1. Competenze e employability
In base ai risultati dell’ultima indagine PISA[1], gli studenti italiani che raggiungono il livello minimo di competenza (livello 2) sono due punti percentuali superiori alla media OCSE (27% invece che 25%). Tuttavia, anche gli studenti che non raggiungono il livello 2 sono in percentuale maggiore rispetto alla media internazionale (23% invece che 21%), mentre gli studenti ai livelli alti di competenza (livello 5 o superiore) sono in percentuale minore (4% rispetto a 8%). Molti giovani non dispongono, inoltre, di adeguate competenze digitali[2], risultando, quindi, più esposti al rischio di incontrare, nel corso della loro vita, maggiori ostacoli nell’inserimento sociale e nell’occupabilità[3].
Il numero dei giovani non più in istruzione ma occupato aumenta al crescere dell’età: dal 20,4% nella classe di età 15-19 anni, al 49,6% nella classe 20-24 anni, al 61,0% per i 25-29enni fino al 68,3% in coloro che hanno 30-34 anni. Anche a parità di tempo di esposizione nel mercato del lavoro appare evidente l’effetto del titolo di studio sui livelli di occupazione[4].
Per quanto riguarda la distribuzione sul territorio nazionale, i giovani residenti nelle regioni meridionali presentano un numero di ingressi nel mercato del lavoro notevolmente inferiore al resto del Paese, confermando condizioni di maggiore difficoltà nell’inserimento occupazionale. È difatti occupato il 42,7% dei giovani usciti dal sistema di istruzione del Mezzogiorno, il 65,5% del Centro e il 73,2% del Nord, mentre il tasso di occupazione dei giovani stranieri non più in istruzione è inferiore a quello degli italiani (56,6%)[5]. Poco più di un giovane su due ha un’occupazione alle dipendenze a tempo indeterminato, con incidenze maggiori al Nord (57,8%) rispetto al Mezzogiorno (51,5%). Anche questa tipologia contrattuale – poco diffusa nelle classi di età più giovani – aumenta al crescere dell’età; resta tuttavia intorno al 50% tra i giovani di 25-29 anni e solo tra quelli di 30-34 anni raggiunge il 64,3%. Il lavoro autonomo è più diffuso tra gli uomini e tra i giovani che hanno raggiunto un elevato livello di istruzione; riguarda, poi, più estesamente i residenti del Mezzogiorno, area nella quale 2 giovani su 10 hanno un’attività autonoma[6].
Le forti differenze nei tassi di occupazione per classi di età, pur dovute in parte alla maggiore occupabilità che si osserva al crescere del livello di istruzione posseduto, sono indice di tempi di transizione scuola-lavoro eccessivamente lunghi. La bassa integrazione tra scuola e imprese in Italia è considerata tra le cause principali di questo faticoso ingresso dei giovani nel mercato del lavoro ed è sicuramente alla base del numero di NEET (Not in Education, Employment or Training: giovani disoccupati e al di fuori di qualsiasi ciclo di istruzione e formazione) più alto d’Europa e di una disoccupazione giovanile ben oltre il 40%[7]. Viceversa, molte aziende dichiarano di non trovare le competenze necessarie per entrare nel vivo della nuova Industria 4.0, che scaturisce dalla quarta rivoluzione industriale del tutto automatizzata e interconnessa[8].
Un dato comunque incoraggiante è quello riguardante le esperienze dei giovani nel mondo del lavoro: il 25,8% dei diplomati e il 36,1% dei laureati hanno, infatti, effettuato stage, tirocini o apprendistati all’interno del programma d’istruzione.
In effetti, si segnala una rinnovata coscienza dell’utilità educativa, formativa e occupazionale delle esperienze di alternanza scuola-lavoro, tirocinio e apprendistato[9]. Sia nel Jobs Act, sia nella riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione, nota come “La Buona Scuola”, l. 13 luglio 2015, n. 107, il problema della disoccupazione giovanile è stato, infatti, affrontato con norme che riguardano non solo il lavoro, ma anche percorsi formativi on the job quali parti integranti l’attività didattica sia negli istituti scolastici che nelle università[10].
In entrambi i testi di legge, l’alternanza scuola-lavoro si è venuta a configurare quale metodologia pedagogica di formazione integrale della persona. Questo metodo mira non solo a facilitare il futuro ingresso dei giovani all’interno del mercato del lavoro ma, più in generale, a sviluppare la cultura, la personalità, la maturità necessaria per consentire all’individuo di partecipare attivamente alla società in cui è inserito e, di conseguenza, di gestire con più facilità le transizioni all’interno del mercato del lavoro. Come si evidenzia nella Guida operativa sull’alternanza scuola-lavoro – in coerenza con la mission dell’istruzione e della formazione di perseguire obiettivi quali la cittadinanza attiva, lo sviluppo personale e il benessere – l’alternanza scuola-lavoro ha il merito di integrare il mondo della scuola e quello dell’impresa ospitante nella consapevolezza che “per uno sviluppo coerente e pieno della persona, è importante ampliare e diversificare i luoghi, le modalità e i tempi dell’apprendimento”[11].
Tale obiettivo risulta peraltro coerente con le raccomandazioni della Commissione Europea che, in una sua recente Comunicazione in tema di “Sviluppo scolastico ed eccellenza nell’insegnamento per iniziare la vita nel modo giusto”[12], ha invitato i Paesi membri a collegare l’apprendimento a esperienze di vita reale giacché questo conduce a risultati migliori nel campo scolastico. In particolare, a parere della Commissione, occorre favorire lo studio imperniato su progetti e problemi, le esperienze di lavoro sul campo, l’apprendimento attraverso lo svolgimento di lavori di pubblica utilità perché tutto ciò rafforza la motivazione dei giovani, contestualizza il contenuto degli studi e offre opportunità per lo sviluppo delle competenze sociali, civiche e imprenditoriali[13]. Soprattutto nel settore scientifico, tecnologico, ingegneristico e matematico, poi, l’istruzione è più efficace se legata a sfide economiche, ambientali e sociali, o legate all’arte o al design, poiché si dimostra la sua pertinenza con la vita quotidiana[14].
2. L’alternanza scuola-lavoro
I commi dal 33 al 43 dell’art. 1 della l. 13 luglio 2015, n. 107, hanno strutturato la metodologia didattica dell’alternanza scuola-lavoro nell’offerta formativa di tutti gli indirizzi di studio della scuola secondaria di secondo grado[15]. Tale metodologia combina, in modo intermittente e reiterato, la formazione in aula con periodi di apprendimento in ambienti lavorativi aziendali, pubblici o del no profit, senza la costituzione di un rapporto di lavoro[16].
La legge n. 107/2015 ha così reso strumento centrale di connessione fra mercato del lavoro e sistema scolastico l’alternanza scuola-lavoro nel tentativo, da una parte, di ridurre lo iato che spesso si registra tra competenze formate in aula e competenze richieste dal mercato (skill mismatch)[17], e, dall’altra, di preparare i giovani a confrontarsi con realtà lavorative già dai 15 anni, aiutandoli a orientarsi meglio verso il proprio futuro lavorativo, offrendo loro la possibilità di scoprire le proprie attitudini, l’importanza delle soft skills relazionali (lavoro di squadra, linguaggio, atteggiamento proattivo) e personali (responsabilità, autonomia), nonché di rafforzare le skills tecniche, aumentando, in questo modo, la loro employability.
