Nel dinamismo accelerato delle società moderne, il settore dell’istruzione appare più sollecitato degli altri e tra progetti di convergenza internazionale e scopiazzature dei sistemi dei paesi apparentemente meglio funzionanti, può dirsi che il settore sia costantemente in “transizione”. Il problema principale è che non si sa verso quale modello sia diretta questa transizione. Certo è che in tutti i paesi convivono due tipologie di insegnamento, con tutte le variegate sottospecie, in presenza e a distanza, e che le loro dimensioni relative variano molto tra paesi e tra periodi, anche perché lo sviluppo tecnologico e la sua accessibilità, influiscono non poco sulla diffusione o non diffusione dell’insegnamento a distanza. Si può parlare a lungo in termini di vantaggi e svantaggi dell’una e dell’altra forma e si possono elencare i trade-off vari, ma se non si chiarisce il ruolo del “sistema istruzione” nella società civile, qualunque riflessione ha deboli fondamenta.
Nel mondo globalizzato attuale una grande contraddizione investe il settore istruzione: da un lato domina l’idea dell’istruzione per tutti (education for all, come si dice, ma forse è soltanto uno slogan) mentre nei fatti si assiste alla sua progressiva commercializzazione, necessariamente abbinata alla trasformazione dello studente in “cliente”. Questo processo di commercializzazione, che ha poco a che vedere con il perseguimento dell’efficienza nella fornitura del servizio di istruzione, solleva molte preoccupazioni.
Una prima preoccupazione è legata al fatto che manca una generalizzata, seppure elementare, cultura economica tra i policy makers tanto da dover rilevare frequentissime contraddizioni e scelte controproducenti nelle decisioni politiche di settore; una seconda, e ancora più importante, è legata al fatto che, in questo periodo storico, si è persa la nozione dei beni pubblici (comuni) e la percezione di quanto essi influiscano sulla qualità della vita di una collettività (ciò che gli economisti chiamano benessere sociale). In questo humus culturale si allarga e si dilata lo spazio della commercializzazione (mercato, se si preferisce) anche là dove nessuno, dotato di elementari conoscenze economiche, si sognerebbe di andare. Chi possiede queste elementari conoscenze sa infatti che ci sono cose (beni e servizi) che il mercato non può fornire e ci sono cose che può fornire al meglio se è ben regolato. Il capitalismo, la libera iniziativa privata, se inserito in un quadro di poche regole chiare e valide per tutti, è il più efficiente meccanismo di produzione di ricchezza ma se non ha regole da rispettare, si trasforma nel capitalismo d’assalto, selvaggio, emblematicamente espresso dalla attuale crisi economica originata dai mercati finanziari troppo a lungo de-regolamentati. E se ancora, dal suo inizio nel 2008, stenta a rimarginarsi è proprio perché le lobbies finanziarie sono tanto potenti da essere capaci di impedire che passino leggi e regole di tutela della collettività che ridimensionino il loro cinico modus operandi (interesse personale vs interesse della società). Se non ci fossero regole basilari per regolare il traffico, come tenere la destra e fermarsi ai semafori rossi, il traffico selvaggio che ne deriverebbe porterebbe velocemente al disastro collettivo. Non diversamente la finanza internazionale.
