Abstract
Il saggio propone un’analisi delle possibili dimensioni per una comunicazione sociale etica e responsabile. Dopo una breve discussione sulle caratteristiche della comunicazione mediale contemporanea e della comunicazione sociale, sono proposti e analizzati i dieci passi per la costruzione di una dimensione etica e responsabile della comunicazione: responsabilità verso l’alterità, partecipazione, cooperazione, vita quotidiana on e off line, professionalità, capacità di denuncia, centralità della relazione comunicativa, ampliamento degli immaginari sociali, relazione tra natura e cultura tecnologica, creatività ed immaginazione.
1. Overture
“Spot. Musica di sottofondo allegra e accattivante. Un uomo di colore vestito con una tunica bianca canta insieme ad un gruppo di bambine e bambini di colore sotto un grande albero in una savana. Si susseguono immagini che comparano l’Africa (positiva) e il resto del mondo (negativo). Alla fine dello spot si racconta che milioni di africani bevono Coca Cola. Immagine finale dello spot: la bottiglia rossa di Coca Cola” | |
La visione di uno spot pubblicitario è esperienza comune e condivisa da milioni di persone in tutto il mondo. Se all’inizio della comunicazione pubblicitaria poteva essere un evento eccezionale o, in alcuni casi, relegato a spazi ben definiti nei palinsesti televisivi[1], adesso uno spot è semplicemente una delle informazioni multimediali del torrente di informazioni[2] che consideriamo normali e familiari nella nostra vita quotidiana. Se poi assumono la forma di una narrazione, entrano a far parte del flusso di alimentazione dell’immaginario individuale e collettivo[3] fino a comporre iframeworlds descritti da Silverstone[4] che guidano la nostra vita quotidiana.
Perché dovremmo analizzarlo con attenzione e, forse, considerarlo un problema se parliamo di comunicazione sociale? È possibile individuare un percorso di etica e responsabilità per gli operatori della comunicazione sociale (e non solo per quelli dell’informazione per cui esistono molti codici e carte spesso non conosciuti e, comunque, poco rispettati?)[5]?
2. L’immersione nella comunicazione
La prima questione è prettamente quantitativa. La numerosità e la molteplicità dei flussi multimediali prodotti per il mercato e dal mercato costituiscono la base fondamentale sulla quale è costruita la nostra realtà sociale contemporanea[6]. Inoltre la fruizione mediale prevalentemente individuale accentua l’aspetto apparentemente non sociale nel quale l’individuo è immerso[7].
La seconda questione è quella della quotidianità dei flussi comunicativi. Non è un’affermazione originale quella che sottolinea come i media facciano parte della nostra vita quotidiana[8], sia nelle modalità di fruizione sia, soprattutto, come rappresentazioni sociali che di volta in volta “peschiamo” nell’immaginario individuale e collettivo quando ci “servono” nelle relazioni sociali[9].
La terza questione è quella della popolarità. La comunicazione è centrale per il cambiamento culturale se è popolare. E quella di mercato lo è stata e lo è tuttora e, probabilmente, lo sarà nei prossimi anni anche grazie alla capacità di colonizzare gli immaginari altri[10]. Anticipando una riflessione che faremo in seguito, il mercato propone una socialità non etica che agli occhi di ciascuno di noi appare comunque familiare e positiva[11].
La quarta questione è quella dei nuovi media. L’aumento della relazionalità attraverso il cosiddetto web 2.0 e la diffusa capacità di fruire dei contenuti mediali in mobilità sono solo due degli aspetti di una novità ancora tutta da esplorare nelle sue conseguenze sulla vita quotidiana. L’incremento esponenziale della sociabilità reticolare[12] e della relazionalità diffusa[13.Cfr. B. Mazza, A. Volterrani, «Reti sociali e sense making per una relazionalità diffusa» in Oltre l’individualismo (a cura di M. Morcellini e B. Mazza), Milano, Franco Angeli, 2008.] è certamente l’aspetto più rilevante per il nostro ragionamento.
Quantità, quotidianità, popolarità, relazionalità: un’immersione completa in immagini, simboli, narrazioni che ogni volta promettono di aprire nuovi spazi alla nostra immaginazione e alle possibilità per ciascuno di noi; la comunicazione è dentro e intorno a noi. E la comunicazione sociale?