Il percorso di alternanza viene progettato in sinergia tra scuola e impresa, o altro ente ospitante[18], stabilendo, nel corso del singolo anno o del triennio, un graduale e progressivo coinvolgimento degli studenti in attività di apprendimento attivo e pratico presso l’ente ospitante.
Quest’obbligo di progettazione e realizzazione di percorsi di alternanza scuola-lavoro è stabilito nella misura minima di 400 ore negli istituti tecnici e professionali e di 200 ore nei licei nell’arco del triennio. Le scuole e gli enti ospitanti sono chiamati a collaborare fra di loro per fornire ai giovani esperienze formative, in aula e nel contesto lavorativo; accompagnare gli studenti a sperimentare ambiti e ruoli di lavoro (funzione orientativa dell’alternanza); far comprendere il funzionamento dell’impresa (funzione professionalizzante per l’apprendimento organizzativo) e della vita lavorativa (funzione professionalizzante per l’apprendimento delle competenze trasversali/soft skills); far applicare le conoscenze apprese a scuola a una o più attività specifiche (funzione professionalizzante per l’apprendimento di competenze tecniche e motivazione allo studio, scoprendo l’utilità di ciò che si sta imparando a scuola); far conoscere le caratteristiche e le richieste che provengono dal mercato del lavoro del proprio territorio (funzione informativa dell’alternanza). Tale percorso può essere realizzato anche all’estero, svolto durante la sospensione delle attività didattiche, sviluppato secondo la modalità dell’impresa formativa simulata.
L’impresa, l’ente o l’organizzazione ospitante assume, quindi, il ruolo di ambiente di apprendimento complementare essendo riconosciuta dal Legislatore, oltre che come luogo di produzione, come luogo di sviluppo educativo dei giovani[19].
Da tali percorsi di alternanza scuola-lavoro ci si attende, quindi, l’aumento dell’employability dei giovani, in quanto saranno più consapevoli delle caratteristiche del mercato del lavoro, delle loro preferenze lavorative e del percorso formativo e professionale che dovranno seguire per poter svolgere il tipo di lavoro verso cui si sentono attratti. Saranno, inoltre, maggiormente in grado di mettere in pratica le conoscenze apprese sui banchi di scuola attraverso il passaggio dal sapere al “saper fare”.
3. L’apprendistato
Non è presente, invece, nella riforma “La Buona Scuola” l’istituto dell’apprendistato[20]. Inizialmente inserito come strumento contrattuale per mettere in pratica la metodologia dell’alternanza scuola-lavoro, l’apprendistato è ora regolato dal d.lgs. 15 giugno 2015 n. 81, recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183.”, c.d. Jobs Act., successivamente aggiornato attraverso il Decreto Interministeriale 296/2015 e il d.lgs. n. 185/2016[21]. Con gli artt. 41-47 del d.lgs. n. 81/2015 è stato creato il modello italiano di sistema duale, fondato su un raccordo sistematico, organico e continuo di formazione e lavoro attraverso l’azione integrata di istituzioni formative e imprese[22].
Diverse sono le novità in materia di apprendistato rispetto alla precedente disciplina, ma permane la sua causa mista “formazione-lavoro” del contratto[23]. Infatti, l’art. 41 comma 1 del d.lgs. 81/2015, contenente la definizione di apprendistato, afferma che tale tipologia contrattuale è da considerarsi quale “contratto a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e all’occupazione”. Per tale motivo i datori di lavoro sono tenuti a corrispondere all’apprendista non solo la retribuzione per la prestazione lavorativa, ma anche la formazione necessaria per conseguire gli obiettivi previsti dal progetto formativo inserito nel contratto, favorendo lo sviluppo delle competenze fissate nel piano formativo individuale, ma ottenendo, in cambio di questo investimento formativo, una serie di vantaggi contributivi e fiscali.
Come nella precedente normativa, il contratto di apprendistato si declina in tre tipologie: l’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore (I livello); l’apprendistato professionalizzante (II livello); l’apprendistato di alta formazione e ricerca (III livello).
Vi sono principi comuni a tutti e tre le tipologie, ma vi sono anche caratteristiche specifiche per ognuna di esse. Elementi comuni sono: la forma scritta del contratto[24], il piano formativo individuale (PFI) che descrive gli obiettivi formativi che devono essere raggiunti[25], la durata minima di 6 mesi, la disciplina del recesso[26] e del preavviso[27], il divieto di retribuzione a cottimo, la possibilità di inquadrare il lavoratore fino a due livelli inferiori rispetto a quello spettante[28] o, in alternativa, di stabilire la retribuzione dell’apprendista in misura percentuale e proporzionata all’anzianità di servizio[29], la presenza di un tutor o referente aziendale, la possibilità di finanziare i percorsi formativi aziendali tramite i fondi paritetici interprofessionali, la possibilità di riconoscere la qualificazione professionale ai fini contrattuali e le competenze acquisite ai fini del proseguimento degli studi o dei percorsi d’istruzione degli adulti, la registrazione nel libretto formativo della formazione effettuata e della qualificazione professionale ai fini contrattuali acquisita, la possibilità di prolungare il periodo di apprendistato[30], la possibilità di definire forme di conferma in servizio al termine del periodo formativo, i limiti numerici di apprendisti da inserire in base alla dimensione dell’impresa[31], la non ammissibilità di apprendisti con contratto di somministrazione a tempo determinato. A parte questi principi comuni, la disciplina del contratto di apprendistato è rimessa ad accordi interconfederali, ovvero ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Per quanto riguarda la registrazione della formazione, essa deve avvenire secondo le indicazioni del d.lgs. n. 13/2013 in base al quale è di competenza dell’azienda registrare la formazione effettuata per il conseguimento della qualificazione professionale, mentre è di competenza delle istituzioni formative e degli enti di ricerca registrare l’attività formativa per gli apprendisti di primo e terzo livello (comma 2 dell’art. 45). E’ inoltre stabilita la costituzione del repertorio delle professioni in grado di correlare standard formativi e standard professionali (comma 3 art. 45).
3.1. L’apprendistato c.d. di “primo livello”
L’apprendistato c.d. di “primo livello” consente non solo di conseguire la qualifica triennale o il diploma professionale dei percorsi di istruzione e formazione professionale regionali, ma permette anche di acquisire il certificato di specializzazione tecnica superiore e il diploma di scuola secondaria superiore (comma 2, lett. a). Questo tipo di apprendistato si ispira all’esperienza tedesca del sistema duale e prevede una corresponsabilità educativa fra impresa e istituzione formativa con ampia incidenza della formazione esterna all’ente ospitante.
Esso è pensato, soprattutto, per i giovani che devono terminare il periodo del diritto-dovere di istruzione e formazione poiché permette di conseguire un titolo con valore legale. E’, quindi, il contratto ideale per il recupero dei giovani NEET, per l’inserimento di giovani studenti IeFP, IP, IT[32] (sia per chi ha una passione per un mestiere o una professione, sia per quelli considerati difficili o semplicemente non portati per le forme di apprendimento frontale), ma anche per quei liceali che non intendono proseguire gli studi. La valenza formativa di tale contratto risulta accentuata dalla previsione secondo cui costituisce giustificato motivo di licenziamento il mancato raggiungimento degli obiettivi formativi da parte degli apprendisti assunti con questo contratto di apprendistato.
Il comma 1 dell’art. 43 d.lgs. 81/2015 contiene il principio secondo cui l’apprendistato di primo livello è strutturato in modo da coniugare formazione aziendale[33] e formazione professionale regolamentata dalle discipline regionali[34]. Possono essere assunti con questo contratto i giovani che hanno compiuto 15 anni fino a 25 anni, mentre la durata del contratto è determinata in considerazione della qualifica o del diploma da conseguire, ma non può essere superiore a tre anni o a quattro anni nel caso di diploma professionale quadriennale (comma 2)[35].
