Numero 13/14 - 2017

  • Numero 5 - 2012
  • Politiche

Interazioni a Distanza

di Andrea De Dominicis

Chi pensa di non poter avere torto non può imparare
ma solo perfezionare la tecnica
Gregory Bateson

Incertezza e crisi di prevedibilità sono argomenti di cui si discute da anni. Come spesso accade, le buone descrizioni, pur trovando il plauso di chi legge o ascolta, difficilmente riescono a trasformarsi in consapevolezza e spesso rimangono in quella specie di limbo che è lo spazio delle nostre rappresentazioni mentali.

Anche Complessità e Globalizzazione sono ormai parole abituali nelle nostre conversazioni. Il pensiero sistemico [1] e l’epistemologia della complessità [2] su cui si fondano dovrebbero quindi esser stati acquisiti e diventati pratica quotidiana nel nostro modo di interpretare la realtà e decidere il corso delle nostre azioni!

Non sembra che le cose stiano proprio così: ce lo ricordano la cronaca quotidiana [3] e la ricerca sociale [4]. Stiamo ancora cercando di capire perché lo spread sia diventato così importante; o cosa c’entra la crisi dei sub primes americani con l’impeto di razionalizzazione dello Stato Sociale.

Sembra piuttosto che senza l’esperienza della confusione e del disordine intrisa di emozioni e stati d’animo non riusciamo a trasformare idee e concetti in conoscenza incarnata.

Spesso ci irritiamo perché i nostri figli non riescono a comprendere quanto diciamo loro, a vedere e sentire le implicazioni di alcuni dei loro comportamenti. Spendiamo parole ed energie per cercare di rappresentare scenari, rendendoli il più vividi possibile, nella speranza che ciò faccia loro scattare la molla della consapevolezza.

Poi, nella migliore delle ipotesi, ci affidiamo alla speranza che non paghino un prezzo troppo alto per quella che sappiamo essere la vera maestra di vita, l’esperienza.

Ma ciò non è vero solo per loro: siamo noi stessi condannati ad imparare attraverso l’esperienza.

John Dewey [5] lo ha argomentato nel corso di tutta la sua prolifica carriera di educatore e filosofo, indicandoci quanto lo stesso pensiero si fondi essenzialmente sull’azione.

Antonio Damasio [6]nelle sue ricerche sul tema della coscienza rintraccia nel proto Sé il precursore agito della capacità autoriflessiva di rappresentarci noi stessi e il mondo, capacità che chiamiamo, appunto, coscienza. Per Jean Piaget [7] l’intelligenza matematica (cosa c’è di più astratto?) deriva dalla manipolazione di oggetti caratteristica dello stadio delle operazioni concrete nel corso dello sviluppo dell’intelligenza.

Quindi è l’azione che sostanzia un’idea, un concetto, una percezione: l’apprendimento è indissolubilmente congiunto all’esperienza. La simbolizzazione emerge dall’azione, che possiamo realizzare in molti e differenti modi.

Sappiamo, però, che l’esperienza è condizione necessaria ma non sufficiente per imparare.

Il fare si può assimilare alle radici di un albero che, quanto più sono poderose e profonde nel loro ancorarsi al terreno, tanto più lo lanceranno verso l’alto e lo renderanno stabile.

Ma c’è una certa distanza tra i sottili filamenti delle radici e i rami della sommità, percorsa da un continuo andirivieni di linfa, di informazioni e feedback. In questo continuo e frenetico scambio risiede la chiave della crescita e la possibilità di portare a realizzazione le potenzialità che la natura gli ha riservato.

Quel percorso noi lo abbiamo chiamato educazione e lo consideriamo fondamento della nostra civiltà.

Quel percorso è l’apprendimento personale e professionale alla base delle nostre capacità di adattamento e sviluppo. Donald Schön [8] lo ha discusso in modo più che convincente nella sua analisi della professionalità riflessiva. Anche il professionista nel suo agire quotidiano mette continuamente in relazione l’atto professionale con le sue conoscenze, derivandone sapere incarnato.

Fare esperienza, allora, vuol dire conoscere, ed una società della conoscenza è possibile solo se si tratta di una società che agisce e riflette sul suo agire.

Daniel Boorstin [9] diceva: uno dei maggiori problemi di oggi è che si vuole arrivare senza l’esperienza del viaggio e ciò sembra contraddire quanto abbiamo appena affermato. La tecnologia e l’iper-comunicazione ci stanno abituando ad arrivare senza dover aspettare il tempo del viaggio; lo sviluppo delle tecniche ci fornisce innumerevoli modi per affrontare e risolvere i problemi. Possiamo drasticamente accorciare il cammino che dalle radici porta alla sommità della chioma trasformando l’apprendimento in addestramento!

Una soluzione che potrebbe apparire desiderabile, considerata l’ormai cronica mancanza di tempo.

