Numero 13/14 - 2017

  • Numero 6 - 2012
  • Saggi

Le competenze educative in Medicina

di Angela Spinelli

Abstract

Nel presente lavoro si prendono in considerazione le competenze pedagogico-didattiche e metodologiche che sono utile corredo da un lato per l’insegnamento della medicina e dall’altro per la comunicazione formativa nei confronti del paziente. Al centro della riflessione, dunque, ci sono i curanti (medici, ma anche figure del sanitario) che svolgono un ruolo di insegnamento istituzionale e che svolgono una funzione di apprendimento nei confronti dei propri pazienti. La visione che sottostà a questa accezione di educazione e formazione è quella legata all’empowerment, cioè al “dare potere” all’altro nel senso di accompagnarlo verso un’autonomia consapevole e responsabile. Sono approfondite alcune delle questioni teoriche di maggior interesse e le conseguenti azioni che, sul piano educativo e metodologico, ne derivano.

Premessa: io non sono un medico…

… ma ormai da diversi anni frequento la Facoltà di Medicina e Chirurgia insegnando Pedagogia generale e Didattica in Corsi di Laurea di area sanitaria.

Ho vissuto da outsiderla mia esperienza professionale con una sola preoccupazione: cosa, della pedagogia e della didattica, è utile a coloro i quali, seppur con ruoli diversi, si rapportano contemporaneamente con giovani studenti ai quali devono insegnare una professionalità e con pazienti. A dire il vero, la mia, non era solo una preoccupazione disciplinare ed epistemologica, ma quasi giustificativa di un corpo estraneo all’interno di un “tempio” in cui si detiene un sapere quasi esoterico.

Ebbene, questa esperienza professionale, di insegnamento e ricerca, e personale, di ruolo e relazione, mi ha convinto che la pedagogia e la didattica (ed io con queste) pur essendo corpi “diversi” non siamo poi così estranei. Una via pedagogica della cura non solo è possibile, ma sarebbe anche una via praticabile per il perfezionamento della didattica nelle facoltà mediche e per il miglioramento della relazione curante-paziente.

Questa convinzione suscita reazioni piuttosto divergenti sia nei colleghi-docenti, sia negli studenti (che molto spesso sono già dei professionisti) al punto da farmi pensare che la pedagogia, e in senso più lato le scienze umane, toccano ancora e nonostante tutto questioni aperte e per certi versi scottanti. Da un lato emerge una necessità quasi imprescindibile dei saperi educativi, dall’altro si continua a considerarli accessori, con una superficialità che li fa percepire come saperi che con un po’ di impegno e buona volontà chiunque può praticare.

Questo lavoro, perciò, si muove su queste due questioni: come insegnare discipline di area medico-sanitaria e come utilizzare queste competenze anche nel proprio contesto professionale nella relazione con i pazienti. In fondo, entrambi gli aspetti hanno un core comune, solo diversamente declinato.

Introduzione: l’apprendimento al centro

Nel lavorare a rimettere insieme appunti, esperienze, ricerche empiriche, prima di tutto, ho cercato di individuare il cuore dell’argomentazione, così da offrire al lettore una riflessione coerente nonostante i molti aspetti che si affronteranno. Ho trovato nel termine “apprendimento” il centro delle mie direttici argomentative: lo studente che deve apprendere l’arte e la scienza della medicina; il paziente che deve apprendere la sua (a volte nuova) condizione fisica, psicologica e sociale.

Come possiamo organizzare questo lavoro di apprendimento?

Quali sono le condizioni essenziali, le variabili, le incertezze, gli orientamenti teorici e tecnici che possono guidarci?

L’apprendimento è prima di tutto un cambiamento cognitivo e comportamentale su cui incidono: l’ambiente fisico, quello sociale e la soggettività dell’individuo, questa è la definizione del termine che si utilizzerà per contestualizzarlo nel quadro della pedagogia medica e dell’educazione del paziente.

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Fig. 1

Da questo semplice schema, e tralasciando per ora una bibliografia sconfinata (di cui una parte a me cara), avvio il percorso argomentativo con una duplice centratura:

  1. le competenze pedagogiche necessarie all’insegnamento della medicina;
  2. le competenze pedagogiche necessarie nella relazione curante-paziente.

Sebbene la mia esperienza diretta riguardi le lauree di area sanitaria credo che anche il Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia abbia necessità di aggiungere alle proprie competenze e specificità un’attenzione pedagogica, almeno a giudicare dai confronti informali avuti con dei colleghi e da progetti internazionali e indagini.

Ad oggi, in Italia, l’attenzione sul tema è piuttosto elevata, anche se ancora circoscritta. Presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata la Facoltà di Medicina e Chirurgia è impegnata in un progetto TEMPUS intitolato Life – Long – Learning Framework for Medical University Teaching Staff centrate su una pedagogia medica per le facoltà di medicina[1].

Maggiormente discusso e dibattuto il tema della relazione curante-paziente, interpretata anche in chiave educativa, che comincia ad emergere con una certa frequenza addirittura nelle politiche sanitarie regionali, come nel caso del Tavolo dell’umanizzazione in Veneto che ponendo al centro la persona ri-orienta la politica regionale al soddisfacimento di criteri “umanistici” o per la Società della salute della regione Toscana che muove da un nuovo concetto che segna la differenza tra “sanità” e “salute”. La salute, infatti, intesa come benessere fisico, psichico e sociale, non si può ottenere che con una visione complessiva dei servizi rivolti al cittadino poiché si realizza anche attraverso canali non prettamente sanitari, ma anzi – e forse in maniera preponderante – dipende da fattori legati al contesto socio economico, ambientale e culturale in cui le persone vivono[2].