Il comma 4 dell’art. 43 contiene una complessa disciplina delle proroghe rispetto alla durata complessiva di questo tipo di apprendistato. Si prevede, in primo luogo, che il contratto dei giovani che hanno concluso positivamente il percorso formativo possa essere prolungato di un anno “per il consolidamento e l’acquisizione di ulteriori competenze tecnico-professionali e specialistiche, utili anche ai fini dell’acquisizione del certificato di specializzazione superiore o del diploma professionale all’esito del corso annuale integrativo”. Si concede, così, la possibilità di continuare con il rapporto di apprendistato per ulteriori 12 mesi anche, ma non solo, per completare il proprio percorso formativo con un titolo IFTS o di diploma professionale statale. La proroga di un anno è concessa anche nel caso in cui l’apprendista non abbia conseguito alcun titolo triennale, quadriennale, IFTS o il diploma professionale statale.
Il comma 5 dell’art. 43 si focalizza sulla disciplina per l’ottenimento di un titolo di studio della scuola secondaria superiore, prevedendo la possibilità di stipulare contratti della durata massima di quattro anni, a partire dal secondo anno di scuola, finalizzati non solo al diploma di istruzione superiore di secondo grado, ma anche all’acquisizione di “ulteriori competenze tecnico-professionali rispetto a quelle già previste dai vigenti regolamenti scolastici, utili anche ai fini del conseguimento del certificato di specializzazione tecnica superiore”[36].
Il comma 6 dell’art. 43 regola le modalità operative attraverso cui attivare un contratto di apprendistato del primo tipo. Esso stabilisce che il datore di lavoro che intende stipulare questa forma contrattuale debba innanzitutto sottoscrivere un apposito protocollo con l’istituzione formativa cui il ragazzo appartiene in cui siano esplicitati il contenuto e la durata degli obblighi formativi in capo al datore di lavoro. Tale protocollo deve essere redatto secondo il modello del Ministero del lavoro e delle politiche sociali che indica i criteri generali per la realizzazione dei percorsi di apprendistato, i requisiti delle imprese che vogliono far ricorso a questo strumento, il monte orario di formazione aziendale e scolastica. Su questo aspetto, l’ultimo periodo del comma 6, stabilisce che la formazione svolta nei centri professionali regionali non possa essere comunque superiore al 60% dell’orario ordinamentale del secondo anno e al 50% per il terzo e quarto anno e l’anno dedicato alla certificazione IFTS[37].
Chiudono la disciplina sull’apprendistato di primo livello i commi 8 e 9. Il comma 8 conferma la possibilità di forme di apprendistato a tempo determinato per attività stagionali per quelle Regioni e Province autonome dotate di un sistema definito di alternanza scuola-lavoro. Il comma 9, invece, prevede la possibilità di trasformare il contratto di apprendistato di primo livello in apprendistato del secondo tipo dopo il conseguimento del titolo, seppure entro il limite temporale massimo indicato dalla contrattazione collettiva.
3.2. L’apprendistato professionalizzante
Per quanto riguarda l’apprendistato professionalizzante o di secondo livello, questo è diretto al conseguimento di una qualificazione professionale ai fini contrattuali attraverso lo sviluppo di competenze di base e trasversali (disciplinate dalle normative regionali) e di competenze tecnico-professionali (disciplinate dai contratti collettivi di lavoro), fissando una formazione esterna all’azienda limitata[38].
Il comma 1 dell’art. 42 chiarisce che la qualificazione professionale cui è finalizzato il contratto “è determinata dalle parti del contratto sulla base dei profili o qualificazioni professionali previsti per il settore di riferimento dai sistemi di inquadramento del personale” dei contratti collettivi siglati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Questa tipologia ha come destinatari giovani di 18-29 anni e non permette di conseguire alcun titolo di studio. L’ammontare della formazione professionalizzante in azienda è stabilita dal contratto collettivo in base alla qualificazione professionale al cui conseguimento è finalizzato il contratto. La maggior parte di questi individua il limite minimo in 80 ore di formazione erogata attraverso percorsi strutturati anche in affiancamento e on the job, oppure attraverso action learning, e-learning, laboratori, studio di casi. La formazione presso le istituzioni pubbliche deve essere minore o uguale a 120 ore nell’arco dei 3 anni di durata del contratto, secondo il livello di formazione del giovane.
Appare significativo quanto contenuto al comma 4, che consente di assumere in apprendistato professionalizzante non solo i lavoratori beneficiari di indennità di mobilità, ma anche chi gode di un trattamento di disoccupazione. Risulta così evidente che tale tipologia contrattuale è pensata anche come strumento di lotta alla disoccupazione[39].
3.3. L’apprendistato di alta formazione e di ricerca
Per quanto riguarda l’apprendistato di alta formazione e di ricerca, la sua disciplina è contenuta all’art. 45 del d.lgs. n. 81/2015[40]. Tale forma contrattuale s’ispira all’esperienza francese dell’integrazione fra scuola, università e lavoro, prescrivendo una corresponsabilità formativa tra impresa e istituzione, con ampia incidenza della formazione esterna.
Esso è strutturato per l’ottenimento di titoli di studio universitari (laurea triennale e specialistica, master, dottorato di ricerca), del diploma dell’Istruzione Tecnica Superiore, per svolgere attività di ricerca (apprendistato di ricerca) e per permettere l’accesso alle professioni ordinistiche. I requisiti legati all’età sanciscono la possibilità di stipulare questa tipologia contrattuale con giovani dai 18 ai 29 anni in possesso di un titolo di scuola secondaria superiore o di un diploma professionale quadriennale (integrato o da un certificato IFTS o dal diploma di maturità professionale ottenuto al termine del corso annuale integrativo previsto dalla vigente normativa scolastica).
L’apprendistato di terzo livello è, quindi, pensato per i giovani che vogliono raggiungere un altissimo livello di specializzazione tecnico-professionale per andare a ricoprire quei ruoli che nelle imprese richiedono specifiche competenze, necessarie per favorire la crescita e l’innovazione. Per questo motivo, è il contratto ideale per gli studenti IeFP, IP, IT che desiderino specializzarsi ulteriormente con ITS; Liceali che vogliano continuare il loro percorso attraverso la laurea; laureati che vogliano ulteriori titoli; dottori di ricerca che desiderino continuare l’attività di ricerca; giovani che vogliano accedere alle professioni ordinistiche o all’AFAM, nonché giovani ricercatori[41].
Anche in questo caso, s’introduce la necessità di siglare un apposito protocollo tra datore di lavoro e istituzione formativa a cui lo studente è iscritto o con l’ente di ricerca di riferimento. In esso vanno indicate la durata e la modalità della formazione aziendale, nonché il numero di crediti formativi riconoscibili per la formazione in azienda. Lo schema del protocollo è definito da un apposito decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Per i percorsi ITS si prevede una formazione extra aziendale non superiore al 60% dell’orario ordinamentale (comma 2)[42].
I commi 4 e 5 dell’art. 45 confermano che la disciplina dell’istituto è rimessa, per i soli profili che attengono alla formazione, alla Regione e alle Province autonome in accordo con le associazioni datoriali e sindacali territoriali e le istituzioni formative, siano esse università o centri di ricerca. Viene anche ribadito che in assenza di regolamentazione regionale è possibile procedere con l’avvio di apprendistati di alta formazione e ricerca, previa convenzione tra datore di lavoro e istituzione formativa.