3. La comunicazione sociale come spazio di confronto
La comunicazione sociale sta diventando adulta. La comunicazione sociale è un luogo di confronto, di scambio e di relazione tra mondi diversi. Quali sono questi mondi? Il primo è sicuramente quello accademico che da qualche tempo sta cercando di costruire una riflessione teorica[13] che possa supportare la capacità di intervento, l’azione e l’operatività dei soggetti organizzativi che agiscono la comunicazione sociale.
Il secondo è, invece, quello del volontariato e del terzo settore che rappresentano tradizionalmente uno dei luoghi più importanti e maggiormente attenti alla comunicazione sociale degli ultimi decenni. Altri soggetti si stanno affacciando sulla scena della comunicazione sociale pur non avendo le caratteristiche del volontariato e del terzo settoretout court. Sto facendo riferimento ad alcuni movimenti giovanili, ad alcune azioni che possono essere fatte rientrare nell’ambito della cosiddetta cittadinanza attiva e alle azioni di democrazia partecipata e di partecipazione nei territori on e off line. Gruppi di acquisto solidali, orti urbani, azioni di difesa ambientale, promozione dei beni comuni: questi sono tutti soggetti collettivi che, con nuove forme organizzative non del tutto definite e definibili, talvolta a cavallo fra volontariato e impresa sociale, hanno la capacità di attivare azioni di comunicazione sociale.
Il terzo mondo è quello dei media stessi. È difficile pensare a una comunicazione sociale che non coinvolga direttamente le professioni e le professionalità che sono cresciute all’interno dei media stessi. E ancora non è pensabile una comunicazione sociale che non stia sulla frontiera delle innovazioni tecnologiche mediali, capace cioè di sviluppare nuove modalità di comunicazione e nuovi immaginari sociali.
All’incrocio tra questi mondi è possibile trovare qualcosa che ancora non c’è: uno spazio che possa rappresentare una nuova possibilità di sviluppo e di crescita per l’intera collettività. Ma con quali principi?frame
4. I principi della comunicazione sociale
Cinque dimensioni, come appunti per iniziare un possibile percorso. Come abbiamo accennato in precedenza, ispirare le proprie azioni comunicative alla popolarità che si può raggiungere se ci poniamo nei panni dell’altro e condividiamo i suoi pensieri e il suo immaginario. Mettersi nei panni dell’altro significa comprenderne meccanismi, stili, linguaggi, luoghi frequentati nello spazio pubblico mediale. Si può perdere qualcosa (anche tanto) nella ricchezza e nell’articolazione dei contenuti per acquisire in ampiezza (e in profondità) dell’azione comunicativa. Non dobbiamo dimenticare che gli stereotipi popolari radicati sono poco ricchi e articolati in termini informativi, ma sono ampiamente presenti nei frame culturali spesso proprio sui temi sociali che interessano le organizzazioni del terzo settore. Costruire comunicazione sociale popolare non significa banalizzazione e semplificazione dei messaggi e dei contenuti, ma, piuttosto, messaggi e contenuti decodificabili e interpretabili dai molti. Le narrazioni sono la seconda dimensione importante per la nostra strategia. La vita dell’uomo è una storia e la biografia è la nostra prima storia. L’approccio narrativo alla comunicazione sociale non significa solo trovare storie per i media, ma, piuttosto, significa acquisire la capacità di scoprire storie, raccoglierle, analizzarle, per poi inventarne, costruirne e commissionarne di nuove, rappresentative per la comunità e la collettività. In sintesi non è importante costruire grandi e articolate storie, ma, invece, attingere alle miniere delle storie presenti nel sociale, ma anche a quelle che sono già presenti in altri angoli dell’immaginario collettivo, non dimenticandoci che sono i principali veicoli che ci consentono di passare da un mondo all’altro o di costruirne di nuovi. La terza dimensione è la ritualità. La nostra vita quotidiana è costellata di piccoli e grandi rituali dei quali non vogliamo fare a meno. Per questo ritualità significa anche proporre familiarità nelle azioni e nella comunicazione. La quarta dimensione. Gli immaginari proposti dagli attori che agiscono nel mercato compongono, come abbiamo visto, la parte centrale dei frame, quella più diffusa e popolare e, anche, più democratica. I soggetti attivi nella comunicazione sociale potrebbero comunicare usando immaginari diffusi e usati nell’ambito del mercato per promuovere nuovi immaginari sociali. Questo non significa appiattirsi su strategie di mercato o trasferire modelli culturali prevalenti nel mercato, ma, piuttosto, riconoscere quelli che sono oggi gli standard presenti nell’archivio delle immagini e degli immaginari e usarle proponendo intelligenti e creativi remix che possano affiancare prospettive diverse ma contigue. Infine l’ultima dimensione fa riferimento alla media education. Nonostante i molteplici percorsi di apprendimento e le diffuse aspirazioni pedagogiche su molti dei temi sociali di interesse delle organizzazioni di terzo settore e di volontariato non è percepita la potenzialità di azioni diffuse di media education non solo a supporto del mondo della scuola e dei giovani, ma come uno dei cardini del long life learning. È attraverso questi percorsi di medio-lungo periodo che i cittadini acquisiscono le competenze per comprendere, analizzare e costruire individualmente e collettivamente cultura mediale e, quindi, contribuire a costruire culture e immaginari collettivi innovativi. Ma è pensabile seguire questi principi senza che ci sia una riflessione diffusa sul tema della responsabilità e dell’etica nella comunicazione?