Una indagine condotta nel 2009 sul Futuro della professione medica[3] sottolinea, come prioritaria in un rinnovamento del modello formativo, la necessità di sviluppare maggiormente il profilo umano e le capacità della futura classe medica di gestire la relazione medico-paziente. Mentre, tra le aspettative prossime dell’utenza è dichiarata prioritaria la competenza relazionale (58,4%), seguita dall’esigenza di una competenza solida di tipo anamnestico, rispetto all’utilizzazione estesa di strumenti tecnologici.

A livello internazionale l’attenzione sulle competenze pedagogiche necessarie ai medici che intendono insegnare è consolidata e messa a punto con prassi e metodologie, nonché con indicatori specifici. In Europa la qualità formativa è intesa, anche, come conformità alla norma ISO 9001:2000, interpretazione che – seppure pedagogicamente restrittiva – è un passo avanti nel controllo funzionale e gestionale delle istituzioni formative[4]. Tale approccio è recepito anche in Italia da molti Corsi di laurea di area sanitaria “certificati”.

A confortare l’ipotesi secondo cui alcune competenze pedagogiche (e in senso lato umanistiche) siano indispensabili a chi svolge una professione legata alla cura anche gli obiettivi formativi qualificanti, che nell’ordinamento didattico del 2007, rilevano la necessità

delle basi scientifiche e della preparazione teorico-pratica necessarie ai sensi della direttiva 75/363/CEE all’esercizio della professione medica e della metodologia e cultura necessarie per la pratica della formazione permanente, nonché di un livello di autonomia professionale, decisionale e operativa derivante da un percorso formativo caratterizzato da un approccio olistico ai problemi di salute, delle persone sane o malate anche in relazione all’ambiente chimico-fisico, biologico e sociale che le circonda.

Questa prospettiva sottolinea come attività didattica, di ricerca e assistenziale siano i poli necessari per la professione e, ancor di più, per i medici che svolgono attività di insegnamento[5] anche se a livello normativo e, particolarmente, organizzativo le difficoltà di attuazione sono moltissime.

L’attenzione al ruolo educativo del medico è andata scemando dalla versione classica del Giuramento di Ippocrate che riporta esplicitamente i termini “maestro” e “insegnare”:

… e insegnerò quest’arte, se essi desiderano apprenderla; di rendere partecipi dei precetti e degli insegnamenti orali e di ogni altra dottrina i miei figli e i figli del mio maestro e gli allievi legati da un contratto e vincolati dal giuramento del medico, ma nessun altro.

A quella contemporanea, in cui rimane solo un accenno all’impegno scientifico, culturale e sociale che deve ispirare ogni atto professionale ma che pone maggiore attenzione alle caratteristiche del rapporto tra medico e paziente:

è fondato sulla fiducia e in ogni caso sul reciproco rispetto.

Eppure se non si modifica, almeno in parte, la didattica della medicina e, più in generale, la pedagogia medica non si riuscirà a trasformare la medicina stessa, ammesso che l’urgenza in tal senso, da molti denunciata e discussa, sia autenticamente sentita anche dai curanti. A tal proposito, infatti, permangono ancora molte resistenze che la Commissione internazionale che si occupa di Best Evidence Medical Education (BEME) ha individuato nei seguenti fattori[6]:

  1. inerzia che spinge a difendere il proprio operato;
  2. riconoscere come prioritari gli impegni clinici rispetto a quelli didattici;
  3. non ammettere che l’educazione è una scienza con i suoi principi;
  4. ignorare gli elementi fondamentali del processo educativo;
  5. scarso interesse e scarsa attenzione per le attività didattiche;
  6. lamentare mancanza di servizi e supporti per l’attività didattica.

Attualmente il BEME è il paradigma medico-pedagogico più diffuso a livello internazionale. Unisce la Evidence Based Medicine e la Evidence Based Education allo scopo di fondare la ricerca medica e pedagogica su evidenze sperimentali che ne garantiscano un livello accettabile di oggettività e, dunque, di replicabilità anche in setting diversi.

Il suo limite maggiore, però, è che presuppone una visione della medicina, dell’uomo e dell’educazione molto forte e di tipo meccanicistico/quantitativo e ne fa implicitamente dei presupposti “ideologici” che incorniciano tanto l’agire medico, quanto quello pedagogico[7].

Il maggior valore, invece, risiede nella mole di sperimentazione e studi prodotti a livello internazionale e, specialmente, nella affermazione ferma della necessità di introdurre saperi umanistici (Humanities) nel repertorio professionale del medico e, particolarmente, del medico che insegna.

In ogni caso risultano condivisibili le prerogative individuate per il funzionamento di un buon sistema di formazione medica che sono sintetizzabili nei seguenti aspetti[8]:

  1. struttura per problemi;
  2. centralità della formazione clinica;
  3. approfondimento abituale dei problemi emergenti, con riferimento e riscontro nella letteratura scientifica (allo scopo di cercare prove di evidenza);
  4. valutazione abituale delle prove di evidenza (accessibilità, affidabilità, rilevanza, pertinenza);
  5. analisi della trasferibilità dell’evidenza nel caso clinico concreto;
  6. auto-valutazione in termini di auto-apprendimento del lavoro svolto.

Come punto di partenza sono aspetti che, anche in Italia, potrebbero costituire un buon volano per il rinnovamento dell’insegnamento della medicina. Nonostante ciò, e assumendoli come validi, si può andare ancora più in là.

Le competenze pedagogiche per l’insegnamento della medicina

La medicina e le scienze sanitarie hanno una specificità epistemologica che le posiziona a cavallo tra le scienze umane e le scienze dure, pur non appartenendo interamente a nessuna delle due.