4. Tirocinio formativo o stage
In aggiunta all’alternanza scuola-lavoro e all’apprendistato, un altro strumento pensato per facilitare la formazione attraverso l’attività lavorativa è il tirocinio formativo o stage[43].
Esso consiste in un periodo di formazione e di orientamento al lavoro, che non si configura come un contratto di lavoro subordinato, che permette ai tirocinanti di vivere temporanee esperienze all’interno di aziende, enti, pubbliche amministrazioni, favorendo, in tal modo, una conoscenza diretta di una professione o di un mestiere e permettendo un arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze.
Per realizzare un tirocinio formativo è necessaria una convenzione tra l’ente promotore (università, scuole superiori pubbliche e private, Centri per l’Impiego, agenzie per l’impiego, centri pubblici di formazione professionale o orientamento) e il soggetto ospitante (azienda, studio professionale, cooperativa, enti pubblici ecc.), corredata da un progetto formativo redatto dal soggetto ospitante e dal tirocinante, in cui sono stabiliti i rispettivi diritti e obblighi[44].
Anche dei tirocini esistono diverse tipologie. I tirocini “non curriculari” sono finalizzati ad agevolare le scelte professionali dei giovani nella fase di transizione dalla scuola al lavoro mediante una formazione in un ambiente produttivo ed una conoscenza diretta del mondo del lavoro. Appartengono a questa categoria i tirocini formativi e di reinserimento o inserimento al lavoro mirati a inserire, ovvero reinserire, nel mondo del lavoro soggetti privi di occupazione (inoccupati e disoccupati) o con particolari svantaggi (disabili o richiedenti asilo)[45].
I tirocini “curriculari” sono, invece, inclusi in un processo di apprendimento formale svolto all’interno di piani di studio delle università e degli istituti scolastici. La finalità di questo tipo di tirocinio consiste non tanto nell’inserire lo studente nel mondo del lavoro ma, piuttosto, nell’integrare il processo di apprendimento attraverso esperienze lavorative. Per questo motivo è indispensabile che ex ante vi sia un’attività di co-progettazione del percorso formativo tra la scuola o l’università e il soggetto ospitante.
Nell’ipotesi in cui l’alternanza scuola-lavoro sia attuata attraverso lo strumento del tirocinio curriculare, la guida operativa del MIUR, al paragrafo 4, lettera b, impone la «coerenza con il Piano dell’Offerta Formativa dell’istituzione scolastica». Da questa indicazione appare evidente che l’attività di tirocinio svolta in azienda debba essere coerente con l’indirizzo di studio cui è iscritto lo studente. Si badi, però, che la richiesta coerenza con il piano dell’offerta formativa non significa coerenza con le materie caratterizzanti l’indirizzo, ma con le competenze del profilo in uscita di quel percorso di istruzione, così come delineate dalle linee-guida per il riordino dell’istruzione secondaria superiore[46].
La disciplina obbliga all’identificazione di un tutor sia nell’ente promotore sia in quello ospitante.
La durata dei tirocini formativi e di orientamento è di 6 mesi, 12 mesi per i tirocini di inserimento e di reinserimento. In caso di tirocini curriculari, la durata è stabilita dagli ordinamenti di studio o dai piani formativi. Le leggi regionali sono chiamate a prevedere una serie di condizioni quali il divieto di tirocinio in orario notturno o il limite numerico dei tirocinanti rispetto al numero di dipendenti delle strutture ospitanti.
Come dimostrano anche le esperienze di altri Paesi europei, i tirocini aiutano a ridurre il mismatch tra competenze promosse nei percorsi formativi e quelle richieste dal mercato del lavoro, migliorando non solo l’occupabilità delle persone, ma rendendo anche più efficace il placement dei sistemi formativi. Tuttavia, mancando reali incentivazioni economiche e normative in caso di tirocini curriculari, sono poche le aziende disponibili a ospitare tirocinanti.
5. Considerazioni conclusive
In questa società sempre più mutevole e instabile, o come dice Bauman, “liquida”, in cui si registrano cambiamenti rapidi, profondi e discontinui, diventa urgente il superamento della separazione tra mondo della scuola e mondo del lavoro attraverso la creazione di una sinergia formativa-educativa tra istituzioni formative e imprese, volta ad accompagnare i giovani a sviluppare in modo integrato conoscenze (“sapere”) e abilità (“saper fare”), permettendo loro di apprendere come applicare le conoscenze e le abilità nei vari contesti e situazioni.
Occorre tenere presente, inoltre che, in aggiunta alle conoscenze e competenze tecniche, le imprese richiedono ai giovani competenze trasversali (vale a dire capacità di individuazione e risoluzione dei problemi, capacità di gestione dell’incertezza, capacità decisionale rapida, pensiero laterale, versatilità, innovazione creatività, lavoro in gruppo, approccio progettuale, anticonformismo procedurale, flessibilità professionale..) indispensabili per applicare le competenze tecniche in modo adeguato, unitamente alla capacità di relazionarsi con gli altri all’interno di un mercato del lavoro in continuo divenire. Il training on the job, oltre a favorire l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro, sviluppa in essi sia le competenze tecniche che quelle trasversali, rafforzando la capacità di apprendimento continuo e trasformativo (imparare a imparare[47]). In questo senso, l’alternanza tra education e training on the job non è altro che l’inizio di un percorso che prosegue con la formazione continua, in una logica circolare tra momenti di apprendimento e lavoro che è propria del life long learning.
I descritti istituti legislativi (alternanza scuola-lavoro, apprendistato, tirocinio) possono essere gli strumenti utili per favorire il formarsi di competenze e professionalità in grado di rispondere ai bisogni, attuali e futuri, del sistema produttivo, anch’esso in rapida evoluzione, che si trova ad affrontare le sfide della c.d. Industry 4.0.
È tuttavia evidente che nessuna norma legislativa può avere successo se calata in un ambiente sociale ed economico incapace di interpretare e sfruttare correttamente gli spazi creati dalla legge. Per questo l’affermazione del metodo dell’alternanza formativa non può avere successo se non si favoriscono le condizioni affinché ciò avvenga: in primis un tessuto produttivo solido che risponda a standard qualitativi elevati, garantiti da un processo nel quale la scuola e l’impresa siano partner, entrambe responsabili della educazione e formazione dello studente[48].