5. Dieci passi per la responsabilità e l’etica nella comunicazione sociale
Il “dovrebbe essere” della comunicazione sociale rischia di essere un esercizio stilistico e niente più di fronte a trasformazioni culturali globali. Nonostante questo sono delineabili alcuni orientamenti per un percorso possibile. Una premessa è necessaria: rispetto ai mezzi (on e off line), alla tipologia (media giornalistici e narrativi), alleaudience (generaliste e settoriali) esistono delle differenze che, nella nostra riflessione, non sono rilevanti, perché responsabilità ed etica sono trasversali e pervasive. È evidente che l’interpretazione e l’operatività di alcuni orientamenti sono e saranno, se adottati, adattati alla specificità dei mezzi, alla tipologia e alle audience.
L’assunzione della responsabilità da parte della comunità di pratica mediale della comunicazione sociale, ovvero di tutti coloro che si occupano anche marginalmente[14] di sociale largo[15], di sostenibilità sociale, economica ed ambientale, di vita quotidiana, di diritti, valori e principi democratici, è il primo passo. Responsabilità è un concetto con un alto livello di astrazione se non è declinato per essere condiviso da una comunità di pratiche come quella che ruota dentro e intorno ai media. Innanzitutto è responsabilità verso l’alterità. Se non si riconosce l’alterità[16], il volto dell’altro come spazio identificativo dell’umanità, allora molte delle riflessioni sui cambiamenti possibili degli immaginari rischiano di essere evanescenti. Perché come afferma Maffesoli:
«è proprio la profusione delle immagini a creare il mondo immaginale (…) Bisogna avere quindi il coraggio intellettuale di accettare anche un’immagine senza contenuto (…) Io penso che sia proprio in questa oscenità volgare, presente ad esempio in alcune trasmissioni televisive, che ha luogo la costituzione di un corpo sociale, ricordando che non siamo solo uomini razionali, ma partecipiamo comunque a un’umanità sensibile (…) L’essenza della comunicazione è il fatto di esistere solo grazie all’altro. È un’essenza che appartiene all’ordine del simbolico» [17].
Ed è proprio nella prospettiva della comunicazione come condivisione e come attività precipuamente umana che la responsabilità non è una delle opzioni possibili, ma l’opzione della comunità di pratiche mediale per eccellenza. Nei media l’alterità è rappresentata all’interno dei frameworlds. Secondo Silverstone
«i mezzi di comunicazione di massa mettono a disposizione – con un’intensità più o meno forte – queste cornici di mondi (o frameworlds) in cui l’altro si manifesta, che essi de facto definiscono lo spazio morale all’interno del quale l’alterità emerge e, contemporaneamente, esortano (rivendicano, esigono) da parte del pubblico una risposta morale adeguata allo stimolo, in quanto cittadini in potenza o a tutti gli effetti»[19. Ivi, p.11.].
È sull’intensità e, soprattutto, la modalità di rappresentazione con la quale si manifesta l’alterità che dobbiamo fare attenzione per evitare che si riproducano, anche inconsapevolmente, attraverso le produzioni mediali stereotipizzazioni e pregiudizi[18].
Se l’alterità è una delle premesse per la cittadinanza, il secondo passo è la partecipazione alla costruzione della comunicazione sociale. È sempre Silverstone a sostenerci affermando che
«La partecipazione dell’audience come soggetto attivo nel processo di rappresentazione mediato è ciò che assicura alla mediapolis, almeno in linea di principio, la possibilità di adempiere il proprio compito: offrire un contributo per la costruzione di una società civile globale»[19].
