Pur avendo assecondato, negli anni, l’esigenza di conseguire una formazione teorica più solida sulla quale fondare la mia pratica didattica, non ho sicuramente le competenze né l’autorevolezza di una studiosa di pedagogia. Ciò che tenterò di offrirvi in questo breve contributo sono, pertanto, alcune considerazioni empiriche, maturate nel corso della mia carriera di ricercatrice in letteratura inglese, un percorso lavorativo che mi ha concesso l’opportunità straordinaria di seguire quella che, nel contempo, è per me una vocazione e una passione: essere insegnante (e non semplicemente farlo di mestiere).
Una frase celebre attribuita a William Butler Yeats riassume perfettamente il rapporto di empatia, collaborazione e fiducia reciproca che dovrebbe instaurarsi tra le due parti coinvolte in qualsiasi processo efficace di apprendimento: secondo il poeta irlandese, insegnare non equivale a colmare di nozioni i propri discenti, visti come contenitori vuoti e anonimi, meri ricettacoli di informazioni da assimilare e riprodurre passivamente; al contrario, può accostarsi a quanto avviene quando si tenta di accendere un fuoco. Compito dell’insegnante è quello di adoperarsi per far scoccare la scintilla, da cui divamperanno fiamme di conoscenza più o meno vivaci a seconda delle qualità intrinseche alla materia da ardere (il patrimonio culturale ed esperienziale pregresso degli allievi, la loro curiosità e motivazione), e dell’intensità dello stimolo iniziale.
Sul primo fattore è possibile influire creando i presupposti acciocché i talenti di ognuno possano essere messi a frutto: nella gestione quotidiana dell’attività didattica, ritengo essenziale conoscere gli allievi (pur nei limiti imposti dai grandi numeri di una classe universitaria), rispettare e tenere conto dei loro diversi stili e strategie di apprendimento, indagare i bisogni formativi dei singoli (al di là della pur necessaria acquisizione dei crediti formativi), e rendere attive conoscenze sedimentate nel tempo, mediante una fase di elicitazione che segna l’inizio di ogni mia lezione. Il secondo elemento (l’intensità della scintilla) è intimamente connesso all’entusiasmo, a quella favilla che, per primo, ogni insegnante dovrebbe alimentare in sé per poterla diffondere successivamente agli allievi con cui entrerà in contatto. L’attività didattica ha forse un ruolo ancillare nelle valutazioni ministeriali cui ogni docente è ciclicamente soggetto, ma non per questo merita meno attenzione della ricerca alla quale, comunque, dovrebbe essere strettamente legata. Le mie lezioni più felici sono quelle in cui, prima di entrare in aula, rifletto e torno pienamente consapevole dell’importanza di quanto stia facendo, delle ricadute positive che lo studio della letteratura potrà avere sulla vita dei giovani che ho davanti, del mio ruolo di tramite tra un presente incerto e un passato dal quale c’è ancora molto da imparare. Dedico sempre uno spazio nelle prime lezioni di ogni corso per spiegare agli studenti che le attività di analisi dei testi che ci apprestiamo a svolgere insieme sono preziose non soltanto per il superamento dell’esame finale e l’accrescimento del loro bagaglio culturale: saper leggere in profondità un testo, coglierne echi e risonanze, comprenderne il senso nel suo contesto, sono pratiche che consentono di affinare strumenti e tecniche utili a capire la realtà che ci circonda, a scioglierne le ambiguità. Ed ecco che le pagine diventano vive e gli autori appartenuti a epoche lontane si liberano dalla fissità dai caratteri stampati per rivelarsi come semplici esseri umani che, prima di noi, hanno saputo ricomporre su carta le stesse fratture, hanno fornito una risposta a interrogativi affini, o hanno dato voce a perplessità, dilemmi e groppi di dolore condivisi, dei quali noi stessi non eravamo, forse, completamente coscienti prima di confrontarci con loro. Le lezioni in cui la partecipazione degli studenti è più intensa sono quelle in cui si parla di John Keats e della sua passione disperata per ogni aspetto della vita, nonostante la certezza della fine imminente; oppure quelle in cui il Trascendentalismo e i suoi maestri – Ralph Waldo Emerson e Henry David Thoreau – restituiscono fiducia alle potenzialità umane e slancio ai sogni. Da Frankenstein di Mary Shelley si impara a decentrare il proprio punto di vista, a comprendere le ragioni dell’Altro, anche quando la diversità spaventa; Kate Chopin insegna a coltivare il coraggio della libertà, pur sapendo che implicherà rinunce e opposizioni, poiché librarsi oltre le convenzioni sociali e i pregiudizi presuppone l’esercizio di ali forti (“the bird that would soar above the level plain of tradition and prejudice must have strong wings”[1]).
Lo studio della letteratura, anche quella che appartiene a secoli remoti, può configurarsi come una finestra sul mondo presente. Nel 2013, assieme a due colleghi rumeni (Adrian Radu dell’Università Babes-Bolyai di Cluj-Napoca e Dan Negruţ dell’Università di Oradea), mi sono cimentata in un esperimento che ha contemplato la creazione di una pagina Facebook dedicata alla letteratura vittoriana, sulla quale ognuno di noi stava svolgendo, nello stesso semestre, le proprie lezioni (Victorian Literature, consultabile al seguente indirizzo: https://www.facebook.com/pg/victorianliterature/about/?ref=page_internal). Alla pagina hanno aderito i nostri studenti, mettendo in comune dati, scambiandosi commenti o rispondendo agli stimoli lanciati da noi docenti o dagli altri compagni di quella che ha finito per diventare una classe virtuale, estesa e internazionale. Oggi la pagina si è trasformata in una comunità, che conta più di 1500 membri. Lungi dall’essere una pura fonte di distrazione, i social network, i nuovi canali di comunicazione prediletti dagli studenti possono rivelarsi degli utili alleati alla didattica. Da parecchi anni ormai creo un gruppo Facebook per ogni mio insegnamento, al quale gli allievi sono invitati a iscriversi: tutti i materiali, i testi fuori copyright, le dispense e gli approfondimenti critici vengono caricati nel deposito file del gruppo, e persino le registrazioni delle lezioni, per consentire anche ai non frequentanti e ai fuori sede di essere presenti pur nell’assenza. Il gruppo è uno strumento di dialogo diretto e costante con il docente e con la classe, lontano da filtri affettivi dannosi che, spesse volte, inibiscono il desiderio di conoscenza: la bacheca viene infatti impiegata per esporre e fugare dubbi, per chiedere delucidazioni ulteriori o per dare comunicazioni immediate, in caso (ad esempio) si verifichi uno spostamento di aula non previsto. Imparando a usare un canale e un linguaggio a loro più affine, l’insegnante è paradossalmente più vicino ai suoi allievi, malgrado la distanza che fisicamente li divide.
A conclusione di queste mie brevi considerazioni sparse, non mi resta che augurare a tutti buon viaggio e una felice esplorazione di quell’universo magnifico, entusiasmante e ricco di opportunità che è l’insegnamento.
- Kate Chopin, The Awakening, Chicago & New York, Herbert S. Stone and Company, 1899, p. 217. ↩