Numero 13/14 - 2017

  • Numero 6 - 2012
  • Saggi

Alle radici dell’umanizzazione delle strutture sanitarie: un inquadramento antropologico

di Elvira Lozupone

Abstract

Questo lavoro si pone l’obiettivo di fornire alcune coordinate per un inquadramento antropologico dei processi di umanizzazione nel caso di assistenza a pazienti affetti da patologie croniche e in altri casi, in cui il rapporto medico-paziente risulta particolarmente stretto, coinvolgente e duraturo nel tempo, situazioni in cui tali processi vengono sempre più di frequente chiamati in causa. Si tratta di situazioni in cui la consuetudine nel rapporto con la persona malata rende difficile mantenere il distacco professionale, e forse, l’ostentazione di una artificiosa separazione tra la persona e la sua malattia anche poco opportuna.

1. Una situazione complessa

Le ragioni che spingono verso il ricorso alla categoria dell’umanizzazione nella pratica medica e nelle strutture sanitarie sono di natura diversificata: consideriamo prima di tutto ragioni di omogeneità normativa a livello europeo.

I riferimenti normativi europei ed internazionali vedono coniugarsi la Dichiarazione Universale di Alma Ata sull’Assistenza Sanitaria Primaria del 1978[1] con la strategia di Lisbona per la crescita e l’occupazione del 2000 e con il Libro Bianco della Commissione europea, come strategia per il quinquennio 2008-2013[2] la cui traduzione nel nostro Paese si attua nel Libro bianco sul Futuro del modello sociale del 2009[3].

Il confronto incrociato di questi documenti ci mostra l’incidenza di fattori organizzativo aziendali la cui ottimizzazione ha una ricaduta concreta in termini di prevenzione e politiche per la salute in senso stretto, oltre che opportunità di carattere economico.

In effetti la conclusione cui si giunge è che l’ampliamento dei servizi e la ricerca della qualità nelle prestazioni non può essere disgiunto da quello che in termini aziendali si definisce come “attenzione al cliente”; inoltre il portato economico dell’assistenza sanitaria ha una incidenza significativa sui PIL nazionali, sia in quanto ‘costo’ sia in quanto ‘investimento’. Su questo aspetto tuttavia non si ritiene opportuno soffermarsi per via della natura del presente lavoro.

Insieme a questi fattori ‘intrinseci’ ne compaiono altri ‘estrinseci’ sia di tipo epidemiologico che socio- culturale, volti a quella che con un termine improprio si può definire come ‘fidelizzazione’[4] del cliente che ha la finalità di rendere ottimale il suo stato di salute e il mantenimento della qualità della vita.

Su questo versante, il coordinamento tra strutture territoriali e il corretto funzionamento sistemico non può prescindere dagli aspetti umani nella gestione degli elementi del sistema, pena la disaffezione e l’allontanamento degli utenti in un momento in cui:

  • proliferano le medicine alternative che rispondono a bisogni psicologici delle persone, di guarigione magica e definitiva che, anche nel nostro Paese ha profonde radici culturali;
  • le patologie croniche sono in aumento, modificando radicalmente il rapporto medico-paziente[5];
  • la popolazione viene colpita in misura maggiore da malattie gravi come le neoplasie;
  • gli anziani, che costituiscono ormai gran parte della popolazione, vivono in condizioni di disabilità grave per un maggior numero di anni della propria vita, rispetto al passato;
  • «La capillare diffusione della rete telematica permette ad un crescente numero di persone di accedere ad informazioni approfondite, aspetto che se non mette ancora radicalmente in crisi la figura del medico certamente favorisce la consapevolezza e la responsabilizzazione individuale; in una prospettiva di breve termine obbligherà ad un ripensamento del rapporto medico-paziente in termini di coinvolgimento attivo di quest’ultimo»[6].

Non sono quindi soltanto fattori strutturali, opportunità di bilancio e necessità di uniformità normativa a livello europeo ad orientare verso una umanizzazione della medicina: dietro queste esigenze oggi come in passato si può rilevare una ricerca spasmodica di guarigione, da parte della popolazione, di allontanamento da sé delle situazioni di “male” e sofferenza. Sono elementi che rientrano in una concezione antropologica specifica. Essa parte dalla domanda fondamentale su chi l’uomo sia, si dipana attraverso domande ad essa correlate, sul significato dell’esistenza primariamente, e quindi sul significato attribuito al dolore, alla malattia, alla morte.