Quindi una partecipazione che veda protagonisti i cosiddetti “riceventi” sia nell’individuazione dei temi sia nella loro rappresentazione[20]. I processi di partecipazione hanno tempi che spesso non sono sincronici con quelli della comunicazione dei media giornalistici. Ma i luoghi della partecipazione possono essere, ad esempio, quelli dei media narrativi on e off line, dove la tempistica produttiva consente di attivare percorsi di condivisione e coinvolgimento particolarmente profondi.
Il terzo passo è la cooperazione. Sennet, nel suo ultimo libro[21], affronta il delicato equilibrio fra cooperazione e competizione. Nella comunicazione sociale la cooperazione dovrebbe essere il leit motiv che guida qualunque pensiero e azione comunicativa. Lavorare insieme anche se appartenenti a organizzazioni diverse, è eticamente responsabile se l’obiettivo è quello del cambiamento culturale all’interno dell’immaginario collettivo. Sarebbe ben difficile, altrimenti, riuscire a interagire con il mainstream costruito e ricostruito continuamente dal mercato sia per qualità delle produzioni multimediali che, soprattutto, per quantità inseribile nei flussi comunicativi quotidiani. Sono maturi i tempi per sviluppare cantere[22] della comunicazione sociale capaci di coniugare differenze e omogeneità fra la comunità di pratiche mediali della comunicazione sociale.
Un altro passo riguarda i rapporti tra vita quotidiana on e off line. Riconoscere la continuità fra on e off line[23] non è solo un problema analitico, ma la consapevolezza di una trasformazione profonda della quotidianità che riguarda molte persone, ma che talvolta può essere lesiva della capacità di essere protagonisti[24]. Ancora più importante per il nostro ragionamento sulla responsabilità e sull’etica, è la necessità di promuovere questa continuità sia in chi non possiede le competenze culturali e cognitive e le capacità d’uso[25] sia in chi possiede solo le capacità d’uso[26] con l’obiettivo di attivare processi di inclusione oltre il superamento deldigital divide.
Il quinto passo è strettamente legato alle professionalità della comunicazione. Alcune regole formali e informali sono patrimonio dei professionisti sia nei media generalisti sia nei media narrativi: l’uso delle storie, la gestione e la citazione delle fonti, la gestione delle immagini dei minori o di quelle particolarmente cariche di violenza, etc… Un patrimonio, però, spesso disconosciuto in nome delle verità e del pubblico (in realtà del mercato nel quale il pubblico diventa cliente). Anche in questo caso un’ecologia delle professioni mediali è quello di cui, forse, avremmo bisogno per rinnovare il patrimonio professionale.
Il sesto passo, controverso, è la denuncia mediale pubblica che, a volte rischia, di essere lesiva (da un punto di vista dell’immaginario) di chi subisce una violazione simbolica e/o fisica. È eticamente corretto denunciare, se questo non ha conseguenze su chi non ha gli strumenti per potersi difendere (soggettivamente o oggettivamente)[27]. Quando il tema è controverso, prioritaria diventa la responsabilità nel riconoscere e rispettare l’alterità piuttosto che la visibilità[28] che accompagna chi denuncia al posto di qualcuno.
Il settimo passo è la centralità della relazione comunicativa. Certamente, come sappiamo dalla Scuola di Palo Alto, non si può non comunicare. Ma nella prospettiva che stiamo delineando in queste poche pagine, pensare e progettare la comunicazione sociale è una delle strade da seguire per evitare la costruzione di azioni che non prevedano condivisione di codici comunicativi e culturali[29] con il pubblico più ampio possibile[30]. Ed è su questo aspetto che l’ottavo passo si concentra: l’ampliamento degli immaginari sociali sia attraverso fratture neiframeworlds offerti dal mercato[31] sia con proposte “coraggiose” fuori dai frameworlds nonché con la colonizzazione del mainstream[32]. Quest’ultima prospettiva ribalta la riflessione dell’overture con lo spot della Coca Cola, aprendo prospettive di cambiamento etico e responsabile non impossibili da realizzare per chi si occupa di comunicazione sociale.