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- PISA, acronimo di Programme for International Student Assessment, è una ricerca promossa dall’OCSE con cadenza triennale. L’indagine a cui si fa riferimento è quella datata 2015. L’obiettivo principale di PISA è rilevare le competenze degli studenti di 15 anni in Lettura, Matematica e Scienze. Ogni rilevazione è costituita da un dominio principale d’indagine e da due domini minori. Il dominio principale nel ciclo 2015 è stato Scienze. In base a tale ricerca, l’Italia occupa nel ranking internazionale tra la 26esima e la 28esima posizione rispetto ai Paesi OCSE; tra la 32esima e la 36esima rispetto a tutti i Paesi partecipanti. Rispetto agli altri Paesi dell’Unione Europea, in particolare, si registra un punteggio medio significativamente inferiore. Inoltre, si riscontrano ancora differenze di genere: mentre la differenza tra ragazzi e ragazze in Scienze, secondo PISA 2015, è di 17 punti a favore dei ragazzi, a livello internazionale tale differenza è di 4 punti. In Italia, poi, permane ancora il divario Nord-Sud: in media le regioni del Nord hanno mostrato un rendimento superiore sia alle aree del Centro e del Mezzogiorno, sia rispetto al dato nazionale. A livello di tipologia di istruzione, l’andamento nazionale presenta un rendimento migliore dei licei, a seguire gli istituti tecnici e gli istituti professionali. I centri di formazione professionale non sono risultati significativamente diversi dagli istituti professionali. A commento di questi risultati, cfr. COMMISSIONE EUROPEA (2016), Pisa 2015: Risultati dell’UE e prime conclusioni per quanto riguarda le politiche dell’istruzione in Europa. ↩
- Cfr. COMMISSIONE EUROPEA (2015), Essere giovani oggi in Europa – mondo digitale; Relazione sui progressi del digitale in Europa (EDPR) 2017, SWD (2017), 160; COSTA M., Capacitare l’innovazione. La formatività dell’agire lavorativo, Franco Angeli, Milano 2016, a parere del quale la capacità creativa e innovativa del lavoratore, unitamente ai nuovi processi tecnologici (smart economy, open innovation) e di produzione (shared economy), trasformano il valore performativo della competenza in “competenza ad agire” (agency): questo cambiamento rilancia un nuovo patto formativo e sociale (learnfare) in cui il sistema formativo ed educativo rappresentano la base per capacitare uno sviluppo basato sui talenti dell’uomo. ↩
- Sulla relazione tra formazione e occupabilità: cfr. BIAGI M. (a cura di), Mercati e rapporti di lavoro: commentario alla legge 24 giugno 1997, n. 196: norme in materia di promozione dell’occupazione, Milano 1997, pp. 282 ss.; ID., Formazione e qualità: note per una strategia comunitaria dell’occupazione, in Dir. relazioni ind., 1996, 2, pp. 75 ss.; ROCCELLA M., Formazione, occupabilità, occupazione nell’Europa comunitaria, in Giornale dir. lav. e relazioni ind., 2007, pp. 187 ss.; MAGNANI M., Organizzazione del lavoro e professionalità tra rapporti e mercato del lavoro, in Giornale dir. lav. e relazioni ind., 2004, pp. 165 ss.; GAROFALO D., Formazione e lavoro tra diritto e contratto. L’occupabilità, Bari 2004. ↩
- Qualunque sia la coorte di uscita dagli studi, il tasso di occupazione dei giovani con un basso livello di istruzione non è neppure la metà di quello dei giovani laureati, indicando come sia alto il rischio, per i primi, di restare permanentemente fuori dal mercato del lavoro: cfr. ISTAT, I giovani nel mercato del lavoro, II trimestre 2016, Focus, in http://www.istat.it.; EUROSTAT, Statistiche dell’occupazione, 2017 in http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Employment_statistics/it ↩
- Questo dato è sintesi di un tasso di occupazione di 8,7 punti superiore tra gli uomini e di 14,6 punti inferiore tra le donne. ↩
- I giovani occupati sono spesso sottoutilizzati in termini di tempi di lavoro. L’impiego a orario ridotto riguarda complessivamente 1 milione 215 mila 15-34enni (il 23,6% del totale). L’incidenza del lavoro part time, pur riducendosi all’aumentare dell’età, resta rilevante anche nella classe 30-34 anni in cui un giovane ogni cinque lavora a regime ridotto. Dato preoccupante è che il lavoro a tempo parziale è prevalentemente il risultato di difficoltà nel trovare un’occupazione a tempo pieno piuttosto che il frutto di una scelta personale: l’incidenza del part time involontario tra i giovani che svolgono un lavoro a tempo parziale raggiunge infatti il 77,0%. ↩
- Cfr. ISTAT, Il mercato del lavoro verso una lettura integrata, dicembre 2017, http://www.istat.it/it/files/2017/12/Rapporto-Mercato-Lavoro-2017.pdf. La necessità di riformare i sistemi di istruzione e di promuovere modalità pedagogiche in situazioni di compito o lavoro è presente da tempo (c.d. work based learning) nel dibattito sia sovranazionale che nazionale. A livello di Unione Europea, seppur in presenza di limitate competenze in materia, tra i primi documenti si annoverano il Libro bianco su Crescita, competitività, occupazione, COM (93) 700, 5 dicembre 1993, il Libro bianco su Istruzione e Formazione. Insegnare e apprendere, COM (95) 590 def., 29 novembre 1995; Conclusioni del Consiglio del 12 maggio 2009 su un Quadro strategico per la cooperazione europea nel settore dell’istruzione e della formazione (ET 2020) (2009/C 119/02); Comunicazione della Commissione del 20 novembre 2012 Ripensare l’istruzione: investire nelle abilità in vista di migliori risultati socioeconomici COM (2012) 669 final, del 20 novembre 2012. ↩
- L’Industria 4.0 si basa sul concetto di smart factory che si compone di tre elementi: la smart production, gli smart services, la smart energy. La chiave di volta del’Industry 4.0 sono i sistemi ciberfisici (CPS), vale a dire i sistemi che sono strettamente connessi con i sistemi informatici e che possono interagire e collaborare con altri sistemi CPS. Ciò sta alla base della decentralizzazione e collaborazione tra sistemi che è strettamente connessa con il concetto di Industria 4.0. Sull’integrazione tra scuola e Industria 4.0. cfr. BALSAMO A., Reti scuola-impresa: un modello d’integrazione tra scuola e lavoro per l’industria 4.0, Adapt University Press, 2017. ↩
- In Italia, per la dottrina giuslavoristica, anche in relazione all’avvicendarsi delle diverse riforme in materia: PROSPERETTI U., Il problema sociale dell’istruzione professionale, in Riv. Inf. Mal. Prof., 1956, 4, pp. 1 ss; CHIARI G., SALTARELLI S., Alternanza scuola/lavoro: educatori, politici, industriali alla ricerca di un modello comune, Milano, 1996; BIAGI M., TIRABOSCHI M., La rilevanza della formazione in apprendistato in Europa: problemi e prospettive, in Dir. Rel. Ind, 1999, 1, pp. 92 ss.; ASSOLOMBARDA, VAIRETTI U. (a cura di), Gestire le competenze al lavoro e nella formazione. Indicazioni operative per sviluppare la professionalità tra scuola, formazione, università e aziende, Milano 2010; BERTAGNA G., Lavoro e formazione dei giovani, Brescia 2012; D’ANIELLO F., COPPARONI L., GIROTTI L., Apprendere per il futuro. L’apprendistato tra riflessione pedagogica ed esperienza formativa, in Formazione lavoro persona, n. 5, 2012; BALLARINO G., Istruzione, formazione professionale, transizione scuola-lavoro. Il caso italiano in prospettiva comparata, IRPET, Firenze 2013; VECCHIARELLI M., Alternanza scuola-lavoro: Analisi di percorsi curricolari nazionali e transnazionali, Roma 2015; MASSAGLI E., Alternanza formativa e apprendistato in Italia e in Europa, Roma 2016; MALVASI P., Scuole, Lavoro! La sfida educativa dell’alternanza scuola-lavoro, Milano 2017. ↩