Si delinea parimenti una necessità di cambiamento nel lavoro all’interno delle strutture ospedaliere che parta dai bisogni degli utenti: si tratta di una necessità che attiva pratiche, strumenti, progetti[7] anche di pregio, che costituiscono in un certo senso il punto di partenza di questo lavoro[8]: ma la cui accettazione definitiva da parte di tutte le figure professionali che operano nella sanità è ancora lontana dall’essere raggiunta[9].

Tale necessità si configura in effetti come vuoto formativo da intendersi come necessità di attivazione di interventi che forniscano competenze tali da raggiungere livelli di professionalità adeguati:

  • a fornire risposte coerenti con quanto auspicato nelle sedi istituzionali;
  • con quanto richiesto, a livello organizzativo per rendere il proprio istituto efficiente e competitivo;
  • di cambiamento come accoglimento di quanto richiesto dalle persone, dai pazienti e dalle loro famiglie che sono e rimangono il centro dell’attività che si svolge in ospedale, e da quanto emerge dalle richieste dagli operatori.

Uno scenario complesso come quello delineato necessita ancora la puntualizzazione di alcune ulteriori coordinate di livello più esteso. Bisogna partire da un livello più generale, globale per l’esattezza, per avere una panoramica di ciò che accade a livello mondiale e che si riverbera nella vita delle persone e nella pratica professionale quotidiana.

2. Globalizzazione e sanità

Parlare di globalizzazione in chiave sanitaria significa

  • in primo luogo parlare di flussi migratori e di caratteristiche demografiche;
  • di rischi di pandemia;
  • di internazionalizzazione economica, della ricerca scientifica e dei protocolli di cura.

Il 21° dossier statistico Caritas Migrantes esordisce registrando un aumento di 64 milioni di migranti su scala mondiale negli ultimi dieci anni. Attualmente ci si assesta sulla cifra di 214 milioni di persone migranti in tutto il mondo.

In Italia, fino al settembre 2011 gli sbarchi hanno superato le 60000 unità e i dati per il nostro Paese registrano una stima di 4.968.000 persone presenti sul territorio nazionale[10]. Per quanto concerne i migranti nel nostro Paese, l’epidemiologia ne sottolinea la fragilità sociale: traumatismi e malattie infettive, i motivi più frequenti per il ricorso alle strutture sanitarie escludendo gravidanza e parto; si tratta di situazioni legate alla promiscuità abitativa, alla povertà, alla scarsa igiene abitativa e alla precarietà lavorativa.

I processi di inclusione di questa popolazione definita a rischio, la cosiddetta sfida interculturale, costituiscono la migliore forma di prevenzione e salvaguardia del benessere dell’intera popolazione[11].

Lo spostamento di merci alimentari provenienti da aree del pianeta dove i controlli sulle materie prime non sono così accurati come nei paesi industrializzati, ha contribuito alla diffusione delle pandemie che hanno procurato allarmi globali in alcuni casi inutili, se non dannosi: i piani di azione sono stati promossi a livello di OMS a salvaguardia della salute mondiale e realizzati poi in ogni singola nazione.

La ricerca scientifica in medicina, continua a fare grandi progressi: gli studi sul genoma ci fanno intravedere ormai la possibilità di una reale personalizzazione dell’intervento clinico.

Quindi come sempre il fenomeno globalizzazione raccoglie i più acritici entusiasmi, come le più ampie preoccupazioni. Soprattutto in ambito sanitario, come verrà esposto più avanti, il rischio è quello di favorire la tecnica dimenticando la Persona.

3. Un destino comune

La globalizzazione suscita una riflessione sulle azioni da intraprendere al fine di superare l’evidenza delle differenze economiche, etniche e culturali, alla ricerca di un possibile ‘bene comune’ da privilegiarsi rispetto ad inevitabili nazionalismi che si esprimono in vario modo e ne costituiscono una forza uguale e contraria. Una cosa infatti è certa: globalizzazione significa nel bene e nel male comunanza di destini[12]. Ci si chiede allora quali possano essere i fattori aggreganti alla luce di quella che permane come umanità comune e condivisa.

