Numero 13/14 - 2017

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Loffie Naudé, Lifelong learning in discourses: An argument for co-emergence

di Chiara Coccia

Loffie Naudé, Lifelong learning in discourses: An argument for co-emergence, in «International Journal of Continuing Education and Lifelong Learning», n. 1, vol. IV, Hong Kong, HKU SPACE Centre for Research in Continuing Education and Lifelong Learning, 2011, pp. 73-90.

Loffie Naudé, Vicedirettore per la Ricerca del SAQA (South African Qualifications Authority), esplora il dibattito sviluppatosi intorno alla natura del Lifelong Learning e l’impatto che le differenti prospettive hanno o hanno avuto sulle politiche relative alla formazione.

Naudé sottolinea il ‘co-emergere’ di diversi punti di vista sulle differenze e similitudini fra i concetti di lifelong education, lifelong learning e recurrent education, e sulle definizioni di conoscenza e apprendimento.

Il dibattito intorno al Lifelong Learning nasce con la pubblicazione del Faure Report del 1972 in cui l’UNESCO esplicita il concetto di education permanente, intendendo una formazione che si svolge lungo tutto l’arco della vita e che avviene in modo formale ed informale con scopi diversi e abbracciando diversi ambiti sociali. Il Faure Report pone in evidenza lo sviluppo delle abilità e capacità umane, e l’importanza dell’apprendimento ad hoc, legato cioè a situazioni specifiche, che avviene al di fuori del contesto scolastico. Si possono quindi identificare già due diverse prospettive, l’apprendimento ad hoc (lifelong learning), definito massimalista, in contrasto, secondo Naudé, con il tipo di apprendimento che è “monopolio delle istituzioni educative esistenti” (p. 75), definito minimalista, che sostiene una formazione di tipo istituzionale tradizionale. Nel Report si parla di learning society intendendo un società caratterizzata da un’equa distribuzione delle risorse: sia gli adulti che i più giovani avrebbero, in tale società, la possibilità di spostarsi senza troppi ostacoli da un’educazione di tipo formale ad una di tipo non formale e vice versa, a seconda delle esigenze. La posizione minimalista viene appoggiata in particolare, secondo Dohmen (p. 76), dagli insegnanti che temono un calo del proprio prestigio nel caso in cui si desse più spazio ed importanza ad un’educazione non formale che avvenisse fuori dalle istituzioni scolastiche o universitarie tradizionali. La prospettiva massimalista, invece, viene sostenuta dal Club of Rome [1] che, già nel 1979, lamentava l’insufficiente o inadeguata preparazione della popolazione per affrontare le sfide ed i problemi che l’umanità si trovava di fronte.

Non sono stati fatti sostanziali progressi nel conflitto fra queste due prese di posizione fino agli anni ’90, quando l’UNESCO, nella Medium-Term Strategy 1996-2001, ha enfatizzato l’importanza del lifelong learning for all, focalizzandosi nuovamente sulla necessità di un’ampia riforma dell’istruzione volta al riconoscimento della formazione anche in ambiti lavorativi o privati, orientata alle sfide globali e supportata anche dalle nuove tecnologie.

L’OCSE contribuisce al dibattito con il report Recurrent Education: a Strategy for Lifelong Learning (1973) e con il Delors Report Lifelong Learning for All (1996). Il primo affronta la strategia necessaria per mettere in pratica la recurrent education, i cui elementi fondamentali sono l’esistenza di una scuola secondaria che prepari al lavoro, l’apertura delle università a studenti adulti e maturi, l’incremento delle connessioni fra istruzione e mondo del lavoro, l’inclusione e il riconoscimento di esperienze di vita e lavorative nell’ambito dell’educazione formale. La recurrent education si baserebbe, secondo alcuni, su una visione utilitarista poiché lega le politiche educative a quelle del mercato del lavoro; allo stesso tempo, però, tende a ricalcare l’istruzione formale esistente laddove invece la lifelong education implica un apprendimento lifelong e lifewide, cioè in tutti gli ambiti oltre che per tutta la vita, e comprende sia l’educazione formale che le fonti aperte e non formali di apprendimento.

Il Delors Report del 1996 pone invece in evidenza come il progresso dell’umanità dipenda non tanto dalla crescita economica quanto da un più ampio sviluppo personale, promuovendo il lifelong learning perché l’apprendimento esca dai canali tradizionali e si muova verso un orizzonte più aperto che includa percorsi formali, informali e non formali. Il Report si intitola infatti Learning: The treasure within, a sottolineare come attraverso il lifelong learning l’essere umano possa sviluppare e portare alla luce le proprie capacità ed abilità nascoste (il tesoro del titolo), a favore di una visione dell’educazione non immediatamente legata ad un riscontro in termini economici bensì ad una maggiore attenzione per lo sviluppo e la realizzazione personale.

Il White Paper dell’Unione Europea del 1995, muovendo dal Delors Report, cercava di integrare vantaggi economici e sociali in una politica di lifelong learning che mirasse, fra l’altro, ad abbassare il crescente tasso di disoccupazione in Europa. In questo caso, anche i sostenitori del lifelong learning sono stati accusati di avere una visione della formazione di tipo utilitarista.

