Nell’ottobre del 2008, l’UNEP (United Nation Environmental Programme) decise di lanciare uno studio “urgente” su quanto “green” potesse essere lo stimolo per la ripresa economica. L’incarico raggiunse, non a caso, Barbier che aveva già pubblicato con Pearce e Markandya, nel 1989 il Blueprint for a Green Economy. Questo blueprint era innovativo, non solo per il titolo ma perchè sosteneva, invece del tradizionale trade-off tra sviluppo economico e protezione ambientale, la possibilità della loro conciliazione. A questo primo Blueprint con ottica nazionale, seguì nel 1991, un secondo degli stessi autori e con analogo titolo ma ottica globale, il Blueprint 2. Greening the World Economy. L’idea dunque di rendere il sistema economico più “amico” dell’ambiente naturale nel quale opera e dal quale dipende, veniva divulgata già più di vent’anni fa. Gli studi sull’uso delle risorse naturali e loro implicazioni per la disponibilità futura così come quelli sulle tipologie di intervento per neutralizzare le esternalità negative ovvero i danni dell’inquinamento, erano già piuttosto nutriti fin dagli anni ‘60/ ’70 ma le idee e il vivace dibattito circolavano poco al di fuori della ristretta cerchia degli specialisti. Le cose cambiano radicalmente soltanto intorno agli ’90, anche in seguito a molti incidenti/ disastri ambientali provocati dallo sviluppo economico, e in tutti i paesi avanzati si inizia ad introdurre timide politiche ambientali.
Ma lo sviluppo economico procede ad usare le risorse naturali con sempre maggiore voracità sia perché nuovi paesi si affacciano alla industrializzazione/ sviluppo e sia perché quelli sviluppati si aspettano sempre maggiore produzione/consumo di beni economici (attese di crescente prodotto interno lordo, PIL). La situazione ambientale peggiora nonostante le politiche ambientali, per la verità più annunciate che veramente intraprese, tant’è che il surriscaldamento del globo dovuto all’attività dell’uomo che per produrre energia e spostare sé e le merci ricorre sempre più massicciamente alla combustione dei fossili, produce il cambiamento climatico che nessuno oggi può più negare. E’ bene puntualizzare che il cambiamento climatico non è, per così dire, una novità; esso è la regola ed è sempre avvenuto. Anche in tempi climaticamente recentissimi, come per esempio nel Medioevo in Europa, sappiamo che la temperatura media era più elevata di quella del tempo dei romani e così via andando indietro nel tempo si registrano periodi più caldi e meno caldi. Ma ciò che sta avvenendo oggi è in buona parte antropico perché è dovuto alla concentrazione dei gas serra derivante dalla combustione dei fossili e dai tagli delle foreste: è un “fatto” che prima della rivoluzione industriale (1800) la concentrazione di CO2 fosse di 280 ppm mentre oggi sia di 430/450 ppm. Inoltre, la velocità alla quale sta avvenendo l’accumulo di CO2 non è un fatto naturale e nè permette alla natura di reagire adeguandosi come è sempre avvenuto: i tempi della natura sono incomparabilmente più lunghi e per questo non possiamo fare affidamento sulla “resilience” della natura semplicemente perché non gliene diamo il tempo.
In questo quadro si è, nel 2008, innestata la crisi finanziaria poi tramutatasi in crisi dell’economia reale, (prodotto e occupazione) e dalla quale sembra difficile uscire. Nel 2009 Barbier mette a disposizione dell’UNEP il suo rapporto e nel 2010 la Cambridge University Press lo pubblica con il titolo: A Global Green New Deal. Rethinking Economic Recovery (GGND). Il titolo, con grande efficacia, coglie la situazione economica attuale. Mentre infatti la recessione mondiale assomiglia sempre di più a quella degli anni ’30 e richiede perciò un intervento pubblico non marginale, c’è chi propone di rivisitare il New Deal di Roosevelt al quale gli storici riconoscono il merito del superamento della crisi degli anni ’30. La somiglianza nella tipologia della crisi economica fa pensare che una politica di intervento analoga possa essere capace di far uscire l’economia mondiale dalla crisi prolungata di questo secolo come lo fu nel secolo scorso. In effetti il mondo sviluppato uscì da quella crisi anche, e soprattutto, ad opera del “New Deal” di Roosevelt . In estrema sintesi si può dire che il Presidente americano si mosse in due direzioni. Dal un lato, intervenne sul sistema bancario/ finanziario, all’origine della crisi, regolamentandolo (così come il mercato del lavoro) e, dall’altro, intervenne con investimenti strutturali capaci di accrescere l’occupazione e creando le premesse per incrementi di produttività.