Tale domanda si pone anche in campo sanitario: la malattia, la sofferenza, la morte, su cui da sempre la medicina si è concentrata, hanno una indubbia connotazione universale: il malato, ogni malato, costituisce nella sua propria percepita sofferenza un mondo a sé: il dolore non è comunicabile. E tuttavia questo mondo di sofferenza costituito da singolarità, rappresenta pure in certo qual modo un insieme compatto:

«Gli uomini sofferenti si rendono simili tra loro mediante l’analogia della situazione, la prova del destino, oppure mediante il bisogno di comprensione e di premura, e forse soprattutto mediante il persistente interrogativo circa il senso di essa»[13].

Il mondo della sofferenza esiste nella dispersione, ma è una esperienza che accomuna tutti gli uomini: per questo “contiene in sé una singolare sfida alla comunione e alla solidarietà[14].

Il progresso tecnico e le possibilità offerte dall’economia attraverso l’internazionalizzazione dei mercati, sembrano snaturare in molti casi questo aspetto di condivisione e solidarietà. Nel mondo globale vi sono spinte che tendono a sostenere una mercificazione dei rapporti umani, che si indirizzano e si esauriscono in molti casi nella ricerca dell’utile personale e nell’individualismo; anche il mondo della salute diviene simile ad un mercato dove si mercanteggia la possibilità di operare sul corpo malato della persona per portarlo alla guarigione[15].

Le prestazioni sanitarie vengono erogate in funzione dell’approvvigionamento di fondi (ormai scarsi), creando malcontento nei cittadini, rivalità tra strutture sanitarie determinata anche dalla inquietante prospettiva della chiusura di alcune strutture ospedaliere.

4. Antropologia della sofferenza

La medicina oggi è tecnicamente potente come non lo è mai stata nel corso della storia dell’umanità. Vi sono mezzi sofisticatissimi volti ad esplorare il corpo umano; eppure il rapporto medico-paziente è un dialogo frustrante per entrambi: oggi come mai, la medicina sembra non riuscire a dare risposta alle domande più urgenti che i pazienti pongono ad essa[16].

Lo snaturamento dei rapporti umani inizia con l’inizio della vita nelle varie forme di eugenetica e si esaurisce nelle problematiche legate al fine-vita:

«La morte (oggi) è un fenomeno tecnico ottenuto con l’interruzione delle cure, cioè, in modo più o meno confessato, con una decisione del medico e dell’équipe ospedaliera (…) la morte è stata scomposta, frazionata in una serie di piccole tappe di cui, in definitiva, non si sa quale sia la morte vera, quella in cui si è perduta la conoscenza, o quella in cui è venuto meno il respiro …»[17].

La parcellizzazione della morte la rende forse meno dolorosa, certamente ai medici e al personale sanitario quando, argomentando finemente intorno ad essa nelle sedi del dibattito scientifico, si difendono dal coglierne l’impatto emotivo, dovuto allo scandalo, all’insuccesso: in definitiva alla propria inadeguatezza.

D’altro canto è un tratto peculiare del nostro tempo la fuga davanti allo scandalo del decesso: i familiari del defunto vogliono una morte soft (a casa no, per carità) la paura del cadavere presente in casa e un tempo vegliato tutta la notte in preghiera, in attesa dei funerali, viene ovviata da funeral homes[18] presenti ora anche sul territorio italiano che costituiscono l’ultimo grido nel campo dei servizi funebri: non casa, non chiesa, un luogo asettico e accogliente, aperto a tutte le religioni, dove il defunto può riposare in attesa dello svolgimento dei funerali o dell’arrivo di tutti i parenti che si possono distrarre (in nome dell’attenzione al cliente) usufruendo del bar o anche del ristorante, dopo il funerale, nella migliore tradizione anglosassone: fermo restando che tale tradizione conferisce a questa abitudine tutt’altro significato: più legato alla Resurrezione che non alla sepoltura.