Il penultimo passo è il rapporto fra natura e cultura mediato dalle tecnologie con particolare riferimento alla crescita dell’intelligenza artificiale (e della robotica)[33]. Apparentemente la comunicazione sociale sembra essere estranea a questo dibattito, ma, invece, la questione della sostituzione dell’umano, che tanta letteratura fantascientifica[34] ha anticipato, è una prospettiva molto reale che anche in questo caso rischia di escludere un numero elevato di persone dalla discussione e dalla fruizione di (eventuali) benefici.
Infine, l’ultimo passo è quello della creatività e dell’immaginazione. Una comunicazione sociale etica e responsabile crea quello che non c’è. Appaduraj[35] parla di cultura come aspirazione capace di riconquistare gli orizzonti di senso del futuro, raccontando esempi concreti nelle situazioni marginali più estreme[36]. Questo grazie alla responsabilità, ma, soprattutto, alla capacità creativa collettiva. Chi si occupa di comunicazione sociale deve essere più creativo di coloro che si occupano di comunicazione di mercato (e in particolare di quella pubblicitaria) perché si confronta con oggetti e situazioni più complesse e controverse, non può utilizzare il “magazzino simbolico e comunicativo delmainstream” indiscriminatamente, appartiene spesso a situazioni organizzative frammentate e non cooperative. Nonostante tutto questo, il primo e l’ultimo passo, responsabilità e creatività sono i due pilastri sui quali è possibile immaginare una pluralità di mondi che comunicano e una comunità di pratica mediale della comunicazione sociale che si confronta. E già questo sarebbe un primo ed importante cambiamento.
Bibliografia
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- Per quanto riguarda l’Italia si pensi a Carosello. ↩
- Cfr. T. Gitlin, Sommersi dai media, Milano, Etas, 2003. ↩
- Su questi temi vedi: A. Abruzzese, L’intelligenza del mondo, fondamenti di storia e teoria dell’immaginario, Roma, Meltemi Editore, 2001; M. Castells,Comunicazione e potere, Milano, Università Bocconi Editore, 2009; P. Jedlowski, Il racconto come dimora, Torino, Bollati Boringhieri, 2009. ↩
- Per il concetto di frameworlds, vedi R. Silverstone, Mediapolis. La responsabilità dei media nella civiltà globale, Milano, Vita e Pensiero, 2009 ↩
- La Carta di Treviso è «un protocollo firmato il 5 ottobre 1990 da Ordine dei giornalisti, Federazione nazionale della stampa italiana e Telefono azzurro con l’intento di disciplinare i rapporti tra informazione e infanzia. La Carta, da una parte salvaguarda il diritto di cronaca, dall’altra pone l’accento sulla responsabilità che tutti i mezzi d’informazione hanno nella costruzione di una società che rispetti appieno l’immagine di bambini e adolescenti. Alla base c’è il principio di difendere l’identità, la personalità e i diritti dei minorenni vittime o colpevoli di reati, o comunque coinvolti in situazioni che potrebbero comprometterne l’armonioso sviluppo psichico. Stesse garanzie sono assicurate anche ai soggetti marginali nella società» (http://it.wikipedia.org/wiki/Carta_di_Treviso). ↩
- Cfr. P.L Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Bologna, Il Mulino, 1997 ↩
- Cfr. S .Turkle, Alone together. Why we expect more from technology and less from each other, New York, Basic Books, 2011 ↩
- Cfr. R. Silverstone, Televisione e vita quotidiana, Bologna, Il Mulino, 2000. ↩
- Cfr. Id., Perché studiare i media, Bologna, Il Mulino, 2002; inoltre, J.B. Thompson, Mezzi di comunicazione e modernità, Bologna, Il Mulino, 1998. ↩
- Come nell’esempio iniziale dello spot di Coca Cola, il racconto di un’Africa migliore e non stereotipata. ↩
- Lo stesso ragionamento vale per la responsabilità sociale delle imprese che, invece, può essere considerata niente più che una leva del marketing o un’azione filantropica sul territorio. ↩
- Cfr. F. Comunello, Networked sociability, Milano, Guerini Scientifica, 2010. ↩
