Numero 13/14 - 2017

  • Numero 2 - 2010
  • Recensioni

Andrea Volterrani, Paola Tola, Andrea Bilotti, Il gusto del volontariato. Tra etica, valutazione partecipata e innovazione sociale,Roma, Èxòrma, 2009

di Angela Spinelli

Che il volontariato abbia un gusto che “sa di buono” – come ci suggerisce la caramella stilizzata nell’elegante copertina – è un’affermazione di non facile smentita. Potrebbe essere, infatti, confermata da tutti coloro che, a diverso titolo, lo vivono: dai volontari che donano se stessi e il loro tempo, ai cittadini che partecipano alla costruzione di “quel gusto” percependolo come una risorsa di servizi, ma anche di immaginario e di cultura, di stratificazione e compagine sociale.

E proprio in questo passaggio dalla dimensione individuale a quella sociale è rintracciabile la prima chiave teorica che definisce cosa sia il “gusto”  del volontariato: cioè quell’habitus, quel corpus di modi di essere e di fare che ne delinea i tratti essenziali, pur nella varietà delle esperienze reali.

Il modello della costruzione sociale del gusto, di Pierre Bourdieu, [1] delimita il campo semantico del termine, al di là dell’accezione di maggior uso comune richiamata in apertura. Il gusto è, infatti, interpretato come una costruzione sociale che non ha nulla di spontaneistico, innato e “naturale”, è piuttosto una forma di sapere del corpo che il soggetto costruisce in interazione con il suo mondo di riferimento, sociale e ambientale.

«Il gusto […] funziona come una specie di senso dell’orientamento sociale (sense of one’s place), per cui orienta coloro che occupano un determinato posto nello spazio sociale verso le posizioni sociali adatte alle loro proprietà, verso le pratiche o verso i beni che si addicono a coloro che occupano quella posizione, che “vanno bene” per loro; ed esso comporta una anticipazione pratica di quello che probabilmente sarà il senso o il valore della pratica o del bene prescelti grazie al modo in questi si distinguono nello spazio sociale […]». [2]

La rottura con le origini, però, avviene nella possibilità, che nel volume viene delineata implicitamente, di rompere le consuetudini in vista di un cambiamento migliorativo dell’operato sociale in virtù di una consapevolezza che si può acquisire attraverso l’uso di strumenti valutativi.

Mentre per Bourdieu, infatti, il gusto costruito socialmente è il luogo in cui il sistema costruisce, consolida e riproduce se stesso autoconvalidandosi a livello oggettivo e soggettivo, la determinazione della scelta all’interno dell’operare volontario rompe questa lettura deterministica dell’attività sociale.

Il gusto del volontariato è costruito socialmente, ma vissuto ed esperito individualmente: un atto di libertà che concretizza una scelta etica e che spezza la catena della riproduzione sociale argomentata da Bourdieu. Il volontariato non ha un gusto che naturalizza se stesso, autolegittimandosi, come il gusto sociale che permetteva a  Bourdieu di contrapporre le classi sociali, perché va alla ricerca di se stesso in una spirale conoscitiva operata nel quadro della valutazione.

Come nella migliore tradizione valutativa, dunque, anche in questo volume l’apparato analitico costruito con gli indicatori si profila come uno strumento che mette insieme i momenti decisivi del valutare e dell’agire. Presupposto, dunque, un agire volontario e non coatto del soggetto, la conoscenza diventa strumento necessario per l’analisi del contesto e la decisione da prendere in vista dell’azione.

Il volume, infatti, è prima di tutto dedicato ad “operatori” del settore, interessati alla svolta pratica che questa profondità teorica offre loro. La prospettiva è fenomenologica, così come la metodologia utilizzata per la costruzione condivisa degli indicatori.

Allora il gusto del secolo scorso, l’habitus, può essere ricondotto all’interno del significato classico del termine, che peraltro Bourdieu cita nel senso di “sapere pratico” escludendo però un’accezione etica interna alla tradizione filosofica. L’etica prevede la possibilità di scelta, spezza le catene della riproduzione sociale responsabilizzando il singolo della tenuta (o meno) dello status quo. L’etica è il modus operandi che si trasforma in sapere pratico, possibile solo accettando la condizione del libero arbitrio quale premessa indispensabile. Da habitus, infatti, deriva la parola ethos, etica, che nell’accezione aristotelica del termine implica tanto il significato di abitudine, quanto quello di intenzione e volontà.

Insomma, il volontariato non è una ri-produzione sociale ma una scelta che si profila nel campo delle possibilità etiche e, dunque, il gusto diventano i gusti, conoscibili attraverso un’analisi partecipata. Dopo tanto determinismo si apre la porta ad un pluralismo del volontariato che ne conservi solo i tratti distintivi e specifici: la gratuità e l’essere un’alternativa al mercato e alla logica del consumo e della mercificazione, «diversamente, il rischio è che il terzo settore, nell’assenza di identità forti, condivise e percepite verso l’esterno si trovi imbrigliato in un modello imprenditoriale che lo snaturi in un processo di omologazione ad attività di natura diversa, quando non opposta, come quelle esclusivamente produttive e commerciale». (p. 81)