L’incapacità di un addio definitivo apre l’immaginario collettivo ad un nuovo culto dei morti, un sincretismo tra la speranza della Vita Eterna dei cristiani e il politeismo pagano, in cui i morti non muoiono: diventano, nella religiosità comune, angeli che aleggiano nelle nostre vite. Allora si portano sulla tomba del defunto regali, pensierini, giochi, pupazzi di peluche nel caso dei bambini, con l’illusoria convinzione che possano ancora dilettarsene. Essi infatti, si dice, rimangono vivi fintanto che ad essi si rivolge un pensiero e il ricordo si mantiene immutato nel cuore dei sopravvissuti. Anche la vita eterna può tramutarsi, per i più giovani, in una prospettiva di ‘sballo’ eterno (una movida paradisiaca) [19].

Questa fatale e forzosa permanenza in una dimensione in cui, eliminata la trascendenza, non si appartiene né alla morte né alla vita, fa sì che nonostante tutti gli sforzi fatti per renderla soft, la morte di fatto non si allontani mai dalle persone che più la fuggono, e il processo del lutto non veda mai una sua risoluzione.

Come si vede da queste osservazioni il problema della sofferenza nei suoi cambiamenti e nella sua evoluzione rimane un problema legato a concezioni antropologiche specifiche. Esso si modifica seguendo i mutamenti sociali e culturali.

Due antropologie allora sembrano fronteggiarsi nella ricerca di umanizzazione degli ospedali: una che rifugge la sofferenza e il confronto con essa; l’altra che è consapevole della ineluttabilità della malattia, della sofferenza e della morte, ma non dimentica la dignità e integrità della persona.

Per dirla con altre parole non tecnica vs umanità, ma tecnica e umanità insieme, dove per umanità non si intende esclusivamente il discorso bio-etico che pure solleva alla riflessione sull’umanizzazione domande cui è spinoso dare risposta: ma la capacità di non perdere di vista la persona, una volta che, ben nascosta sotto i teli chirurgici rischia di divenire solo una zona del corpo, un organo da curare.

Il punto è che i progressi in campo bio-medico rischiano di rendere il medico ipercompetente, un tecnocrate sempre più distante dai suoi pazienti; d’altra parte la maggiore informazione delle persone, l’istanza individuale verso l’autonomia e l’autodeterminazione rendono il paziente estremamente esigente nelle domande, nella ricerca di rassicurazioni, nelle valutazione della qualità delle prestazioni: insieme a questo una antropologia orientata alla ricerca di una vita che non finisca mai, che menta sulla reale possibilità di un benessere assoluto e per tutta la vita, fa cadere nell’illusione molte persone, che nel momento in cui si verifica un evento infausto, e non essendovi preparate, ma anzi assolutamente fiduciose del contrario, non esitano ad identificare nel medico il colpevole, colui nel quale avevano riposto tutte le loro certezze e che li ha amaramente delusi.

Senza contare gli episodi di malasanità e deplorevole approssimazione, che in questo quadro già complesso costituiscono un ulteriore elemento critico.

«L’umanizzazione della medicina può dunque essere intesa come una declinazione (plurale) del tema antropologico in un campo d’azione altamente paradigmatico, in cui le scienze della natura e quelle dell’uomo vengono in contatto e trovano lo spazio per una collaborazione sinergica e non soltanto teorica»[20].

Il discorso relativo all’umanizzazione è un discorso inter-disciplinare che si coagula intorno alle Medical Humanities, che vuole convogliare su alcuni saperi scientifici la responsabilità e la possibilità di ri-centrare chi opera nella sanità su quanto di non misurabile c’è nell’uomo, sulla sua singolarità non classificabile, sulla sua irripetibilità: l’utilizzo di tali scienze umane vuole aiutare i medici ad inserire l’uomo nel suo contesto socio culturale come portatore di bisogni, come costruttore di narrazioni[21], come portatore di istanze di perfettibilità e di felicità.

5. Il contributo di Romano Guardini per una riflessione antropologica sul concetto di Persona

Il discorso rischia di impastoiarsi in una retorica poco utile alla crescita formativa e professionale. è bene dunque rifarsi a quanto insegna Romano Guardini che nella sua opera filosofica Mondo e persona del 1939 fa riferimento ad un incontro tra persone che si gioca sulle convinzioni di ciascuno e mette in moto la libertà dei partners di una qualsiasi relazione, si tratta di un movimento complesso impegnativo per entrambi: questo è il motivo per cui non si può ridurlo a dinamiche unicamente attrattive o repulsive come avviene per gli animali nella lotta per la sopravvivenza o ancora peggio essere assimilato all’incontro tra esseri viventi o sostanze chimiche che si traduce in un “urto esteriore”; queste considerazioni risultano in qualche modo profetiche alla luce dell’antropologia postmoderna e anche di quanto osservato sopra relativamente ai rapporti di mercificazione tra persone in ambito sanitario.