Ciò che il mercato non può fornire sono i beni (e servizi) pubblici e la cura delle esternalità. I beni pubblici sono beni non rivali nel consumo mentre i beni privati sono rivali nel consumo. La sicurezza dei confini nazionali, l’ordine pubblico, l’aria pulita ecc. sono tutti beni non rivali nel consumo nel senso che ognuno ne usufruisce senza sottrarre niente agli altri mentre il pane, un maglione ecc. sono beni privati in quanto rivali nel consumo perché l’uso che ne fa un soggetto impedisce quello degli altri. I beni privati sono commercializzabili anzi il mercato, data la domanda, ovvero la disponibilità individuale a pagare (come dicono gli economisti) un prezzo in cambio del bene, ne produce la quantità ottima; non così per i beni pubblici per i quali non c’è domanda individuale (disponibilità a pagare) e, anche a cercare di pervenire a qualcosa di simile ci si scontra con l’interesse individuale a non rivelare le proprie preferenze perché, non trattandosi di un bene rivale nel consumo, ciascuno “sa” che se il bene viene offerto (prodotto) anch’esso ne usufruirà (free riding) indipendentemente dalla propria disponibilità a pagare. In questi casi il mercato non funziona: l’ordine pubblico come l’aria pulita non possono essere commercializzati. Analogamente se il mio vicino di casa passa la notte a sentire musica ad alto volume o martellare il ferro, io non potrò dormire (esternalità negativa) a meno che non esistano regole per le quali nessuno può superare certi limiti di rumorosità della propria attività durante le ore notturne. Anche in questi casi il mercato non funziona eppure la qualità della vita è senz’altro migliore se si può dormire la notte.
L’istruzione è un bene complesso: è sia privato che pubblico e produce esternalità (positive). E’ un bene privato per il quale esiste disponibilità a pagare, ma è anche bene pubblico perché l’istruirsi e il conseguimento del titolo non si sottraggono alle possibilità degli altri di istruirsi e conseguire analogo titolo inoltre, più gli individui sono istruiti e più la società civile migliora (esternalità positiva). In questa prospettiva, tipica dell’economista, l’istruzione non può essere semplicemente “commercializzata” e l’utente non può coincidere con il “cliente”, anche se valutazioni economiche di costi e benefici, sia privati (individuali) che pubblici (della società) possono e devono essere fatti. Lo studente non può essere il cliente perché ciò significherebbe che egli, come consumatore, è il miglior giudice dei suoi bisogni di istruzione mentre questa giuoca un ruolo fondamentale nella trasformazione e riproduzione di una buona società. (…anche se al momento molti l’hanno dimenticato o non l’hanno mai saputo). Inutile aggiungere che ciò vale indipendentemente dalla modalità dell’istruzione.
L’istruzione richiede investimenti e questi, per quanto è stato richiamato, saranno privati e pubblici. Affrontando la questione sul filo del ragionamento economico, sappiamo che essi sono consigliabili se il loro rendimento è positivo e se è superiore ad altri tipi di investimento. Una letteratura piuttosto ampia mostra che questo è il caso. Come risulta per esempio da un paio di studi dell’OECD, (Sveinbjörn Blöndal, Simon Field, Nathalie Girouard, Investment in Human Capital through Post-compulsory Education and Training, 2002 e Romina Boarini, Huber Strauss, The private Internal Rates of Return to Tertiary Education: New Estimates for 21 OECD Countries, 2007), i tassi di rendimento dell’investimento individuale (privato) in istruzione sono positivi e più alti dei rendimenti di altri tipi di investimento così come lo sono quelli sociali anche se si differenziano per paese. Quelli anglosassoni sono caratterizzati dai tassi di rendimento più alti mentre il nostro da quelli più bassi anche se positivi e superiori ad altri tipi. L’investimento in istruzione è perciò un “buon” investimento.