Sono scienze umane perché il loro oggetto di studio è un soggetto, l’essere umano, che non può mai essere ridotto ad oggetto e perché non esercitano in un contesto neutrale, ma in un mondo di valori[9], interpretazioni, percezioni legati (come nello schema iniziale) all’ambiente esterno e quindi alla cultura, alla percezione di sé e al contesto sociale.

La medicina non è interamente assimilabile, come metodo e come prassi, alle scienze fisiche perché «la trasformazione della medicina in una scienza “esatta” comporta necessariamente la sottovalutazione delle componenti soggettive e di relazione»[10], cioè di quelle componenti che proprio all’interno delle scienze umane sono considerate centrali.

Anche per questo un approccio pedagogico basato solo sulle evidenze empiriche, come quello praticato nella BEME, non è utile fino in fondo alla presente riflessione perché, da un punto di vista metodologico, si colloca all’interno di un approccio esclusivamente quantitativo più simile alla valutazione biomedica che non alla pratica clinica. E invece proprio a quella, noi, vogliamo guardare per il fondamento metodologico degli insegnamenti medici. Infatti «la clinica è indissolubilmente legata alla considerazione della soggettività, della persona e delle sue “richieste” […]. La clinica valorizza un approccio qualitativo che corregge i difetti e le rozzezze dell’approccio meramente quantitativo»[11].

L’arte nella medicina e nella didattica

Posta in un incrocio che ne fa un ibrido di scienza e arte, la natura della didattica appare, sin dalle origini, immersa in una situazione difficile: obbedire al telos interno della disciplina, secondo cui è fondamentale trattare il proprio oggetto di studio interamente come oggetto, al fine di garantirne la scientificità e, tuttavia, rendersi conto che quello che si ha di fronte non è corpo tra corpi, non è materia vivente tra le altre, ma “metafora viva”, che, nel contesto di un particolare vissuto esistenziale, si ri-vela come uomo in apprendimento. Due anime quindi si contrappongono e, tuttavia, pure si uniscono in un legame indissolubile: l’anima del ricercatore che mira alla chiarezza e distinzione dei dati e l’anima dell’uomo che ha la consapevolezza di essere egli stesso oggetto di ricerca e, allo stesso tempo, soggetto interpretante.

[…]

Da qui la crisi che, nel senso appena delineato, non può essere affrontata e risolta come se si trattasse di una mera impasse tecnica[12].

Il soggetto in apprendimento è, contemporaneamente, soggetto e oggetto dell’attività e della ricerca didattica, specificità che ha reso questa disciplina una scienza con caratteristiche prossime all’arte, intesa come sinonimo di tecnica. Da ciò la didattica ha tratto una debolezza epistemologica perché, a cavallo tra il fare (attività di insegnamento) e il conoscere (attività di ricerca) ha oscillato da un paradigma centrato esclusivamente sulla misurazione quantitativa dell’apprendimento ad uno centrato esclusivamente sulla considerazione non empirica di una crescita individuale non interamente valutabile.

Destino epistemologico, questo, comune a quello della medicina, composta anch’essa da tratti fortemente empirici e da altri connotati da una scientificità “dura”.

Al centro, l’uomo che guarda l’uomo e che può scegliere tra una lente esclusivamente biomedica ed una, invece, più sfumata e allo stesso tempo più dettagliata, fatta anche di arte e di dati qualitativi.

Ed infatti la precedente citazione è stata intenzionalmente modificata sostituendo al termine “medicina” quello di “didattica” (è della natura della medicina che trattava) e al termine “uomo ferito” quello di uomo in apprendimento.

Il senso permane.

La riflessione proposta nella lunga citazione, perciò, nella sua profondità umana ed epistemologica, coglie il senso della contraddizione delle scienze che per oggetto di studio hanno l’uomo, che ne è allo stesso tempo anche soggetto studiante. Sostituendo alla cornice disciplinare “medicina” quella della “didattica” il senso persiste.

Anche la didattica, e con essa le relazioni formative, infatti, vive una contraddizione che – nei secoli – l’ha posta in una difficile situazione epistemologica: Comenio ne sancisce la nascita nel 1657 definendola nella Didattica magna, non a caso, un’arte (una tecnica, e non una scienza), ma un’arte nel senso classico del termine e, cioè, un sapere pratico guidato da ragione. Posta in questa situazione la didattica si è chiusa spesso in un approccio esclusivamente sperimentale che lasciva le speculazioni teoriche alla pedagogia e alla filosofia, riducendosi ad evento strumentale e perdendo così di vista la sua vocazione progettuale.

Credo che questo stia accadendo anche in molti campi legati alla “cura” (e non solo alla medicina) e, allo stesso tempo, credo che una dimensione che non escluda valori, credenze, empatia, relazionalità, progettualità possa trovare una soluzione di equilibrio fra le due istanze che appaiono entrambe necessarie.

Un approccio didattico e formativo nel contesto medico e in quello socio-sanitario è un tassello che aiuta a vivere la contraddizione in modo costruttivo, trasformandola in un luogo che, se presidiato, può essere fonte di cambiamento e, dunque, secondo la lettura che se ne dà nell’introduzione di apprendimento.