Guardini svela comunque l’artificiosità di un tale atteggiamento e la forzatura operata quando si tenta di rendere i rapporti tra persone connotati da una oggettività cosale. Essa viene ostentata, suggerisce, per nascondere la propria fragilità, il proprio essere inerme:

Un’apertura, un’autorivelazione di quanto è proprio e abitualmente segreto, di ciò che è autenticamente umano il che equivale a dire non solo: «Tu sei là: io sono io; rivolto verso di te, così come la situazione impone di volta in volta, nel rispetto, nella fiducia, nella fedeltà, nell’amore», ma anche: «Io sono quest’uomo, ti mostro il mio vólto, ti svelo la mia interiorità che si può rivelare solo in tale volgermi e corrispondente rivolgermi a te… »[22].

Il riconoscimento del proprio bisogno, della propria debolezza in entrambi gli attori della relazione diviene contemplazione e riconoscimento dell’Uomo. Certo l’emergenza clinica, il rischio vita costituiscono momenti in cui pur tenendo presente la persona non ci si può abbandonare troppo ai sentimenti e all’affettività: come testimoniato da quanto riportato di seguito però deve esserci il momento in cui si rientra in sé stessi e questo momento diviene contemplazione della finitezza umana, atto di omaggio alla dimensione spirituale di ogni essere umano, alla sua Trascendenza. Ecco come si pronuncia una infermiera di terapia intensiva: «… una volta che ho rimosso tutti gli accessi venosi, scollegato ogni sensore, mi fermo e mi prendo del Tempo … finalmente posso rimanere a guardare … ora che sei Persona …».

Il medico che accetta la sfida dell’apertura all’umanizzazione diviene un agente di tutela della salute dei cittadini: in dialogo con il territorio e con le istituzioni a favore di una ecologia ambientale, a favore di un più efficace ed equo utilizzo del denaro pubblico: diviene agente di contrasto di un concetto di salute che «si limita al benessere come pura vitalità esuberante, soddisfatta della propria efficienza fisica ed assolutamente preclusa ad ogni considerazione positiva della sofferenza»[23]. La salute non si limita alla perfezione biologica, come ampiamente dimostrato dalla sfida della cronicità. Anche la vita vissuta con la piena consapevolezza di un corpo imperfetto perché portatore di limiti quando non proprio nella sofferenza, offre spazi di crescita e di autorealizzazione ed apre la strada verso la scoperta di nuovi valori attraverso ciò che supera la nuda corporeità.

«Questa visione della salute, fondata in una antropologia rispettosa della persona nella sua integralità, lungi dall’identificarsi con la semplice assenza di malattie, si pone come tensione verso una più piena armonia ed un sano equilibrio a livello fisico, psichico, spirituale e sociale. In questa prospettiva, la persona stessa è chiamata a mobilitare tutte le energie disponibili per realizzare la propria vocazione e il bene altrui»[24].

Ma per giungere a questo livello di consapevolezza è necessario scoprire un deficit formativo, bisogna arrivare a delineare un bisogno formativo e bisogna cercare di colmarlo attraverso una formazione adeguata: tale formazione viene fornita dalle scienze umane e tale bisogno e si configura come bisogno educativo di formazione permanente.

6. Umanizzazione come azione politica di contrasto alla sofferenza sociale

L’apertura ai processi di umanizzazione comporta anche la presa in considerazione della dimensione politica e sociale che attraversa la sanità soprattutto nel contrasto di quella che si definisce come sofferenza sociale[25].

Un’analisi disincantata e approfondita dei processi che sono alla base delle politiche della salute evidenzia il pericolo di discriminazione che emerge dal considerare la malattia come puro fatto biologico escludendo i fattori sociali che la originano e la perpetuano in determinate fasce di popolazione, così come in determinate aree del pianeta piuttosto che in altre.

Un atteggiamento di questo tipo può portare a fraintendimenti anche di tipo etnografico, quando si scambia per cultura la presenza in un determinato territorio di condizioni di indigenza endemica della popolazione e correlata presenza di malattia, morte e sofferenza.