- Cfr. BOZZI L., Alternanza scuola-lavoro: un modello di apprendimento, Milano 2005; ZUCCARO A., BIANCHI A., PAPPALARDO V., Alternanza scuola-lavoro: analisi dei modelli e indicazioni per la progettazione, Roma 2013; FONDAZIONE BRUNO VISENTINI, Alternanza scuola-lavoro e inclusione sociale: un’ipotesi di modellizzazione, Viterbo 2016. ↩
- V. MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITÀ E DELLA RICERCA, Attività di alternanza scuola lavoro. Guida operativa per la scuola, 2016, p. 12. ↩
- V. COMMISSIONE EUROPEA (8.6.2017), Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni, “Sviluppo scolastico ed eccellenza nell’insegnamento per iniziare la vita nel modo giusto”. Con la sentenza n. 34/2005 anche la Corte costituzionale ha affermato che “l’alternanza scuola-lavoro…. costituisce uno degli elementi centrali del sistema integrato istruzione/formazione professionale, in armonia con gli orientamenti invalsi in ambito comunitario, nel quale si è andata rafforzando sempre più una politica indirizzata alla riqualificazione dell’istruzione e della formazione professionale quale fattore di sviluppo e di coesione sociale ed economica”. ↩
- Su questo tema cfr. anche COMMISSIONE EUROPEA/EACEA/EURYDICE (2016), “L’educazione all’imprenditorialità nella scuola” e il quadro delle competenze per l’imprenditorialità su https://ec.europa.eu/jrc/en/entrecomp. ↩
- Cfr. COMMISSIONE EUROPEA (2015), Science Education for Responsible Citizenship. In dottrina, cfr. DORDIT L., RUSSO F., Alternanza scuola-lavoro in dialogo con l’Europa: la proposta di un di un modello formativo e di un sistema di governance sperimentati in collaborazione diretta tra scuola e azienda, Udine 2007. ↩
- Cfr. BERTAGNA G., Alternanza scuola-lavoro: ipotesi, modelli, strumenti dopo la riforma Moratti, Milano 2003; BELLOCCHI P., Tirocini e alternanza scuola-lavoro, in SANTORO PASSARELLI G., Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale, Torino, 2009, pp. 511 ss. ↩
- L’unico ambito nel quale lo studente, che svolge attività formativa presso enti ospitanti, è sottoposto alla disciplina del lavoratore subordinato è quello della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (art. 2, comma1, lett. a, d.lgs. n. 81/2008). ↩
- Su questo problema, cfr. ISFOL (a cura di RICCI A.), Istruzione, Formazione e mercato del lavoro: i rendimenti del capitale umano in Italia, 2010, pp. 69 ss.; COMMISSIONE EUROPEA, Relazione di monitoraggio del settore dell’istruzione e della formazione, Italia, 2017 (http://ec.europa.eu/education/policy/strategic- framework/et-monitor_it). ↩
- Più nel dettaglio, la l. 107/2015 ha previsto la possibilità di svolgere periodi di apprendimento presso imprese e rispettive associazioni di rappresentanza; Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura; enti pubblici e privati, inclusi quelli del terzo settore; ordini professionali; Musei e altri istituti pubblici e privati operanti nel settore del patrimonio ambientale; Enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI. ↩
- Cfr. BERTAGNA G., Pensiero manuale. La scommessa di un sistema educativo di istruzione e formazione di pari dignità, Soviera Mannelli 2006; BURATTI U., Apprendistato e lavoro pubblico: un binomio possibile, in Formazione lavoro persona, n. 5, 2012, pp. 51 ss. ↩
- Dopo oltre 60 anni dall’introduzione della prima legge organica sul contratto di apprendistato (l. n. 26/1955 ma già in epoca fascista era disciplinato dal r.d. n. 1906/1938) e le numerose modifiche normative apportate nel corso del tempo a questo contratto, l’utilizzo dell’Apprendistato da parte delle imprese risulta ancora molto limitato. Secondo i dati ISTAT nel II trimestre 2017 fra le persone occupate di 15 anni e più, gli apprendisti risultano essere 131. 425, pari allo 0, 57% degli occupati in Italia. Secondo il Rapporto sull’Apprendistato realizzato dall’ISFOL (2013-2015), il numero medio di rapporti di lavoro in Apprendistato fosse pari a 410.213, di cui 95,1% di Apprendistato di II livello, il 3,26% di Apprendistato di I livello, lo 0,3% di Apprendistato di III livello, mentre l’1,3% non ha specificato la tipologia di Apprendistato utilizzata. ↩
- A commento della precedente disciplina: D’ONGHIA M., I contratti a finalità formativa: apprendistato e c.i., in CURZIO P. (a cura di), Lavoro e diritti, Bari, 2004, pp. 271 ss., ID., Il testo unico sull’apprendistato, in Riv. giur. lavoro, 2012, I, pp. 211 ss.; LOY G., Un apprendistato in cerca d’autore, in MAGNANI M., PANDOLFO A., VARESI P.A. (a cura di), Previdenza, mercato del lavoro, competitività, Torino 2008, pp. 275 ss., spec. 282; GAROFALO D., Il contratto di apprendistato, in VALLEBONA A. (a cura di), I contratti di lavoro, in RESCIGNO P. e GABRIELLI E. (diretto da), Trattato dei contratti, Torino 2009, pp. 1505 ss.; PAPA D., Il contratto di apprendistato. Contributo alla ricostruzione giuridica della fattispecie, Milano 2010; GAROFALO D., Il riordino della disciplina dell’apprendistato al secondo appello, in M. MISCIONE, GAROFALO D. (a cura di), Il Collegato lavoro 2010, Milano 2011, pp. 517 ss.; MACCARONE G., Il contratto di apprendistato nel testo unico, in Mass. giur. lav., 2011, pp. 921 ss.; MURATORIO A., Il contratto di apprendistato nella ricomposizione di disciplina del Testo Unico, in Lav. giur., 2011, pp. 1201 ss.; RUSCONI M., Il nuovo testo unico in materia di apprendistato, in Note informative (nuova serie), 2011, n. 54, pp. 6 ss.; TIRABOSCHI M. (a cura di), Il Testo unico dell’apprendistato e le nuove regole sui tirocini, Milano 2011; BERTAGNA G., Apprendistato e formazione in impresa, in Dir. relazioni ind., 2011, pp. 1027 ss., CIUCCIOVINO S., Il nuovo apprendistato dopo la legge di riforma del mercato del lavoro del 2012, in Riv. it. dir. lav., 2012, I, pp. 696 ss.; CORTI A., SARTORI M., Il Testo Unico sull’apprendistato, le disposizioni lavoristiche della legge di stabilità, miscellanea, in Riv. it. dir. lav., 2012, III, pp. 3 ss.; CARMINATI E., Apprendistato e parere di conformità degli enti bilaterali: obbligo od opportunità? in Dir. relazioni 2012, pp. 864 ss. ↩
- Cfr. RYAN P., Apprendistato: tra teoria e pratica, scuola e luogo di lavoro, in Dir. relazioni ind., 2011, 913 ss., che offre un’analisi dell’apprendistato in chiave comparata, orientata verso quei Paesi che hanno adottato il modello duale. ↩
