologna aveva posto le basi per un’indispensabile riflessione in tal senso, Mirando a favorire una più ampia partecipazione all’istruzione universitaria e a ridurre il numero degli abbandoni e il periodo di permanenza all’università, esso aveva auspicato una più efficace integrazione tra didattica e ricerca e un miglioramento complessivo dei contesti di apprendimento degli studenti, a fine di garantire adeguate condizioni per il completamento degli studi.
La messa a punto di specifici itinerari formativi appare pertanto come un dovere morale e come un’opportunità per i docenti, giovani e meno giovani, che devono essere sollecitati e supportati a imparare a coniugare il concetto di università di massa con quelli di qualità e di equità.
Se vogliamo – dobbiamo – far entrare l’Italia da protagonista nella “società della conoscenza”, non possiamo esimerci dal continuare, con umiltà ed entusiasmo, sulla via della ricerca, dell’innovazione tecnologica e della formazione, appunto, intendendoli come segmenti fortemente correlati e inseriti in processo continuo che non può considerarsi mai completato definitivamente.
La società del nostro Paese ha bisogno – come, d’altra parte, ogni società – che la cultura sia accessibile a tutti e che il sapere costituisca un’opportunità per tutti, secondo quanto afferma la stessa Costituzione nel ribadire che compito della Repubblica è di «rimuovere gli ostacoli». Senza un solido sistema di alta educazione e di ricerca scientifica non potrà mai esserci uno sviluppo maturo. Se conoscenza significa soprattutto ricerca costante, innovazione, metodologica e tecnologica, e formazione, formazione universitaria, è però evidente che, per aumentare la qualità e l’equità nella conoscenza, si rende indispensabile una messa a punto mirate di strategie, strategie non certo realizzate dall’alto, contro o anche solo senza gli studenti, i docenti, i ricercatori, i tecnici, ma insieme – studenti, docenti, ricercatori, tecnici – nel pieno rispetto del valore più prezioso coltivato dalla comunità scientifica: l’autonomia.
L’obiettivo generale, mi sembra, dovrebbe essere quello di ridurre la frammentazione e la proliferazione delle cattedre e delle discipline, elevando gli standard di qualità dei corsi, in costante sinergia con l’opinione pubblica, la tanto citata “terza missione”.
E’ dunque partendo da queste premesse che l’Università di Roma “Tor Vergata” ha deciso di avviare percorsi articolati di esperienze formative mirate per gli accademici. Nel quadro dell’acquisita consapevolezza della necessaria valorizzazione della formazione, l’intento è quello di costruire curricoli in relazione a una progettazione collegiale in cui vengano esplicitati gli apprendimenti attesi e i nuovi compiti connessi di riconoscimento degli apprendimenti pregressi in vista di un’attuazione positiva delle politiche del lifelong learning.
L’incontro presso la Macroarea di Lettere e Filosofia si è posto solo come il primo momento di una riflessione congiunta, a cui ne seguiranno presto altri nelle diverse Facoltà/Macroaree dell’Ateneo. Destinatari, saranno le fasce più giovani coinvolte nella didattica universitaria e quanti, pur accademicamente più maturi, avvertano comunque l’esigenza di porre in discussione i fondamenti e i linguaggi della loro trasmissione del sapere.
Coordinatrice della Macroarea
Lettere e Filosofia
Università di Roma “Tor Vergata”