Per ciò che riguarda, invece, l’epistemologia medica, il testo originale conclude come segue:

Se, invece, ci si rende conto che la crisi non è della, ma nella medicina e che, quindi, non si può pensare di aggiungere il modello biopsicosociale al tradizionale modello biomeccanico, il discorso cambia completamente segno. In altri termini, solo prendendo consapevolezza del fatto che il metodo oggettivo non rappresenta la realtà, ma solo un modo di conoscerla, si può fondare una scienza alternativa del vivente, una nuova biologia che non rinnega la peculiarità dell’oggetto/soggetto. Anche la medicina, come la fisica, si trova nella difficile situazione caratterizzata dal principio di indeterminazione secondo cui non è possibile separare soggetto e oggetto, non è possibile identificare con precisione gli oggetti microfisici, non è possibile ripetere gli esperimenti e non è possibile continuare a credere che non esistono limiti di principio alla possibilità di sperimentazione oggettiva[13].

Pedagogia e didattica nell’insegnamento delle discipline mediche

Formalmente la didattica si occupa dei metodi, dei mezzi e delle strategie da utilizzare per il raggiungimento degli obiettivi educativi; la pedagogia riguarda gli scopi ultimi dell’educazione e dunque riflette sui valori che l’azione educativa include e persegue. Nell’insieme, entrambe le discipline sono fondamentali alla progettazione e allo svolgimento del progetto educativo che, visto in questa duplice accezione teorico-pratica, si compone di aspetti progettuali, attuativi e valutativi in una complessità di dimensioni intrecciate fra di loro e che includono aspetti antropologici, epistemologici ed etici.

Il primo passaggio per una progettazione pedagogica dell’insegnamento della medicina non può prescindere dal chiedersi chi è l’allievo (aspetto antropologico), quali sono le esigenze formative individuali che vanno armonizzate con quelle proprie della professione e del core curriculum. Porsi questa domanda significa interrogarsi su come l’allievo apprende in riferimento alle diverse discipline, quali strumenti e metodi possono essere più o meno efficaci, quali sono le sue motivazioni e i pre-concetti che lo caratterizzano sia come coorte di allievi di un certo corso di laurea, sia come individuo. Oggi, per esempio, la simulazione virtuale ai fini dell’apprendimento è oggetto di grandi aspettative, ma bisogna interrogarsi in quali discipline ciò può essere davvero utile e in quali controproducente. Rachel Prentice, che si occupa dell’uso di strumenti tecnologici in medicina, riporta le considerazioni di un giovane medico in apprendimento che pongono seri dubbi:

quando si disseziona un cadavere si sente che è vero. Con il computer invece la pelle non servirà più da confine. Basterà solo cliccare sul mouse e scomparirà. Esiste invece una tensione fisica quando si apre un corpo [vero] [qui l’intervistato simula a gesti l’apertura della cassa toracica]. Una tensione che viene a mancare con la realtà virtuale[14].

In questo caso l’intervistato si interroga su un aspetto palese: la corrispondenza esperienziale tra la dissezione di un corpo reale e uno virtuale, ma pone anche interrogativi meno espliciti ma altrettanto importanti. Infatti, il timore meno evidente è che una eccessiva standardizzazione del corpo umano attraverso la riproduzione virtuale possa dare ai clinici l’impressione che vi sia un solo corpo giusto[15].

Insomma una questione pedagogica (“come insegno” la dissezione ai medici in formazione) influisce sulla percezione che quei medici avranno del corpo umano di cui si devono occupare, della sua rappresentazione, della sua corrispondenza (o meno) con la materia o con un modello, di tipo meccanicistico.

Questo tipo di attività didattica (la simulazione in virtuale) dunque non pone alcun problema all’interno di una visione riduzionista della medicina, viceversa in una visione più complessa va introdotta con attenzione. Questo esempio è estremamente utile ad evidenziare che ad un modello epistemologico particolare equivale un tipo di insegnamento altrettanto specifico e ciò basta, di per sé, a giustificare l’attenzione alle componenti pedagogiche.

Gli aspetti epistemologici riguardano, essenzialmente, una riflessione sulla cultura scientifica della medicina contemporanea; l’esplicitazione dei modelli di ricerca e dei loro presupposti metodologici e, infine, le capacità di aggiornamento costante. L’epistemologia della medicina, cioè gli aspetti pratici ma anche filosofici ed ontologici del suo metodo scientifico, sono la base di partenza per scegliere se i presupposti che la pratica medica implicitamente attua sono condivisibili o meno; per comprendere se i metodi (inferenziale, abduttivo, ipotetico-deduttivo) utilizzati sono corretti e in quali casi; se la generalizzazione dei casi clinici è sempre opportuna; come conciliare l’approccio biomedico a quello clinico[16].

Tutti gli aspetti sopraindicati riguardano tanto i medici in formazione, quanto i medici impegnati in attività di formazione continua (long life learning) che implicano anche della attività/capacità di ricerca oltre che una predisposizione all’apprendimento.

Infine, sono da tenere in considerazione gli aspetti etici che riguardano i valori di riferimento del soggetto in apprendimento in relazione alla deontologia professionale; i criteri da adottare durante i processi decisionali che riguardano l’etica e la deontologia; le responsabilità sotto il profilo sia umano sia giuridico.

Progettazione e conduzione: le teaching skills di base

Nelle nostre università, così come negli altri ordini e gradi della scuola, la lezione è, ancora, l’attività didattica maggiormente diffusa. Ciò per tanti motivi legati a fattori diversi. In prima battuta molto spesso lo spazio e il tempo pensati per lo svolgimento dei corsi vincolano le attività che i docenti svolgono: le aule sono pensate per una lezione frontale spesso statica (banchi e sedie sono saldamente incollate al pavimento); la cattedra ha ancora un posto (e un ruolo) centrale, innalzata su una pedana a determinare l’occupazione dello spazio del docente e, implicitamente, il suo ruolo preordinato nello svolgimento dell’attività. Le lezioni, pensate “architettonicamente” come frontali, sono organizzate con una gestione del tempo lineare che non consente alcuna interdisciplinarità, anche là dove se ne ravvedesse la necessità.