Anche gli studi scientifici possono essere selezionati dalle riviste se mantengono una definizione della malattia accettata dalla ortodossia accademica che ne circoscrive determinate caratteristiche piuttosto che altre, come nel caso degli studi sull’infezione da HIV.

Rispetto a tale fenomeno si è creato un movimento di esclusione sociale non solo rispetto allo scandalo della distribuzione dei farmaci retrovirali sempre deficitarii rispetto alla domanda, ma si è agito in modo che le persone sieronegative non potessero accedere ai programmi educativi e preventivi, creando di fatto le premesse per una diffusione del contagio:

«Al cuore dell’approccio alla sofferenza sociale – sostiene Ivo Quaranta – rintracciamo la necessità di indagare due livelli: in prima battuta la produzione sociale del disagio, ma anche tutti quei meccanismi attraverso cui gli ordini sociali tendono ad occultarla» [26].

7. Conclusione

L’Umanizzazione dunque pone il medico al centro di una ulteriore, nuova concezione professionale: un professionista che, a partire dai significati legati alla propria professione, si interroga sull’apporto individuale nell’alleviare la persona malata da tutto quello che implica la sua condizione di malattia, in termini di disagio sociale, oltre che di sofferenza fisica e psicologica: il suo intervento non si limita al malato ma si estende alla famiglia e alla stretta collaborazione con il territorio con l’obiettivo di modificare e contenere le situazioni di disagio sociale e di potenziale esclusione ed emarginazione sociale connesse con il fenomeno malattia. Non prescinde dal fatto che malattia sofferenza e morte sono fenomeni ineluttabili dell’esistenza umana e attraversano ogni continente cultura e condizione sociale quantunque vissuti differentemente proprio per le condizioni che si legano ad elementi strutturali piuttosto che a fattori di tipo esclusivamente biomedico.

Al termine di questo lavoro di analisi è dunque evidente come l’intreccio disciplinare che conduce ad una reale umanizzazione delle strutture sanitarie porta a colmare il divario esistente tra il medico, il paziente, la comunità scientifica e la società. La ricerca di umanizzazione può essere risolutiva nell’aiuto ai medici ad offrire una cura della malattia accurata, coinvolta ed efficace; rispondente cioè a tutti quei parametri di tipo normativo, preventivo, economico e socio-culturale cui si è accennato nell’apertura di questo lavoro.

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Tutti i siti sono stati verificati il 24 Ottobre 2012.