- Alcuni dei più recenti contributi su questi temi: C. Bertolo, (a cura di), Comunicazioni sociali, Padova, Cluep, 2008; M. Binotto, Comunicazione sociale 2.0. Reti, nonprofit e partecipazione verso la terza comunicazione, Roma, Nuova Cultura, 2010; G. Gadotti, R. Bernocchi, La pubblicità sociale. Maneggiare con cura, Roma, Carocci, 2010; G. Peruzzi, Fondamenti di comunicazione sociale,Roma, Carocci, 2011; M. Binotto, N. Santomartino, Manuale dell’identità visiva per le organizzazioni nonprofit, Milano, Lupetti Editore, 2012; A. Volterrani, Saturare l’immaginario. Per una nuova comunicazione sociale, Roma, Exorma Edizioni, 2011. ↩
- La comunità di pratica mediale della comunicazione sociale è composta da professionisti dei media, comunicatori del terzo settore e della pubblica amministrazione, da comunicatori d’impresa e pubblicitari se intendono (come fanno abitualmente) occuparsi (e occupare) gli spazi della socialità e da tutti coloro che producono “in proprio” (i cosiddetti prosumer) materiali “sociali” per l’immaginario collettivo. ↩
- Per una definizione di sociale largo vedi A. Volterrani, «Il sociale largo» in Narrazioni mediali dopo l’undici settembre, a cura di G. Bechelloni e G. Pannocchia, Roma, Mediascape, 2002 ↩
- Il difficile riconoscimento dell’alterità è diffuso in tutti gli attori della comunità di pratiche mediali; anche in quelli che hanno nella loro identità uno specifico riferimento al tema come le organizzazioni di volontariato. In taluni casi, in nome della visibilità tout court, si immettono nel flusso comunicativo prodotti mediali che contengono esplicite immagini stereotipizzanti di bambini, migranti, diversabili. ↩
- M. Maffesoli, «Il mondo immaginale tra presentazione e rappresentazione» in Michel Maffesoli. Fenomenologie dell’immaginario (a cura di S. Leonzi), Roma, Armando Editore, 2009, p. 93. ↩
- Ad esempio all’interno di molte produzioni multimediali sono resi visibili caratteristiche e particolari assolutamente non rilevanti di categorie di persone (ad esempio i nomadi o le persone di colore) che contribuiscono a evidenziare e a far condividere uno slittamento (anche minimo) “negativo” dei significati possibili nell’immaginario collettivo. ↩
- R. Silverstone, Mediapolis, op. cit., p.84. ↩
- Esistono esperienze diffuse e consolidate di co-costruzione di testi mediali on line sia nelle community aperte sia negli spazi di e-learning sia nei giochi multiplayer. Per un approfondimento vedi A. Ceccherelli, Oltre la morte. Per una mediologia del videogioco, Napoli, Liguori, 2007 e A. Spinelli, Un’officina di uomini, Napoli, Liguori, 2009. ↩
- R. Sennet, Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Milano, Feltrinelli, 2012 ↩
- La cantera più conosciuta nel mainstream è quella del Barcellona calcio che ne ha fatto un vantaggio competitivo nell’ultimo decennio, facendo giocare tutte le generazioni (dai piccoli ai grandi della prima squadra) nello stesso modo. La differenza principale sta nel fatto che nella comunicazione sociale il risultato non dovrebbe essere lo stesso tipo di gioco, ma gli stessi metodi e le possibili alleanze cooperative costruibili. ↩
- Cfr. F. Comunello, Networked sociability, Milano, Guerini Scientifica, 2010 ↩
- Non è questa la sede, ma l’immersione nella vita on line o, viceversa, il disconoscimento completo della vita on line preclude opportunità e opzioni future a singoli individui e collettività. ↩
- Su questo tema delle diseguaglianze sociali collegate all’on line vedi S. Bentivegna, Diseguaglianze digitali. Le nuove forme di esclusione nella società dell’informazione, Bari, Laterza, 2009. ↩
- Nell’ambito del sociale largo molte persone si trovano in una di queste due condizioni. ↩
- Ad esempio nei casi di violenza fisica su uomini, donne, bambini siamo in presenza di una doppia marginalizzazione: fisica (nel momento dell’atto violento) e simbolica (nel momento comunicativo, pro o contro che sia). ↩
- Visibilità che è ricercata da molte organizzazioni convinte che il brand possa essere la soluzione a tutti i tipi di problemi di comunicazione. ↩