Inoltre la maggior parte dei docenti hanno appreso a svolgere la propria attività didattica sulla base di un modello implicito legato alla propria esperienza di discenti: di fatto il più delle volte ripropongono i modelli che hanno sperimentato in aula da studenti senza una valutazione consapevole degli aspetti positivi e/o negativi che la reiterazione di tale modello comporta.

Dati questi vincoli e l’oggettiva diffusione della lezione come momento di attività formativa, nonché gli aspetti positivi che nonostante tutto la caratterizzano è gioco forza che parte delle skills pedagogiche si riferiscano proprio ad essa. C’è inoltre da rilevare che la lezione può essere condotta con modelli didattici piuttosto differenti[17], caratteristica che, se sfruttata, la può rendere piuttosto versatile.

Alla lezione, si aggiungono le attività pratiche che richiedono un impianto pedagogico di diversa natura.

Di seguito, ad introduzione della successiva analisi, si propone una sinossi delle skills proposte.

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Fig. 2

La prima necessità operativa di un intervento formativo è la sua progettazione, attività che riguarda la gestione del tempo, dello spazio, degli obiettivi didattici, la capacità di adattare specifiche attività in coerenza con la varietà degli obiettivi formativi. Complessivamente possono essere definite planning competences, e riguardano sia la macro-progettazione sia la micro-progettazione. Per esemplificare: la macro-progettazione riguarda, in Italia, l’adeguamento del Corso di Laurea alla Classe delle Lauree e dunque, pur con una certa flessibilità, è vincolata da aspetti normativi ed organizzativi sostanzialmente inderogabili. Pur tuttavia, in genere, la Classe delle lauree comprende un insieme di settori scientifico disciplinari (SSD) più ampio di quelli richiesti dal totale dei crediti del Corso di laurea e dunque è possibile operare una scelta sulla base di un progetto formativo che, pur nel rispetto del core curriculum, offra delle sue specificità.

La micro-progettazione, invece, ha margini di libertà decisamente più marcati perché la libertà di insegnamento è sancita dall’art. 33 della Costituzione[18] e dunque, in linea di principio, ciascun docente è libero di scegliere il metodo di insegnamento che preferisce, in relazione anche alla sua attività di ricerca.

La micro progettazione riguarda i corsi disciplinari e l’organizzazione dei singoli incontri d’aula e comincia con la definizione degli obiettivi formativi coerenti con il SSD e con il profilo professionale. A titolo di esempio è bene sottolineare che un obiettivo formativo, per essere comprensibile anche agli studenti e successivamente valutabile deve avere, almeno, le seguenti caratteristiche:

  1. meno generico possibile,
  2. aderente al vero,
  3. osservabile,
  4. declinato con verbi[19].

Questi elementi, oltre ad aiutare la progettazione e la comprensione anche da parte degli studenti rendono il percorso effettivamente valutabile. Infatti, se un obiettivo è troppo astratto, di fatto, diventa anche difficile da monitorare e valutare. Un esempio assai calzante è il tema “salute”: per la misurazione dello stato di salute bisogna necessariamente scendere ad un più basso grado di generalità e definire dei parametri che la rendano valutabile ed osservabile; egualmente in termini di apprendimento non basta darsi l’obiettivo di lavorare su conoscenze disciplinari o competenze professionali ma è opportuno declinarle in termini pratici (es.: elencare, distinguere, applicare, scrivere etc.).

La lezione

Le competenze per l’organizzazione della lezione sono, sostanzialmente, di gestione e vanno ad aggiungersi e corredare le conoscenze disciplinari. Schematizzando:

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Fig. 3

Lo svolgimento della lezione necessita di competenze gestionali che variano al variare della metodologia didattica che si è scelto di adottare. La mimica, la gestione della voce e l’ancoraggio spaziale a specifiche attività[20] sono elementi trasversali a tutte le attività d’aula e a tutte le metodologie che, a loro volta, richiedono di volta in volta skills specifiche. È questo il caso della didattica collaborativa (organizzazione del lavoro in gruppi di studenti per obiettivi didattici più complessi della memorizzazione quali, per esempio, decision making e problem solving) della gestione dei gruppi in apprendimento (organizzazione dei ruoli degli studenti; costruzione di interdipendenza positiva; analisi e risoluzione dei conflitti; capacità di negoziazione[21]) e ancora della simulazione e dei role playning (didattica attiva e partecipativa per sollecitare la trasformazione delle conoscenze in competenze e per creare situazioni verosimili collegate a quelle professionali) o della tecnica del caso studio (decision making e problem solving individuale).

Alla gestione dell’aula e del percorso di apprendimento si affianca la necessità di tenere sotto controllo gli elementi relazionali e comunicativi. In questo caso le competenze da considerare in un contesto formativo non sono di natura psicologica, ma più orientate alla consapevolezza della comunicazione uno a uno, uno a molti e molti a molti come di un momento fatto di contenuto e relazione in cui si esercita potere. Non si pone, pertanto, attenzione agli aspetti psicologici “rimossi” quanto piuttosto a quelle condizioni che possono essere necessarie per il raggiungimento dei diversi obiettivi specifici (per es.: tipologie di leadership, chiarezza e definizione dei ruoli, etc.). La comunicazione d’aula spesso è vissuta dai docenti come organizzata in un movimento che dal docente va verso i discenti (uno a molti) senza tenere in considerazione, né sollecitare, una grandissima risorsa che è quella della comunicazione molti a molti e dunque fra studenti che, invece, favorisce un approccio riflessivo e sollecita aspetti apprenditivi più sottili e complessi rispetto a quelli esclusivamente disciplinari. La relazione, insomma, vive in un setting fisico, ma anche in uno psicologico che va affrontato “muovendo” idealmente le relazioni che si instaurano all’interno o che possono essere sollecitate con una accurata micro-progettazione.