Ma dovremmo allora domandarci come mai, nonostante la grande crescita del numero di professionisti sempre più specializzati, sembra continuare a crescere anche il numero di problemi che sono chiamati ad affrontare; perché, nonostante la grande disponibilità di strumentazioni tecniche, dobbiamo sempre sorprenderci di fronte all’imprevedibilità del fattore umano e dei suoi errori; perché i nostri modelli di previsione fondati su migliaia di dati (mai raccolti nelle epoche precedenti) non sembrano fornirci indicazioni sufficienti a tracciare scenari futuri precisi e credibili.

Sembra esserci una relazione paradossale tra tecnica e risultato, come se dimenticassimo qualche ingrediente.

Forse abbiamo dimenticato che c’è bisogno di uno spazio e di un tempo perché le cose possano accadere, di oggetti appropriati alle difficoltà che dobbiamo affrontare.

Stiamo parlando di oggetti transizionali, strumenti potenti e al tempo stesso delicati, necessari negli attraversamenti. Donald Winnicott [10] li ha magistralmente descritti nello sviluppo del bambino, lasciandoci intendere quanto continueremo ad averne bisogno una volta diventati adulti.

Forse il più conosciuto oggetto transizionale è l’orsacchiotto (o la coperta di Linus) con la sua caratteristica morbidezza e sofficità che rassicurano il bambino quando si addormenta (e deve attraversare lo spazio tra la veglia ed il sonno).

Le madri (e sempre di più anche i padri) sanno rispettarlo, ne intuiscono l’importanza, non lo banalizzano. Comprendono che nei passaggi c’è ansia e bisogno di rassicurazione, che ci vuole tempo per abituarsi alle novità. Che nel frattempo, si impara!

Nel crescere i nostri oggetti transizionali diventano sempre più sofisticati e complessi: l’auto, il ruolo sociale, la posizione professionale, persino un partner o la propria famiglia. Strumenti potenti e delicati per attraversare quello spazio intermedio (transizionale, appunto) tra noi stessi e la Realtà.

E quanto più la Realtà diventa complessa e indecifrabile, tanto più ci mettiamo alla ricerca di oggetti che ci permettano di governarla. Così si creano anche i feticci, com’è spesso nel caso della tecnica. La differenza tra oggetti buoni e non sta tutta nella possibilità di abbandonarli per affrontare un nuovo cambiamento. Questo è il senso della citazione in apertura.

Diventa, allora, cruciale progettare e costruire esperienze catalizzatrici e questo chiama direttamente in causa gli ambienti di apprendimento perché siano caratterizzati da spazio e tempo appropriati.

Non approfondiremo qui il tema, che chiederebbe ben altro spazio (e competenza).

Valga solo una breve riflessione sul potenziale delle interazioni negli ambienti di apprendimento mediati dal computer ed in particolare sulla fitta rete di scambi epistolari che spesso si crea [11]. Potremmo qui riferirci alla lunga e ricchissima tradizione della pratica epistolare che, come filone letterario nasce nel ‘700, annoverando, tra gli altri, grandi quali Goethe e Foscolo [12].

Poeti, artisti, intellettuali ed uomini di scienza hanno da sempre intrattenuto rapporti per corrispondenza con amici, interlocutori, avversari, amanti. Attraverso questa corrispondenza noi possiamo scoprire molti aspetti discorsivi del loro pensiero, laddove altre forme di scrittura (articoli, saggi, monografie) ne rappresentano la formalizzazione, priva, spesso, proprio di quegli aspetti discorsivi.

Il senso di intimità e la maggior confidenza che la lettera consente, ne ha da sempre rappresentato il valore aggiunto e la sua intrinseca forza attrattiva. Sarebbe quindi sconsiderato, oltre che inesatto, affermare che se due interlocutori non si vedono la loro interazione è inconsistente (o peggio, superficiale!).

Piuttosto questa interazione assume caratteristiche diverse, permette l’espressione di aspetti diversi del pensiero (e della personalità tutta) che chiameremo discorsivi.

Wittgenstein [13] aveva indicato nei giochi linguistici che si intrattengono il fondamento dell’identità e della relazione. Questi giochi linguistici rappresentano al tempo stesso un discorso interiore che ci dice chi e come siamo e la grammatica attraverso cui comprendiamo il mondo e fondiamo le relazioni con gli altri.

Più recentemente Chomsky [14] ha approfondito la ricerca sulla natura linguistica dell’identità, rintracciando nella competenza linguistica il fondamento della ricchezza e delle creatività della personalità.

Ciò amplia il concetto di relazione superando i confini della fisicità dell’incontro.

In una qualche misura anche il timore di eccessive influenze della tecnologia sulla relazione d’apprendimento, sembra privo di vero fondamento [15] e sono molto acute, in questa direzione, le osservazioni di Livraghi sull’umanità che caratterizza le transazioni sul web [16]

Sarebbe più saggio riflettere, allora, sulla natura e sulle pratiche efficaci nell’uso di strumenti per l’interazione a distanza.