- Oltre al modello encoding/decoding di S. Hall, «Codifica e decodifica», in Televisioni (a cura di A.Marinelli), Roma, Meltemi, 2002, vedi anche le riflessioni di K.C. Schroder, Audience semiotics. Interpretative communities and the ethnographic turn in media research, in «Media Culture & society», n°16, 1994, pp. 337-347 e S. Livingstone, Lo spettatore intraprendente, Roma, Carocci, 2006. ↩
- E che, quindi, includano e non escludano persone e collettività. ↩
- Ad esempio con azioni di comunicazione tese a destrutturare (evidenziandone contraddizioni e carenze) il mainstream. ↩
- Attraverso, ad esempio, l’uso manipolatorio dell’immaginario del mercato mediale. ↩
- Cfr. S. Turkle, op. cit. ↩
- Citiamo solo due capisaldi: Philip K. Dick e Isaac Asimov. ↩
- Cfr. A. Appaduraj, Le aspirazioni nutrono la democrazia, Milano, Et. Al, 2011 ↩
- Tra le altre cose fa riferimento agli slum di Mumbai. ↩
- Per quanto riguarda l’Italia si pensi a Carosello. ↩
- Cfr. T. Gitlin, Sommersi dai media, Milano, Etas, 2003. ↩
- Su questi temi vedi: A. Abruzzese, L’intelligenza del mondo, fondamenti di storia e teoria dell’immaginario, Roma, Meltemi Editore, 2001; M. Castells,Comunicazione e potere, Milano, Università Bocconi Editore, 2009; P. Jedlowski, Il racconto come dimora, Torino, Bollati Boringhieri, 2009. ↩
- Per il concetto di frameworlds, vedi R. Silverstone, Mediapolis. La responsabilità dei media nella civiltà globale, Milano, Vita e Pensiero, 2009 ↩
- La Carta di Treviso è «un protocollo firmato il 5 ottobre 1990 da Ordine dei giornalisti, Federazione nazionale della stampa italiana e Telefono azzurro con l’intento di disciplinare i rapporti tra informazione e infanzia. La Carta, da una parte salvaguarda il diritto di cronaca, dall’altra pone l’accento sulla responsabilità che tutti i mezzi d’informazione hanno nella costruzione di una società che rispetti appieno l’immagine di bambini e adolescenti. Alla base c’è il principio di difendere l’identità, la personalità e i diritti dei minorenni vittime o colpevoli di reati, o comunque coinvolti in situazioni che potrebbero comprometterne l’armonioso sviluppo psichico. Stesse garanzie sono assicurate anche ai soggetti marginali nella società» (http://it.wikipedia.org/wiki/Carta_di_Treviso). ↩
- Cfr. P.L Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Bologna, Il Mulino, 1997 ↩
- Cfr. S .Turkle, Alone together. Why we expect more from technology and less from each other, New York, Basic Books, 2011 ↩
- Cfr. R. Silverstone, Televisione e vita quotidiana, Bologna, Il Mulino, 2000. ↩
- Cfr. Id., Perché studiare i media, Bologna, Il Mulino, 2002; inoltre, J.B. Thompson, Mezzi di comunicazione e modernità, Bologna, Il Mulino, 1998. ↩
- Come nell’esempio iniziale dello spot di Coca Cola, il racconto di un’Africa migliore e non stereotipata. ↩
- Lo stesso ragionamento vale per la responsabilità sociale delle imprese che, invece, può essere considerata niente più che una leva del marketing o un’azione filantropica sul territorio. ↩
- Cfr. F. Comunello, Networked sociability, Milano, Guerini Scientifica, 2010. ↩
- Alcuni dei più recenti contributi su questi temi: C. Bertolo, (a cura di), Comunicazioni sociali, Padova, Cluep, 2008; M. Binotto, Comunicazione sociale 2.0. Reti, nonprofit e partecipazione verso la terza comunicazione, Roma, Nuova Cultura, 2010; G. Gadotti, R. Bernocchi, La pubblicità sociale. Maneggiare con cura, Roma, Carocci, 2010; G. Peruzzi, Fondamenti di comunicazione sociale,Roma, Carocci, 2011; M. Binotto, N. Santomartino, Manuale dell’identità visiva per le organizzazioni nonprofit, Milano, Lupetti Editore, 2012; A. Volterrani, Saturare l’immaginario. Per una nuova comunicazione sociale, Roma, Exorma Edizioni, 2011. ↩
- La comunità di pratica mediale della comunicazione sociale è composta da professionisti dei media, comunicatori del terzo settore e della pubblica amministrazione, da comunicatori d’impresa e pubblicitari se intendono (come fanno abitualmente) occuparsi (e occupare) gli spazi della socialità e da tutti coloro che producono “in proprio” (i cosiddetti prosumer) materiali “sociali” per l’immaginario collettivo. ↩