Infine, le competenze comunicative sono riferibili alla comunicazione verbale e paraverbale (esposizione orale: tempi, modi, organizzazione logica, chiarezza, etc.), a quella scritta (necessarie per la trasferibilità delle esperienze) e alle tecniche e tecnologie di e per la comunicazione didattica (es. uso dei ppt, degli audiovisivi, delle lavagne, delle simulazioni videoregistrate, fino all’e-learning e alla teleconferenza o ai gruppi di studio online).

Pianificati gli obiettivi e gestito il percorso, la valutazione diventa un banco di prova essenziale tanto per gli studenti quanto, in linea teorica, per i docenti e per il corso stesso: assodato che svolgere una valutazione ex-ante (in ingresso) degli studenti è piuttosto complicato da un punto di vista pratico, rimangono a disposizione momenti di valutazione in itinere e finale che hanno due scopi estremamente diversi. La valutazione in itinere, infatti, ha una valenza pienamente formativa (volta a valutare e migliorare la prestazione e gli apprendimenti) mentre la valutazione sommativa, che si svolge alla fine del corso, fornisce informazioni sullo studente ma anche, indirettamente, sul docente.

Attività pratiche: laboratori e tirocini

Alle lezioni disciplinari si affiancano già attività che sono legate ad altri modelli didattici più attivi e partecipativi. In particolare tutte le lauree di area medico-sanitaria hanno una quota di formazione da svolgere come tirocinio e, in alcuni casi, sono presenti attività didattiche integrative, come laboratori o altre attività meno legate alla lezione frontale perché orientate al raggiungimento di competenze e non di conoscenze.

Che ciò sia istituito dagli ordinamenti didattici molto ci dice sull’importanza di tali attività, sulla loro imprescindibilità formativa.

Ma come gestirle? Quali competenze potrebbero renderle ancora più significative? Anche in questo caso sono coinvolte diverse aree di interesse che vanno dalle competenze gestionali a quelle valutative (come nel caso della lezione ma con un diverso segno legato al mutamento degli obiettivi formativi) fino alla esplicitazione delle competenze legate all’attività di ricerca e alla logica della scoperta che ricadono sotto l’ampio insieme delle competenze meta-cognitive.

Fig. 4

Fig. 4

Da un punto di vista pedagogico le attività formative che consentono allo studente di fare, più che di ascoltare, sono una grande opportunità perché gli consentono una messa in situazione, una forma di apprendimento esperienziale in condizioni di sicurezza in cui può sperimentare il suo modo di essere professionista e in cui riflettere su ciò che fa e su come lo fa e non solo su quello che sa.

La gestione di queste attività, pertanto, necessita della preparazione di un setting sicuro in cui il docente svolge attività di tutoring e scaffolding. Nel primo caso è un assistente all’apprendimento che affianca il procedere per prove ed errori (a differenza di procedure induttive, deduttive o abduttive come nel caso della lezione frontale) e che stimola sessioni di apprendimento fra pari sfruttando costrutti psico-pedagogico quali la Zona di Sviluppo Prossimale (ZSP)[22] o la Zona di comfort[23].

Nel secondo caso è un “regista” che crea le impalcature (le condizioni ed il sostegno) per mettere gli studenti sia in condizioni di apprendere sia in condizione di riflettere sui propri apprendimento in termini di coerenza con gli obiettivi e di significatività[24].

L’organizzazione e la gestione di questi percorsi e sessioni di apprendimento non teorico sono legate a due fattori fondamentali: il primo riguarda la capacità del docente di aiutare lo studente a meta-riflettere sull’esperienza pratica (e professionale, anche se simulata) così da aiutarlo ad evidenziare i pre-supposti che stanno dietro ad affermazioni, scoperte, scelte, decisioni, ma anche a rilevare le caratteristiche epistemologiche della medicina stessa (quale visone dell’uomo, quale metodologia della ricerca). Attività di questa natura, che fanno delle situazioni di apprendimento delle vere e proprie simulazioni delle attività di ricerca della comunità scientifica, si sono rivelate utili in moltissimi contesti e con fasce di età estremamente diversificate con possibile svolgimento sia in attività in presenza sia a distanza tramite piattaforme online dedicate[25]. Inoltre, piccole sperimentazioni riportate nella letteratura internazionale sono a dimostrare la necessità di praticare l’apprendimento anche per questa via che rende più completa la preparazione di base del medico.

L’attività valutativa specifica per questo tipo di metodologie, pur necessaria, è piuttosto diversa da quella utilizzabile in altri contesti. In particolare l’approccio quantitativo volto a misurare la quantità di apprendimento non è funzionale; piuttosto si mira a valutare segnali di varia natura (segnali comunicativi forti e deboli, abilità comunicative e di lavorare in team, capacità relazionali, procedure pratiche e tecniche) con metodologie qualitative che vanno dall’osservazione (check list) all’intervista alla valutazione tra pari.

Come scegliere la metodologia? Quali variabili?

Le possibilità di scegliere fra un approccio metodologico ed un altro, tra una strategia didattica e valutativa ed una alternativa sono diverse, è dunque lecito chiedersi quali variabili tenere in considerazione nel momento in cui si comincia a progettare un corso.

Sono almeno due le condizioni che vanno tenute in considerazione: il tipo di obiettivo formativo da raggiungere e la competenza che gli studenti posseggono nello specifico ambito.