Naudé afferma che dai tre documenti citati (OCSE, UNESCO e EU) si evince che nel concetto di lifelong learning coesistono elementi sia idealistici che realistici, e che le differenti prospettive adottate rispecchiano un maggior o minor grado di realismo (o idealismo).

L’autore affronta poi i concetti di conoscenza e apprendimento. Seguendo un percorso che lo porta da Kant fino a Jarvis (pp. 80-84), esplora la relazione tra conoscenza accademica e conoscenza pratica arrivando ad affermare che esse non sono distinte, bensì coesistono in un rapporto dialettico. Esplora poi con Fenwick (p. 85) la connessioni fra esperienza, riflessione e conoscenza sostenendo che l’apprendimento sul luogo di lavoro avviene attraverso la riflessione sulla pratica: la riflessione dopo l’azione trasforma l’esperienza in conoscenza, per cui l’apprendimento è radicato nella situazione contingente, nello spazio dell’esperienza, intendendo con esso non più un semplice luogo, bensì uno spazio di interazione fra tutti gli elementi coinvolti, umani e materiali (p. 85). In questo senso, il lifelong learning promuove l’apprendimento in spazi, non luoghi, portando l’istruzione fuori dalla classe in tutti gli ambiti della vita.

L’apprendimento può essere quindi descritto solo attraverso una teoria della complessità (complexity theory) secondo la quale nei contesti di apprendimento gli individui si adattano costantemente ai comportamenti altrui interagendo anche con elementi materiali come le tecnologie o i libri e dando vita ad una miriade di connessioni e variazioni complesse. Le diverse ontologie su cui si basano differenti concezioni relative alla conoscenza e all’apprendimento ci suggeriscono, secondo Naudé, che nessuna può essere presa come un assoluto, e la complessità dei punti di vista ci spinge ad avere un approccio dialettico anche verso la relazione che esiste tra conoscenza e apprendimento.

La teoria della complessità aiuta anche a descrivere le diverse argomentazioni a favore dell’educazione tradizionale o del lifelong learning e a delineare un quadro generale delle loro interconnessioni. I sostenitori della recurrent education e del lifelong learning vengono accusati, come abbiamo detto, di essere anche sostenitori della teoria del capitale umano legato alla globalizzazione, che considera l’essere umano come un mezzo (capitale) per uno scopo (economia) e non uno scopo in sé (teoria con cui si identificherebbero invece i sostenitori dell’educazione tradizionale). D’altra parte, però, i promotori del lifelong learning, come emerge nel Delors Report, sostengono lo sviluppo dell’essere umano in sé, al di là degli interessi economici. Naudé illustra con uno schema (p. 79) questa complessità di relazioni fra le varie prospettive ponendo al centro il lifelong learning fra l’educazione tradizionale (a sinistra) e la teoria del capitale umano (a destra); pone poi il concetto di conoscenza più vicino all’educazione tradizionale e quello di apprendimento al centro, sistemando poi una serie di altri concetti nel rimanente spazio, affermando quanto sia difficile dar conto della complessità delle posizioni, fra loro interconnesse, relative al concetto di lifelong learning e alle sue implicazioni.

Nella conclusione dell’articolo viene fornita una serie di indicazioni (p. 87) che dovrebbero ispirare le politiche relative all’istruzione e formazione:

  • riconoscere il valore sia della conoscenza accademica che pratica;
  • permettere che il lifelong learning venga riconosciuto sia che avvenga nelle istituzioni, sul posto di lavoro, o in altri spazi (personali, collettivi);
  • creare sistemi per il riconoscimento formale dell’apprendimento, quali un quadro nazionale delle qualifiche, la possibilità di accumulare e trasferire crediti e di ampliare l’accesso attraverso il riconoscimento dell’apprendimento pregresso;
  • permettere alle istituzioni educative di operare flessibilmente (diversi metodi di insegnamento e valutazione, lezioni serali o nei fine settimana, docenza sul posto di lavoro) ed introdurre una differenziazione delle offerte e delle caratteristiche demografiche dei discenti (ex-studenti che hanno abbandonato la scuola, adulti, lavoratori, autodidatti);
  • stimolare la connessione fra le istituzioni accademiche e il mondo del lavoro (industria) attraverso indicazioni sui curricula fornite dell’industria;
  • offrire programmi che siano orientati sia al mondo dell’accademia che a quello professionale includendo programmi e corsi brevi per lo sviluppo di abilità specifiche che siano riconosciuti in termini di qualifiche o qualifiche parziali;
  • riconoscere la formazione avvenuta sul lavoro.

Naudé conclude con la constatazione che nella Repubblica Sudafricana – ma su ciò si dovrebbe riflettere forse a livello globale – pur esistendo un National Qualification Framework per il riconoscimento di esperienze formative formali e non formali, che ha permesso di realizzare diverse esperienze di lifelong learning, le resistenze dovute alle posizioni prese in termini di conoscenza accademica pura e la priorità data all’educazione istituzionale piuttosto che alla formazione professionale stanno tuttora frenando lo sviluppo di una politica per l’apprendimento che risponda ai bisogni sociali ed economici del paese.