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  1. World Health Organization, Declaration of Alma-Ata. International Conference on Primary Health Care, Alma-Ata, USSR, 6-12 September 1978.
  2. Commissione delle Comunità Europee, Libro Bianco, Un impegno comune per la salute, Approccio strategico dell’UE per il periodo 2008-2013, Bruxelles, 23.10.2007, COM (2007) 630 definitivo.
  3. Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, Libro bianco sul Futuro del modello sociale, La vita buona nella società attiva, Maggio 2009.
  4. Vedi quanto suggerisce Tramma sul paradosso della fidelizzazione in sanità: cfr. S. Tramma, Educazione e modernità. La pedagogia e i dilemmi della contemporaneità, Roma, Carocci, 2005.
  5. E. Lozupone, Contributi pedagogici in ambito sanitario: dall’intervento psicoeducativo all’educazione terapeutica, in «I problemi della pedagogia», nn. 4-6, 2009, pp. 557-569.
  6. CENSIS – Forum per la ricerca biomedica, Quale futuro per il rapporto medico-paziente nella nuova sanità? Roma, Fondazione CENSIS, 2012, p.1.
  7. Vedi ad esempio quanto presente sul sito del Premio nazionale ‘Tiziano Terzani’ per l’umanizzazione della medicina. www.premioterzani.it
  8. Vedi ad esempio. ARES, Regione Puglia, Azienda ospedaliero-universitaria Policlinico Giovanni XXIII di Bari (a cura di) Os…pedaliamo i diritti dei bambini in movimentoProgramma per la promozione dell’umanizzazione nelle pediatrie ospedaliere in Puglia 2004; inoltre, Azienda Ospedaliera San Paolo, Polo Universitario, Università degli studi di Milano facoltà di Medicina e Chirurgia, Institute for Professionalism & Ethical Practice (a cura di ) Tra scienza e sofferenza : le conversazioni difficili in sanità. Il Programma per migliorare le competenze comunicativo relazionali (PERCS). Entrambi i progetti, insieme con altri, hanno vinto l’edizione 2010 del Premio Tiziano Terzani. http://www.scumaniz.altervista.org/Premio_Terzani.html
  9. Per questo lavoro si utilizzerà quasi esclusivamente materiale tratto da Internet con la motivazione che la rete è un ottimo contenitore di spunti, anche qualificati, per la formazione all’umanizzazione: Scuole di umanizzazione, Ospedali, Centri di ricerca, ASL, hanno l’obiettivo di rendere massimamente fruibile tale formazione: davvero, volendolo, non mancano le occasioni per aprirsi ad un modo diverso di operare professionalmente e umanamente. Nell’ambito di un dipartimento di Scienze e Tecnologie della Formazione di cui la Rivista Scuola IaD Modelli, Politiche e R&T è in qualche modo espressione, si auspica che la formazione all’umanizzazione possa essere uno dei nuclei centrali di ricerca e di insegnamento, nonché un fattore di aggregazione disciplinare.
  10. Caritas/Migrantes, IDOS, Dossier Statistico Immigrazione 21° Rapporto 2011, p.1 http://www.caritasitaliana.it/materiali/Pubblicazioni/libri_2011/dossier_immigrazione2011/scheda.pdf
  11. http://www.sokos.it/pdf/tesi/salute_migrazione.pdf
  12. C. Giaccardi, M. Magatti , L’io globale. Dinamiche della socialità contemporanea, Bari, Laterza, 2003.
  13. Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Salvifici doloris ai vescovi ai sacerdoti alle famiglie religiose ed ai fedeli della chiesa cattolica sul senso cristiano della sofferenza umana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1984, p. 8.
  14. Ibidem.
  15. Cfr. G. Favero, A. Losano, “Morire”. Considerazioni antropologiche e “incursioni” filosofiche. http://www.scumaniz.altervista.org/corsi_files/Antropologia.pdf
  16. A. G. Drusini, Antropologia del dolore: un’analisi Bio-culturale. http://www.cottolengo.org/doc/corsi_materialedidattico/DRUSINI_antropologia_del_dolore.pdf
  17. P. Ariés, Storia della morte in Occidente. Dal Medioevo ai giorni nostri, Milano, Rizzoli, 1998, p.70.
  18. http://corrieredibologna.corriere.it/bologna/notizie/cronaca/2011/27-giugno-2011/a-modena-arriva-funeral-home-sale-commiato-ogni-culto–190963424209.shtml.
  19. Queste osservazioni sono state fatte da chi scrive, osservando non solo i cimiteri romani, ma anche prestando attenzione ai numerosi ‘cippi’ ed edicole funerarie, con relative iscrizioni, che compaiono lungo le strade di scorrimento nella città di Roma.
  20. http://scumaniz.altervista.org/finalita.html
  21. R. Charon, «Narrative Medicine, a Model for Empathy Reflection, Profession, and Trust», in Journal of American Medical Association, 2001, 286, pp. 1897-1902.
  22. S. Zucal, Il concetto di Persona in Romano Guardini (Le citazioni di Guardini sono tratte da Mondo e persona, ed. ted. di riferimento, Person und Welt. Versuche zur christlichen Lehre vom Menschen, Grünewald, Verlag 1988, p. 129. http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/PagineDiocesi/AllegatiTools/222/Guardini.pdf
  23. Giovanni Paolo II, Messaggio in preparazione alla VIII giornata Mondiale del malato, 6 agosto 1999, §.13.
    http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/messages/sick/documents/hf_jp-ii_mes_19990806_world-day-of-the-sick-2000_it.html
  24. Ibidem
  25. A. Corio, A. Siclari, Verso una’antropologia della sofferenza sociale: Corpo, potere e contagio. Intervista a Ivo Quaranta, Parte I: su alcuni paradigmi concettuali ed epistemologici. http://www.trickster.lettere.unipd.it/numero/rubriche/ricerca/corio_quaranta_I/corio_quaranta_I.html
  26. A. Corio, A. Siclari, op. cit.
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