Se l’insegnamento (nei suoi aspetti di contenuto e di processo) si serve in maniera determinante della relazione ( e del tempo e dello spazio che la caratterizzano) potremmo chiederci quali potenzialità possiede la Computer Mediated Communication (CMC) [17] nel suo essere arena di giochi linguistici (e quindi di relazioni).

Umberto Eco intravede nei linguaggi contratti che caratterizzano le e-mail la comparsa di una nuova letteratura epistolare (condensata ed estesa al medesimo tempo) anche se così non la pensano (e non la sentono) molti professionals dell’insegnamento.

Senza ridurre la ricca e articolata varietà di pratiche di e-learning allo scambio epistolare, di fatto, le differenti metodologie ed i differenti ambienti di apprendimento, contengono tutti (in misura maggiore o minore) strumenti per l’interazione epistolare.

Scrivere infatti, non è un atto solo cognitivo, ma anche e soprattutto, una pratica sociale: imparare a farlo in modi adeguati significa imparare a partecipare alle interazioni sociali e comunicative, adattando quello che si dice alle richieste e alle aspettative del destinatario secondo il repertorio di genere sviluppato e adottato in una specifica comunità. [18]

Lo spazio ed il tempo delle interazioni a distanza possono allora fornire esperienze catalizzatrici a patto che, per parafrasare Sparti [19], assumiamo la responsabilità del riconoscimento dell’altro, quand’anche lo schermo che abbiamo di fronte ci costringa ad ipotizzare le caratteristiche del nostro interlocutore.

Se non “rispondiamo” e “corrispondiamo”, gli altri e i loro atti restano privi del significato che noi diamo loro nell’identificarli, come se fossimo alienati da quella forma di vita. Il motivo per cui tale responsabilità vorremmo forse non averla, va rintracciato nel disagio per la scoperta che le nostre forme di vita sono (per molti versi) soltanto nostre, ossia che il loro tessuto connettivo dipende anzitutto dal mio rispondere ed esprimere, incoraggiare e trattenere, istruire e riprendere, dare esempi e correggere, rimproverare e perdonare.

Forse è solamente un nuovo modo di intendere la responsabilità educativa.

“C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi di antico…”
L’aquilone, G. Pascoli

  1. Senge P., La Quinta Disciplina, Sperling & Kupfer 2006
  2. Morin E., Introduzione al pensiero complesso, Sperling & Kupfer 1993
  3. Una profonda turbolenza (ad esempio quella finanziaria del 2011/2012) ha fatto prendere in considerazione passi indietro di grande rilevanza, fino ad allora impensabili, quali il ritorno alle monete nazionali precedenti all’introduzione dell’€uro
  4. World Social Summit, http://www2.worldsocialsummit.org 2008
  5. Dewey J., Come pensiamo, La Nuova Italia 1997
  6. Damasio A., Emozione e coscienza, Adelphi 2000
  7. Piaget J., Lo sviluppo mentale del bambino, Einaudi 1967
  8. Schön D., Il professionista riflessivo, Edizioni Dedalo 1993
  9. Boorstin A., The Image: A Guide to Pseudo-Events in America, Vintage 1992 (ed. orig. 1961)
  10. Winnicott D.W., Gioco e Realtà, Armando 2006 (ed. orig. 1971)
  11. Molto spesso, i docenti facilitano in diversi modi (forum, esercitazioni con domande aperte, ecc.) questi scambi 
  12. Si veda: http://it.wikipedia.org/wiki/Romanzo_epistolare ,http://www.italialibri.net/mappe/0212.html
  13. Wittgenstein L., Philosophische Untersuchungen, Basil Blackwell, Oxford 1953 (tr. It. Ricerche Filosofiche, Einaudi Torino, 1967 I Ed.)
  14. Chomsky N., Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio e della mente. Linguistica, epistemologia e filosofia della scienza, Il Saggiatore Milano, 2005
  15. Ovviamente, val bene la formulazione “…in una qualche misura”: la questione dell’influenza delle tecnologie sul nostro funzionamento cognitivo è stata affrontata recentemente da Nicholas Carr, nel suo Internet ci rende stupidi? Raffaello Cortina 2011
  16. G. Livraghi, http://www.gandalf.it/uman/06.htm
  17. Comunicazione mediata via computer; sul web è disponibile una notevole mole di materiale; ad esempio: www.waena.org/ktm/week1/CMC_15.pdf
  18. Zucchermaglio C, Talamo A., Comunità di pratiche, posta elettronica e generi comunicativi, Studi Organizzativi 1/2001, Franco Angeli, Milano 2001
  19. Sparti D., L’importanza di essere umani, Feltrinelli 2003