- Sulla causa formativa: LASSANDARI A., Gli obblighi formativi del contratto di apprendistato e di tirocinio: rilievi esegetici sui decreti ministeriali di attuazione della l. 196/1997, in Riv. Giur. Lav., 1999, pp. 93 ss.; BROLLO M., MATTAROLO M., MENGHINI L. (a cura di), Contratti di lavoro flessibili e contratti formativi, in CARINCI F. (coordinato da), Commentario al D.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, III, Milano 2004, pp. 234 ss.; GRAGNOLI E., PERULLI A., La riforma del mercato del lavoro e i nuovi modelli contrattuali, Commentario al d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, Padova, 2004; ZOPPOLI L., SARACINI P., I contratti a contenuto formativo tra “formazione e lavoro” e “inserimento professionale”, in Tratt. Rescigno, Torino, 2005; GAROFALO D., Formazione e lavoro tra diritto e contratto. I contratti a contenuto formativo, Bari 2005; ALVINO I., L’intesa tra Governo, Regioni, Province Autonome e Parti Sociali per il rilancio dell’apprendistato, in Riv. it. dir. lav., 2011, III, pp. 127 ss.; FOGLIA L., Sull’attuazione della componente formativa nel contratto di apprendistato, in Mass. giur. lav., 2011, pp. 894 ss.; VARESI P.A., Il Testo Unico dell’apprendistato: note sui profili formativi, in Dir. relazioni ind., 2011, pp. 1013 ss. ↩
- La forma scritta è richiesta ai fini di prova. ↩
- Il PFI può essere modificato nel corso del rapporto fermo restando l’acquisizione della qualifica da ottenere a fine percorso. Esso va allegato in forma sintetica al contratto. ↩
- E’ stabilita la possibilità di recedere dal contratto durante lo svolgimento dell’Apprendistato solo in presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo. ACAMPORA M.G., La natura del contratto di apprendistato e le implicazioni in tema di recesso, in Dir. relazioni ind., 2010, pp. 509 ss. ↩
- Il comma 4 dell’art. 42 si concentra sulla disciplina del preavviso in caso di recesso “al termine del periodo di apprendistato le parti possono recedere dal contratto, ai sensi dell’art. 2118, con preavviso decorrente dal medesimo termine. Durante il periodo di preavviso continua a trovare applicazione la disciplina del contratto di apprendistato. Se nessuna delle parti recede il rapporto prosegue come ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato”. La comunicazione del preavviso deve essere scritta e deve avvenire nei termini previsti dal Contratto collettivo nazionale. ↩
- Il parametro è costituito dall’inquadramento del Contratto collettivo nazionale dei lavoratori addetti a mansioni che richiedono qualificazioni corrispondenti a quelle al cui conseguimento è finalizzato il contratto. ↩
- In tema di disciplina della retribuzione dell’apprendista nella previgente normativa: GHERA E., Il trattamento retributivo dell’apprendista dopo la riforma del 2003, in Dir. relazioni ind., 2009, pp. 153 ss.; ANTONILLI F., Osservazioni sul trattamento retributivo dell’apprendista, in Mass. giur. lav., 2010, pp. 429 ss. ↩
- Ciò è possibile in caso di malattia, infortunio o altra causa di sospensione involontaria del lavoro di durata superiore a 30 giorni. ↩
- Se l’azienda ha un numero maggiore o uguale a 10 dipendenti non può superare il rapporto di 3 a 2 rispetto alle maestranze specializzate e qualificate in servizio; se l’azienda ha da 3 a 10 dipendenti può avere 1 apprendista ogni specializzato o qualificato in servizio; se l’azienda ha da 0 a 2 dipendenti il numero massimo di apprendisti è di 3 (limite non applicabile a imprese artigiane cui si applica l’art. 4 della l. 443/1985). La violazione di tali limiti fa sì che gli apprendisti siano considerati lavoratori subordinati a tempo indeterminato fin dalla loro assunzione. ↩
- Secondo i titoli di studio conseguibili, la durata minima e massima è: Qualifica IeFP da 6 a 36 mesi; Diploma IeFP da 6 a 12 mesi; Anno integrativo per l’accesso all’esame di stato da 6 a 24 mesi; Diploma di istruzione secondaria superiore (IT, IP, Liceo) da 6 a 48 mesi; Certificazione IFTS da 6 a 12 mesi. ↩
- La formazione in azienda è erogata attraverso percorsi strutturati anche in affiancamento e on the job. L’azienda deve dimostrare di avere: capacità strutturali (spazi per formazione interna e abbattimento delle barriere architettoniche), capacità tecniche (essere in regola con norme vigenti in materia, verifica e collaudo tecnico, disponibilità strumentale per lo svolgimento della formazione interna), capacità formative (disporre di uno o più tutor per lo svolgimento dei compiti previsti dal Piano Formativo Individuale). Il comma 5 sottrae esplicitamente alla contrattazione collettiva nazionale la competenza in materia di piano formativo. ↩
- Sulla ripartizione delle competenze fra Stato e Regioni in materia di apprendistato: C. Cost., 10-14.5.2010, n. 176, in Giur. cost., 2010, 2096 ss., che ha suscitato un vivace dibattito in dottrina come testimonia il nutrito numero di note o di commenti: cfr. ALVINO I., Il nuovo intervento della Corte Costituzionale sulla ripartizione delle competenze fra Stato e Regioni in materia di apprendistato, in Mass. giur. lav., 2010, pp. 515 ss.; BARBIERI M., Apprendistato professionalizzante: la leale collaborazione impossibile (per ora), in Riv. it. dir. lav., 2010, II, pp. 1070 ss.; CARMINATI E., La disciplina dell’apprendistato professionalizzante dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 176 del 2010, in Dir. relazioni ind., 2010, pp. 448 ss.; CIUCCIOVINO S., Stato, regioni, autonomia privata nell’apprendistato professionalizzante, in Riv. it. dir. lav., 2010, II, pp. 1089 ss.; DESSÌ O., Formazione in azienda e contratto di apprendistato professionalizzante nella recente giurisprudenza costituzionale, in Dir. lav. merc., 2010, pp. 311 ss., ID., Federalismo, formazione professionale e contratto di inserimento, in Dir. lav. merc., 2011, pp. 505 ss; D’ONGHIA M., Ancora una pronuncia della Corte Costituzionale sul riparto di competenze fra Stato e Regioni in tema di apprendistato, in Riv. giur. lavoro, 2010, II, pp. 644 ss.; GARATTONI M., La formazione aziendale nell’apprendistato ex art. 49, comma 5-ter, d.lgs. n. 276/2003 dopo la sentenza n. 176/2010 della Corte Costituzionale, in Riv. it. dir. lav., 2010, II, pp. 1099 ss.; SANTAGATA R., La formazione aziendale in una recente pronuncia della Corte Costituzionale in materia di apprendistato professionalizzante, in Dir. relazioni ind., 2010, pp. 1109 ss. Sulla precedente sentenza n. 50/2005: FERRARESI M., Lavoro e federalismo, il confronto tra Stato e Regioni dopo la sentenza 50/2005, in Dir. rel. Ind., 2005, pp. 1064 ss.; GARILLI A., La riforma del mercato del lavoro al vaglio della Corte costituzionale (nota a Corte Costl 28 gennaio 2005, n. 50), in Riv. Giur. Lav., pp. 425 ss.. In generale sulla divisione delle compotenze in materia tra Stato e regioni: GAROFALO D., Federalismo, devolution e politiche dell’occupazione, in Lav. Dir., 2001, pp. 463 ss.; CARINCI F., Il principio di sussidiarietà verticale nel sistema delle fonti, in Arg. dir. lav., 2006, pp. 1496 ss.; LASSANDARI A., Le forme di sussidiarietà e l’ordinamento del lavoro, in Lav. dir., 2012, pp. 479 ss. ↩
- La regolamentazione dell’istituto è rimessa alle Regioni e alle Province autonome. In caso di inadempienza sarà compito del Ministero del lavoro e delle politiche sociali provvedere con propri decreti (comma 3). ↩