Gli autori del volume hanno lavorato all’individuazione delle aree e degli indicatori per la valutazione del volontariato insieme alle associazioni e ai volontari stessi, costruendo un processo partecipato e per certi versi empatico descritto nell’Appendice metodologica. Ciò che rendono attraverso il volume è, a mio parere, un insieme di strumenti di analisi e valutazione che, se ricostruiti, consentono di estendere il lavoro anche alle associazioni che non sono state direttamente coinvolte nel percorso di individuazione ed elaborazione degli indicatori: «lo sguardo empatico soggettivo che caratterizza lo stile di ricerca qualitativo è stato confortato da una prassi partecipata e condivisa con le associazioni di volontariato che hanno contribuito nella scelta delle priorità,  riconoscendo come valide dimensioni familiari al loro habitus e al loro gusto e, viceversa, indicando quelle troppo lontane o poco sentite e condivisibili». (p. 79)

La questione della trasferibilità della ricerca e degli indicatori, rimane da sperimentare sul campo, come ben sottolineato nel volume La ricerca come relazione: «l’idea […] di fondo non è costruire percorsi di ricerca con l’obiettivo di estendere le conclusioni a dimensioni più vaste di quelle connesse alla specifica indagine […]; semmai ritengo che lo scopo sia la ricostruzione di percorsi biografici, di significati e/o di posizioni valoriali dei soggetti che vengono indagati, con il ragionevole auspicio che le conclusioni che si riescono a trarre da quel microcosmo possano valere anche per altre realtà con caratteristiche analoghe». [3] La trasferibilità dei risultati è un’aspirazione che la ricerca qualitativa condivide con quella quantitativa, pur non cedendo all’idea di rappresentatività del campione.

Un percorso di ricostruzione, dunque, che ha utilizzato una metodologia qualitativa andando, paradossalmente, alla ricerca di una oggettività per  e del volontariato. Non una contraddizione, questa, se si pensa che gli autori, tutti sociologi, hanno ragionato anche in termini di costruzione dell’identità del volontariato e di proiezione della sua immagine verso l’esterno. La co-costruzione degli indicatori è stata elaborata attraverso un lavoro sul campo di stile etnografico che ha permesso di ricostruire il senso dell’azione volontaria proprio a partire dalla comunità che la esperisce. Gli indicatori che ne sono emersi appaiono dunque fedeli al mondo che intendono rappresentare e, per certi versi, “misurare”: il tentativo epistemologico di conciliare verità e autenticità del contesto di studio è stato praticato grazie ad una metodologia di ricerca qualitativa, che ha messo tra parentesi la ricerca esasperata di oggettività e neutralità per calarsi profondamente nel vissuto dei volontari e del volontariato, per rappresentarli nelle loro più significative dimensioni.

Gli indicatori emersi sono il nesso tra la pratica volontaria e la sua dimensione teorico-concettuale: ne individuano il senso, il significato, il valore e aiutano a discernere ciò che è volontario da ciò che non lo è o lo è solo in apparenza.

Il pregio del volume è rintracciabile proprio in questa inestricabile tessitura teorico-pratica che ne fa uno spunto di riflessione e uno strumento pratico, aprendosi a ciò che il volontariato saprà e potrà scegliere per le sfide che lo attendono.

Più difficile, invece, comprendere – almeno a livello intuitivo – come dimensioni quali “etica” e “ascolto” possano essere indagate attraverso indicatori che per quanto raffinati non potranno mai renderne il portato noumenico. Eppure, forse in questo punto risiede il passaggio a nord ovest che gli autori andavano cercando: nel piegare le metodologie scientifiche ad un sapere pratico e a un saper fare spendibile nella vita quotidiana con un certo margine di sicurezza. Se l’etica diventa cosa umana, la morte del dio non può che far rinascere la responsabilità del soggetto, al quale si offre una possibile griglia di lettura.

Interpretazione questa, che non trova riscontro fino in fondo nelle parole del volume, né nell’intenzione degli autori. Audacia, forse, che il volontariato ancora non sa percorrere, troppo impegnato nella costruzione della sua/e identità. Eppure, se l’etica fosse utilizzata non come semplice indicatore ma come carattere distintivo, a-priori, dell’azione volontaria, forse si potrebbe tornare ad un imperativo categorico secondo cui il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me, che tanti giovani ha saputo mettere in movimento nell’intransigenza dei “senza se e senza ma”.

Il volume ne trarrebbe beneficio in complessità e profondità teoretica, aiutando il volontariato (anche) ad essere nettamente radicato all’interno di una prospettiva etica capace di distinguerlo da quella commerciale ma anche, e specialmente, dalle logiche di welfare che devono rimanere responsabilità pubblica, non demandabile a scelte individuali.

Per concludere, il lavoro – che personalmente ho conosciuto e apprezzato prima della pubblicazione ufficiale – ha trovato più cose di quelle che andava indagando nelle intenzioni degli autori e dunque necessita di una qualche forma di prosecuzione che permetta di praticare quel passaggio a nord ovest che al momento è stato, raffinatamente, individuato.

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  1. P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, il Mulino Bologna 2001
  2. Ivi, p. 466
  3. S. Tusini, La ricerca come relazione. L’intervista nelle scienze sociali, Franco Angeli, Milano, 2006, p. 81.