Sebbene l’analogia con gli anni ’30 possa aiutare a capire il tipo e la gravità della crisi, ed ora come allora l’origine finanziaria investe e trascina l’economia reale, esiste una sostanziale diversità che deve essere colta quando si pensi a come intervenire. Oggi gli stimoli per la ripresa non possono essere semplicemente capaci di fare“uscire dalla crisi”, come si usa comunemente dire, per poi tornare, una volta usciti, al modello di crescita ereditato dalla rivoluzione industriale e di “successo” indiscusso almeno fino al 2008. Ai tempi di Roosevelt, il modello di crescita non era in discussione: si trattava di affrontare la crisi finanziaria e reale, superarla attraverso l’intervento pubblico ben disegnato per poi riprendere il sentiero di sviluppo consueto. Ma l’indiscusso successo di questo modello di produzione e consumo, che ha fatto aumentare il PIL globale pro capite e contemporaneamente la popolazione, che passa da 1 miliardo del 1800 ai 7 miliardi attuali, ha avuto un “costo” della cui dimensione oggi ci rendiamo conto e che non è più possibile trascurare. Il costo è dato dalle emissioni di CO2 (e altri gas ad effetto serra) e dal crescente utilizzo delle risorse naturali (intensità di uso crescente). Fondamentalmente, il successo del modello produttivo scaturito dalla rivoluzione industriale è dovuto alla sostituzione dell’energia animale con l’energia prodotta dalla combustione di fossili (carbone, petrolio, gas) alla quale è associata l’emissione di gas il principale dei quali è l’anidride carbonica, CO2. Nei duecento anni o poco più che ci separano dall’inizio della rivoluzione industriale, non è balzato soltanto il PIL pro-capite e la popolazione, ma anche la concentrazione dei gas serra (da 280 ppm ai 430/ 450 attuali). Maggiore la quantità di gas serra, maggiore la temperatura sulla terra a cui seguono i corrispondenti cambiamenti climatici. Gli scienziati del clima avvertono da tanto tempo , (si pensi che il primo modello climatico globale , di Hansen, venne divulgato già nel 1981) che se questo trend continuerà (business as usual), la concentrazione di CO2 raggiungerà presto la soglia di irreversibilità climatica. E l’inquinamento atmosferico non è l’unico costo; accanto ad esso bisogna considerare che il sistema produttivo e di consumo, fa sempre maggiore uso di risorse naturali a prescindere dai loro limiti. Dai pesci negli oceani alle foreste vergini, alle risorse idriche e ai minerali, tutto si sta riducendo, mentre maggiore, o almeno non minore, dovrebbe essere la disponibilità di queste risorse per soddisfare la domanda della crescente popolazione. E basta prendere atto di un unico segnale inconfutabile, quello della crescente quantità di rifiuti pro capite prodotti, per giungere alla conclusione che il modello non è sostenibile.
Se dunque il modello non è sostenibile per motivi qualitativi (inquinamento) e quantitativi (uso eccessivo di risorse naturali), l’intervento pubblico del quale c’è necessità per superare la crisi deve anche, e soprattutto, ispirarsi al cambiamento di tale modello. Il nuovo new deal del quale il mondo ha bisogno, deve tener conto della sostenibilità della crescita e cioè deve dar spazio alla green economy, lasciare il brown growth del passato/ presente e accelerare le trasformazioni necessarie, e tecnologicamente possibili, per rendere il modello compatibile con l’ambiente naturale che ci sostiene. In ciò consiste il green new deal. Si può senz’altro riconoscere che oggi, come negli anni 30 di Roosevelt ,vi sia necessità di regolamentare un mondo finanziario fuori controllo, in ciò aiutato dai mezzi tecnologici oltre che dalla globalizzazione, e di investimenti pubblici capaci di creare occupazione e rinnovare il tessuto delle infrastrutture. Ma a differenza di allora oggi dobbiamo tener conto del cambiamento climatico e della sostenibilità della crescita. Sebbene “aggiungere” un altro obiettivo all’intervento pubblico possa sembrare molto ambizioso e controproducente, questa crisi economica può essere in verità una grande occasione per effettuare la transizione verso una società a basso carbonio. Investimenti e/ o incentivi agli investimenti nel settore dell’energie pulite e rinnovabili, avrebbero efficacia sia in termini di occupazione, con ciò favorendo la ripresa, che di allontanamento dalla soglia di irreversibilità del cambiamento climatico generato dalla combustione dei fossili; analoghi effetti avrebbero gli investimenti e/o incentivi agli investimenti per la raccolta delle acque reflue e il loro riutilizzo in impieghi irrigui (dove è richiesta una minore qualità dell’ acqua); in generale, tutti gli investimenti per consentire il riuso e riciclo dei materiali (dai rifiuti alla carta) avrebbero analoghi effetti così come li avrebbero gli interventi di protezione del suolo, di raccolta delle acque piovane, di risparmio energetico e simili. Stesso risultato si raggiungerebbe con investimenti volti ad “educare”/ informare i consumatori della necessità di cambiare certe loro abitudini e scelte pur non compromettendo il loro tenore di vita ( come per esempio non lasciare in stand-by le apparecchiature delle abitazioni).
Ovviamente tutte le trasformazioni costano e dunque è illogico pensare che la transizione possa avvenire a costi nulli ma è certo che, allo stato attuale della tecnologia, essi sono alquanto contenuti. Inoltre, di fronte all’irreversibilità del cambiamento climatico e alle prospettive di crescenti probabilità di guerre per assicurarsi risorse naturali sempre più scarse, anche costi elevati sarebbero incredibilmente bassi rispetto ai benefici. E se la società non si è ancora incamminata su questa via è perché governi, imprese e consumatori, prendono le loro decisioni di scelta in un’ottica sempre più miope. L’incapacità di accettare oggi un basso costo in cambio di un grosso beneficio futuro, peraltro molto ravvicinato, rischia di aggravare la duplice crisi, economica e climatica, e di riportare in scena i fantasmi del malthusianesimo.
C’è da chiedersi se esista un’Italia del “green new deal”: personalmente ci vorrei contare.