Se adesso ci chiediamo su quali basi si possa individuare il ruolo, la funzione, dell’insegnamento a distanza in un paese post-industriale, tipo il nostro, possiamo di nuovo cercare la risposta nel ragionamento economico. Anche se da noi questa modalità di istruzione non può vantare antiche e ampie esperienze paragonabili a quelle inglesi o australiane, essa ha certamente forti potenzialità. Una prima riflessione economica porta a dare risalto all’incremento di benessere sociale che seguirebbe dalla “specializzazione” delle due forme di istruzione. Se si specializzassero, per così dire, nei campi/ nicchie nei quali sono più efficienti ovvero hanno costi unitari più bassi o rispondono meglio alle esigenze dell’utente (…non cliente), il risultato complessivo (sociale) sarebbe massimizzato. Come nel commercio internazionale tutti i paesi traggono benefici dall’apertura delle proprie economie (liberismo economico) perché ciascuno si specializza nella produzione per la quale ha vantaggi comparati, così le due modalità di istruzione potrebbero positivamente integrarsi. Su questa premessa non è difficile constatare che la distanza può godere di un vantaggio comparato (costi unitari più bassi) nel caso del terzo livello di istruzione (università) e come tale potrebbe avere un ruolo maggiore. Qui la specializzazione che funziona indica come non debba trattarsi di un ruolo concorrenziale (non entriamo nel dettaglio di questo tema in quanto strettamente legato alla qualità dell’insegnamento; di questa, per evidenti motivi di spazio non ci occupiamo, ma implicitamente la assumiamo data) ma piuttosto di integrazione tra modalità ciascuna con proprie specificità. Nei paesi anglosassoni, dove appunto esiste una lunga tradizione di istruzione a distanza, esistono vari studi applicati che comparano le due modalità sia in termini di costo che più ampi e relativi ad altri aspetti. Tra questi, e non sorprende, emerge per esempio che l’età media dello studente a distanza è più alta di quello in presenza. Se come appare dalle statistiche il nostro paese ha un numero più basso di laureati, soprattutto tra le generazioni meno giovani, ecco che il potenziamento dell’insegnamento universitario a distanza potrebbe contribuire a farci accorciare le distanze dagli altri paesi simili al nostro e a farcele accorciare a costi unitari mediamente più bassi. Oltre a ciò, nel nostro paese come negli altri simili, si ha la necessità di investire nel campo dell’aggiornamento o life-long-learning sempre più richiesto dal dinamismo dell’economie mature. Anch’esso può con facilità diventare uno slogan oppure un obiettivo raggiungibile soprattutto grazie a questa forma di istruzione.
Infine, e sempre per restare nel filo del ragionamento economico, si deve prendere atto che l’istruzione non solo è un “buon” investimento individuale e sociale ma è positivamente correlata al tasso di crescita del PIL (prodotto interno lordo). Il Pil, e la sua crescita, è oggi e nel bene e nel male, l’obiettivo prioritario di tutti i paesi. Anche relativamente a questo aspetto non manca letteratura applicata e sia ai paesi ad economia avanzata che a quelli meno sviluppati. Non a caso i paesi OECD, nella maggioranza dei quali la scuola superiore è ormai praticamente universale, dalla fine degli anni ‘90 puntano ad accrescere il numero dei laureati. I risultati non mancano tanto che se mediamente nel 1995 i laureati rappresentavano il 35% della popolazione, nel 2005 sono arrivati al 57%. Per i meno sviluppati basta citare il lavoro di Gylfason per rendersi conto di quanto importante sia l’investimento in istruzione per la crescita: i paesi meno sviluppati non crescono neanche nel caso di scoperte di nuove risorse naturali, dal petrolio all’oro, se non investono in istruzione. (Thorvaldur Gylfason, Natural Resources, Education and Economic Development, «European Economic Review», vol. 45, 4-6, 2001,).
In conclusione se la crescita economica è legata all’istruzione, come segnala l’evidenza empirica, un crescente ricorso alla modalità a distanza può essere una buona soluzione. Per elevare ed aggiornare il livello di istruzione nei paesi avanzati essa appare più flessibile e meno costosa mentre per trasformare in fatti lo slogan, “istruzione per tutti”, essa sembra l’unico candidato in grado di raggiungere gli abitanti del pianeta ancora oggi analfabeti. Come dire che lo sviluppo tecnologico che tanto potenzia l’insegnamento a distanza, potrebbe accorciare le distanze tra paesi sviluppati e arretrati …ma potrebbe anche accrescerli (!) se si concretizzasse il paventato fenomeno del digital-divide.