In linea di massima si può affermare che tanto meno il discente padroneggia il dominio oggetto di studio tanto più avrà bisogno di una guida di tipo istruttivo; tanto più il discente è esperto tanto meno avrà bisogno di una guida istruttiva, da sostituirsi con un approccio attivo in cui la metodologia didattica opera e vincola maggiormente l’ambiente di apprendimento e in tono minore il soggetto che apprende, come negli ambienti didattici di tipo costruttivista.

A questo dato, legato alla valutazione in ingresso, si deve aggiungere anche la valutazione dell’obiettivo di apprendimento: tanto più questo è semplice e di natura tecnico contenutistica, tanto più adatti saranno metodi trasmissivi, ma se – invece – l’obiettivo è estremamente complesso e non vincolato a contenuti specifici (come nel caso delle competenze relazionali, per esempio) allora le metodologie da seguire saranno più sofisticate e legate al fare, più che all’ascoltare.

Ciò è schematizzabile come segue[26]:

Fig. 5

Fig. 5

Una attività semplice (anche solo relativamente semplice) e la presenza di discenti inesperti possono richiedere, specialmente se si mira alla trasmissione di protocolli, la necessità di essere molto presenti e molto “istruttivi”. Viceversa, compiti più complessi e impegnativi e discenti più preparati vanno gestiti in modo più autonomo e in funzione del gruppo affinché gli apprendimenti siano molto più consapevoli e sofisticati, duraturi nel tempo e rispettosi delle scelte (consapevoli) dello studente e della sua professionalità futura.

Le competenze pedagogiche necessarie nella relazione curante-paziente

L’idea che esista un’accezione formativa della comunicazione ha guidato implicitamente la riflessione precedente, né è totalmente nuova alla letteratura scientifica[27]. Non c’è possibilità di relazione formativa al di fuori di una interazione comunicativa, questo il nesso che lega la necessità di competenze pedagogiche (anche se di natura differente dalle precedenti) anche nelle relazioni tra curanti e pazienti, assunti – questi ultimi – come soggetti che hanno il diritto ed il dovere di apprendere competenze di gestione della propria condizione di malattia.

Questa declinazione del termine si ritrova dunque nella relazione comunicativa in cui interagiscono i pazienti e i curanti: «fondamentale nella comunicazione della salute è anzitutto la relazione interpersonale»[28]; non esiste alcun messaggio che passi dall’emittente al ricevente in una versione oggettiva, solo con riguardo al contenuto, e fermarsi solo a questo livello è, dunque, sostanzialmente inutile tanto ai fini della comprensione intellettuale e cognitiva quanto ai fini della compliance curante-paziente. Il contenuto è importante ma non sufficiente, è solo la base di partenza per trasformare la comunicazione da trasmissione di contenuti in relazione utile alla riuscita del percorso terapeutico. Ciò appare evidente se si considera che la comunicazione si costruisce nell’interazione, così come le identità individuali si costruiscono solo in relazione all’alterità.

La comunicazione come relazione, perciò, si sofferma sulla reciproca comprensione dei messaggi “profondi”: il non detto, il vissuto personale, le reciproche percezioni; e sulla motivazione di chi, per condizione e non per ruolo, è in posizione di inferiorità, di bisogno e/o di cura.

Solo se l’interazione si trasforma in terreno di co-costruzione (costruire insieme) di significati, senso e prospettive la comunicazione si trasforma in relazione positiva. Un terreno importante verso questo passo è la comprensione delle altrui motivazioni perché è in questo spazio che risiedono le potenziali disponibilità al cambiamento. Non si tratta di esser “buoni” o “comprensivi” nel senso più deteriore del termine, piuttosto di capire la storia e l’universo dell’altro per condividere un progetto che sia di crescita, di empowerment. Allo scopo risulta piuttosto inutile la chiarezza della comunicazione scientifica, logica e razionale o del modello paternalistico che, al contrario, possono produrre delle barriere.

Di seguito, a titolo di esempio, si riportano alcuni dei comportamenti comunicativi sconsigliati:

  1. ingiungere, predicare (“Bisogna che … Dovete … Dovreste”);
  2. minacciare, ammonire, profetizzare eventi negativi (“Altrimenti succede che …”);
  3. fare appello alla ragionevolezza (“Dovreste capire che … Sappiate che …”);
  4. sostituirsi (Provate a fare … Perché non fate … ”);
  5. esprimere esplicitamente o implicitamente giudizi (Non è bene … Bisogna pensare anche agli altri … Questo comportamento è inaccettabile …”);
  6. interpretare (Voi siete … Voi fate così perché … Dite così, ma in realtà non è quello che pensate davvero …”);
  7. investigare (“Siete proprio sicuri che … Ma non avevate detto invece che …”);
  8. argomentare (“Ciò che dite non ha basi scientifiche … Recenti ricerche dimostrano che …”);
  9. minimizzare (“Insomma, che ci vuole a … Non esageriamo: non è mica un dramma …”)[29].

Ciò che lega queste diverse modalità di comunicazione è l’idea implicita che il paziente si affida al curante come un bambino può affidarsi ad un adulto: con una delega di decisone e responsabilità riguardo alle scelte, alle preferenze ai progetti di vita futura. Ma i pazienti non sono bambini (e anche quando, purtroppo, lo sono il loro mondo è comunque mediato dalla presenza degli adulti di riferimento).

L’educazione terapeutica[30] ha, fra i suoi scopi, quello di modificare questa percezione della relazione medico-paziente per intervenire ad un livello più profondo ed incisivo che cambi gli stili di vita dei pazienti stessi e, dunque, ad un livello formativo in quanto legato al raggiungimento di apprendimenti (cambiamenti comportamentali stabili nel tempo). Non a caso, nell’educazione terapeutica e in ogni intervento educativo rivolto ad adulti, il primo passo da fare è un patto di formazione[31] (o anche un contratto formativo) che aiuti gli interlocutori a costruire quel terreno comune che, solo, può trasformare la comunicazione in relazione positiva.