- Con l’entrata in vigore della nuova disciplina si è posto fine, facendo salvi i progetti già in corso, alla c.d. “Sperimentazione Carrozza” contenuta nell’abrogato art. 8-bis, comma 2 del d.l. n. 104/2013. Chiude il comma 4 la previsione secondo cui è possibile stipulare contratti di apprendistato di primo livello della durata massima di due anni anche nel caso di giovani delle Province autonome di Trento e Bolzano che frequentano l’anno integrativo finalizzato all’esame di Stato di cui all’articolo 6, comma 5 del decreto del Presidente della Repubblica n. 87/2010. ↩
- La struttura della retribuzione degli apprendisti di primo livello è stata completamente riscritta dal comma 7 dell’art. 43. Dal calcolo finale dello stipendio dell’apprendista va tolto tutto il monte ore formativo esterno all’azienda. Per quello interno all’impresa, invece, salvo diversa previsione della contrattazione collettiva di riferimento, si riconosce un importo pari al 10% della retribuzione dovuta. ↩
- La centralità dell’apprendistato nel sistema di istruzione e formazione professionale, nonché nella gestione del mercato del lavoro, con riferimento al problema della occupazione giovanile, appare conformata nelle conclusioni del Consiglio UE (2011/C 70/01) sul ruolo dell’istruzione e della formazione nell’attuazione della «Strategia Europa 2020». ↩
- Sulla funzione riqualificatoria del contratto cfr. SPATTINI S., L’apprendistato per la riqualificazione di lavoratori in mobilità, in Dir. relazioni ind., 2011, pp. 1052 ss. ↩
- Sulla precedente disciplina, cfr. ROMEO C., L’apprendistato di alta formazione e di ricerca, in Mass. giur. lav., 2012, pp. 242 ss. ↩
- I titoli di studio conseguibili e la loro durata minima e massima sono: Diploma di istruzione tecnica superiore ITS da 6 a 36 mesi; Laurea triennale da 6 mesi a 36 mesi; Laurea magistrale da 6 a 24 mesi; Laurea a ciclo unico da 6 mesi a 48 mesi; Master di I livello da 6 mesi a 12 mesi; Master di II livello da 6 mesi a 24 mesi; Dottorato da 6 mesi a 48 mesi; Alta formazione artistica e musicale (AFAM) da 6 mesi alla durata prevista dai relativi percorsi; Praticantato per l’accesso alle professioni ordinistiche da 6 mesi alla durata massima definita in rapporto al conseguimento dell’attestato di compiuta pratica per l’ammissione all’esame di stato. L’apprendistato di ricerca non comporta il conseguimento di un titolo ma la realizzazione di un progetto in azienda in partnership con l’Università o l’ente di ricerca e dura da 6 a 36 mesi, salva la facoltà per le Regioni e le Province autonome di prevedere ipotesi di proroga del contratto fino a un anno in presenza di particolari esigenze legate al progetto. ↩
- Con riferimento alla retribuzione, l’art. 45 ripete quanto espresso per gli apprendisti di primo livello: nessun computo per le ore di formazione presso gli istituti formativi, mentre si riconosce una retribuzione pari al 10% di quella dovuta per le attività formative aziendali. ↩
- Sulla previgente disciplina, cfr. NAPOLI M., Gli stages nel diritto del lavoro, in Questioni di diritto del lavoro (1992-1996), Torino, 1996, pp. 153 ss.; LAZZARONI A., Stage, tirocini e alternanza scuola-lavoro. Tipologie e modelli, Milano 2004; PASCUCCI P., Stage e lavoro. La disciplina dei tirocini formativi e di orientamento, Torino 2008; PASCUCCI P., La disciplina dei tirocini formativi e di orientamento: ieri, oggi e… domani (ovvero prima e dopo l’articolo 11 del decreto legge n. 138/2011), in Dir. relazioni ind., 2011, pp. 971 ss.; TIRABOSCHI M., Problemi e prospettive nella disciplina giuridica dei tirocini formativi e di orientamento, in Dir. rel. Ind., n. 1, 2001, pp. 61 ss.; TIRABOSCHI M., Tirocini e apprendistato: impianto e ragioni della riforma, in Dir. relazioni ind., 2011, pp. 947 ss.; CARMINATI E., FACELLO S, TIRABOSCHI M., Le linee guida sui tirocini formativi e di orientamento, in MAGNANI M., TIRABOSCHI M., La nuova riforma del lavoro, Milano 2012, pp. 124 ss. ↩
- Soggetti promotori del tirocinio possono essere le istituzioni scolastiche, gli operatori accreditati ai servizi di istruzione e formazione professionale regionale e/o ai servizi al lavoro regionali o nazionali, nonché nelle comunità terapeutiche o cooperative sociali, iscritte negli specifici albi regionali, a favore dei disabili. Può ospitare tirocinanti, invece, qualsiasi soggetto, persona fisica o giuridica, di natura pubblica o privata, che organizzi processi e attività di lavoro in regola con la normativa sulla salute e con la normativa di cui alla l. n. 68/1999 e succ. mod. e int., che, nei mesi precedenti l’attivazione del tirocinio e per le mansioni ad esso equivalenti, non abbia effettuato licenziamenti e non abbia in corso procedure di CIG straordinaria o in deroga. Entrambi sono chiamati a collaborare per la stesura del progetto formativo individuale del tirocinante, per l’organizzazione e il monitoraggio del tirocinio stesso e per la redazione dell’attestazione finale, che contempla anche il riconoscimento e la certificazione delle competenze maturate. Sul problema del monitoraggio cfr. VARESI P.A., Il monitoraggio dell’apprendistato: risultati e problemi aperti, in Dir. relazioni ind., 2009, pp. 949 ss. ↩
- Con le Linee-guida del maggio 2017 rientrano tra soggetti a favore dei quali può essere attivato un tirocinio anche coloro che sono già occupati, ma comunque in cerca di nuova occupazione. La loro disciplina spetta integralmente alle Regioni e alle Province Autonome, sebbene le Linee guida nazionali forniscano una cornice normativa di riferimento, al fine di evitare un utilizzo improprio di questo strumento. I tirocini non riguardano solo il settore privato. Possono essere, infatti, svolti anche all’interno delle pubbliche amministrazioni, in base a bandi emanati dalle singole amministrazioni che ne individuano le specifiche finalità formative. ↩
- Il riferimento è al d.P.R. 15 marzo 2010, n. 87, Regolamento recante norme per il riordino degli istituti professionali, a norma dell’art. 64, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133; al d.P.R. 15 marzo 2010, n. 88, Regolamento recante norme per il riordino degli istituti tecnici a norma dell’articolo 64, comma 4, del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133; al d.P.R. 15 marzo, n. 89, Regolamento recante revisione dell’assetto ordinamentale, organizzativo e didattico dei licei a norma dell’articolo 64, comma 4, del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133. ↩
- Il sociologo Richard Sennet ha calcolato che un giovane entrato nella forza lavoro nell’anno 2000 cambierà posto di lavoro da dodici a quindici volte nell’arco della vita lavorativa. Per alcuni economisti il cambio di lavoro avverrà oltre venti volte. ↩
- Si va diffondendo l’opinione che l’apprendistato costituisca il contratto unico per i giovani. In questo senso cfr. CARINCI F., E tu lavorerai come apprendista (L’apprendistato da contratto “speciale” a contratto “quasi unico”), in Quaderni argomenti dir. lavoro, 2012, n. 11, pp. 53 ss.; VARESI P.A., Apprendistato e “contratto unico” per i giovani, in www.fareapprendistato.it, 3.1.2012. ↩