Agamus Deo gratias, quod nemo in vita teneri potest !
Seneca
Abstract
La recente discussione attorno al “caso” della morte volontaria di Piergiorgio Welby sollecita nuove e antiche questioni che interessano da gran tempo la filosofia. E’ ammissibile un diritto alla «libera morte» ? E in che misura il suicidio è un peccato che confina labilmente con il reato, se viene assistito da terzi? La recente edizione degli Essays di David Hume (1711-1776) e il celebre saggio postumo, Of Suicide, sono lo spunto per una rinnovata riflessione su un tema assai delicato, oggetto, oggi, di un possibile disegno di legge dello Stato (testamento biologico e «morte assistita»). Il darsi la morte, per Hume, non costituisce né reato (delitto contro gli uomini e contro la società), né peccato (delitto contro se stessi e contro Dio), in quanto, a determinate condizioni, si tratta di un atto che obbedisce a una logica morale propria e alle medesime regole generali che governano il corso del mondo. «Dov’è, infatti, il crimine, nel deviare poche once di sangue dai loro canali naturali?», così come non sarebbe un crimine l’intervento “tecnico” dell’uomo sul mondo fisico, per costruire un canale, deviare il corso di un fiume a proprio vantaggio ecc.; ma è anzi un’azione altrettanto naturale quanto lo sarebbe la mortale puntura di un insetto, un cataclisma, una cura nefasta ecc. Sul filo del razionalismo humeano possono essere dissipati i fumi teologico-politici che avvolgono, da secoli, una questione di estrema importanza, che investe i «diritti del morituro», come, dalla prospettiva inversa, la riflessione sulle tecniche genetiche e di procreazione assistita, investe appieno i «diritti del nascituro». In entrambi i casi, secondo la lezione sartriana, l’uomo è inesorabilmente “condannato” alla propria libertà.
Sommario
1. Il suicidio, tra peccato e reato
2. La recente edizione degli Essays di Hume. La legittimità morale del suicidio
3. I doveri dell’uomo. Per un’etica e una religione eudemonistiche
4. Il nuovo senso della vita e della morte. La “condanna” della libertà