- Per una definizione di sociale largo vedi A. Volterrani, «Il sociale largo» in Narrazioni mediali dopo l’undici settembre, a cura di G. Bechelloni e G. Pannocchia, Roma, Mediascape, 2002 ↩
- Il difficile riconoscimento dell’alterità è diffuso in tutti gli attori della comunità di pratiche mediali; anche in quelli che hanno nella loro identità uno specifico riferimento al tema come le organizzazioni di volontariato. In taluni casi, in nome della visibilità tout court, si immettono nel flusso comunicativo prodotti mediali che contengono esplicite immagini stereotipizzanti di bambini, migranti, diversabili. ↩
- M. Maffesoli, «Il mondo immaginale tra presentazione e rappresentazione» in Michel Maffesoli. Fenomenologie dell’immaginario (a cura di S. Leonzi), Roma, Armando Editore, 2009, p. 93. ↩
- Ad esempio all’interno di molte produzioni multimediali sono resi visibili caratteristiche e particolari assolutamente non rilevanti di categorie di persone (ad esempio i nomadi o le persone di colore) che contribuiscono a evidenziare e a far condividere uno slittamento (anche minimo) “negativo” dei significati possibili nell’immaginario collettivo. ↩
- R. Silverstone, Mediapolis, op. cit., p.84. ↩
- Esistono esperienze diffuse e consolidate di co-costruzione di testi mediali on line sia nelle community aperte sia negli spazi di e-learning sia nei giochi multiplayer. Per un approfondimento vedi A. Ceccherelli, Oltre la morte. Per una mediologia del videogioco, Napoli, Liguori, 2007 e A. Spinelli, Un’officina di uomini, Napoli, Liguori, 2009. ↩
- R. Sennet, Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Milano, Feltrinelli, 2012 ↩
- La cantera più conosciuta nel mainstream è quella del Barcellona calcio che ne ha fatto un vantaggio competitivo nell’ultimo decennio, facendo giocare tutte le generazioni (dai piccoli ai grandi della prima squadra) nello stesso modo. La differenza principale sta nel fatto che nella comunicazione sociale il risultato non dovrebbe essere lo stesso tipo di gioco, ma gli stessi metodi e le possibili alleanze cooperative costruibili. ↩
- Cfr. F. Comunello, Networked sociability, Milano, Guerini Scientifica, 2010 ↩
- Non è questa la sede, ma l’immersione nella vita on line o, viceversa, il disconoscimento completo della vita on line preclude opportunità e opzioni future a singoli individui e collettività. ↩
- Su questo tema delle diseguaglianze sociali collegate all’on line vedi S. Bentivegna, Diseguaglianze digitali. Le nuove forme di esclusione nella società dell’informazione, Bari, Laterza, 2009. ↩
- Nell’ambito del sociale largo molte persone si trovano in una di queste due condizioni. ↩
- Ad esempio nei casi di violenza fisica su uomini, donne, bambini siamo in presenza di una doppia marginalizzazione: fisica (nel momento dell’atto violento) e simbolica (nel momento comunicativo, pro o contro che sia). ↩
- Visibilità che è ricercata da molte organizzazioni convinte che il brand possa essere la soluzione a tutti i tipi di problemi di comunicazione. ↩
- Oltre al modello encoding/decoding di S. Hall, «Codifica e decodifica», in Televisioni (a cura di A.Marinelli), Roma, Meltemi, 2002, vedi anche le riflessioni di K.C. Schroder, Audience semiotics. Interpretative communities and the ethnographic turn in media research, in «Media Culture & society», n°16, 1994, pp. 337-347 e S. Livingstone, Lo spettatore intraprendente, Roma, Carocci, 2006. ↩
- E che, quindi, includano e non escludano persone e collettività. ↩
- Ad esempio con azioni di comunicazione tese a destrutturare (evidenziandone contraddizioni e carenze) il mainstream. ↩
- Attraverso, ad esempio, l’uso manipolatorio dell’immaginario del mercato mediale. ↩
- Cfr. S. Turkle, op. cit. ↩
- Citiamo solo due capisaldi: Philip K. Dick e Isaac Asimov. ↩
- Cfr. A. Appaduraj, Le aspirazioni nutrono la democrazia, Milano, Et. Al, 2011 ↩
- Tra le altre cose fa riferimento agli slum di Mumbai. ↩