Il patto formativo è uno strumento che nasce in seno all’andragogia[32], branca delle scienze dell’educazione che si occupa specificatamente dell’educazione degli adulti e che ha come scopo ultimo la progressiva acquisizione di autonomia da parte degli individui, sia per svolgere i ruoli propri delle diverse fasi della vita (bisogno di imparare), sia per imparare ad imparare (self directed learning).

Il patto formativo è uno strumento che racchiude il senso del rapporto formativo fra adulti e tiene fortemente in conto le condizioni affinché un adulto impari, cioè i principi di base dell’andragogia, sintetizzabili come segue:

  1. Il bisogno di conoscere.

Gli adulti sentono l’esigenza di sapere perché occorra apprendere qualcosa e a cosa possa servire, di conseguenza «uno dei nuovi aforismi della formazione degli adulti è che il compito del facilitatore di apprendimento è di aiutare i discenti a prendere coscienza del “bisogno di conoscere”.

Inoltre tale consapevolezza può essere accresciuta dalle esperienze reali o simulate in cui i discenti scoprono da soli il divario tra il punto in cui sono attualmente e quello dove vogliono arrivare»[33].

  1. Il concetto di sé.

Nel bambino è basato sulla dipendenza da altri, mentre nell’adulto è vissuto come dimensione essenzialmente autonoma come «profondo bisogno psicologico di essere percepito come indipendente ed autonomo dagli altri»[34]. Di conseguenza se l’adulto si trova in una situazione in cui non gli è permesso autogovernarsi, sperimenta una tensione tra quella situazione e il proprio concetto di sé: la sua reazione tende a divenire di resistenza.

  1. Il ruolo dell’esperienza precedente.

Ha un ruolo essenziale sia come attività di apprendimento sia come elemento pregresso, talvolta negativo, che costituisce una barriera composta di pregiudizi e abiti mentali che operano resistenza ai nuovi apprendimenti (cambiamenti). Al contrario, l’esperienza precedente dell’adulto, se nota al formatore, costituisce una base sempre più ampia a cui collegare i nuovi apprendimenti. In altre parole il nuovo apprendimento deve integrarsi in qualche modo con l’esperienza precedente. «Qualsiasi gruppo di adulti sarà più eterogeneo – in termini di background, stile di apprendimento, motivazione, bisogni, interessi e obiettivi – di quanto non accada in un gruppo di giovani. Ciò significa che in molti casi le risorse di apprendimento più ricche risiedono nei discenti stessi. Di qui la maggiore enfasi posta nella formazione degli adulti sulle tecniche esperienziali – tecniche che si rivolgono all’esperienza dei discenti, come discussioni di gruppo, esercizi di simulazione, attività di problem solving, metodo dei casi e metodi di laboratorio – rispetto alle tecniche trasmissive. Di qui, anche la maggiore enfasi sulle attività di aiuto tra pari»[35].

  1. La disponibilità ad apprendere.

L’adulto ha una disponibilità ad imparare mirata e quindi in un certo senso più limitata perché è rivolta solo a ciò di cui sente il bisogno per i crescenti compiti che deve svolgere per realizzare il proprio ruolo sociale, come ad esempio il ruolo professionale lavorativo. Gli adulti sono disponibili ad apprendere ciò che hanno bisogno di sapere e di saper fare per corrispondere efficacemente alle situazioni della loro vita reale.

  1. L’orientamento verso l’apprendimento centrato sulla vita.

«Gli adulti sono motivati ad investire energia in misura in cui ritengono che questo potrà aiutarli ad assolvere dei compiti o ad affrontare i problemi che incontrano nelle situazioni della loro vita reale»[36]. Infatti, essi apprendono nuove conoscenze, capacità di comprensione, abilità, valori, atteggiamenti molto più efficacemente quando sono presentati nel contesto della loro applicazione alle situazioni reali. In altri termini la prospettiva è quella di una immediata applicazione di quanto appreso. Gli adulti sono motivati ad investire energia nella misura in cui ritengono che questo potrà aiutarli ad assolvere dei compiti o ad affrontare problemi con cui devono confrontarsi concretamente.

  1. Motivazione.

Le più potenti sono le pressioni interne: il desiderio di una maggiore soddisfazione nel lavoro, l’auto-stima, la qualità della vita, il perseguimento di un progetto o il mantenimento di una condizione percepita come positiva. «Benché gli adulti rispondano ad alcuni moventi esterni (lavoro migliore, promozioni, retribuzione più alta), le motivazioni più potenti sono le pressioni interne»[37].

Il patto formativo aiuta a far incontrare e negoziare le esigenze degli attori che partecipano al percorso di formazione (declinato come formazione alla cura di sé e al cambiamento terapeutico) rendendo il ricevente/discente attivo e partecipe delle scelte, responsabile del percorso perché co-costruito e partecipato, co-responsabile delle scelte e del raggiungimento (o meno) degli obiettivi. D’altra parte, il professionista/formatore, ha a disposizione uno strumento per praticare l’ascolto e per comprendere “il mondo” dell’altro, per entrarvi e rendere significativa la proposta educativa legata all’intervento terapeutico perché orientata anche sugli obiettivi percepiti come significativi dal paziente/discente.

Il patto formativo per il professionista è uno strumento profondo di comprensione dell’altro, utile per mediare le istanze del paziente, sue e dell’ente e per condividere le responsabilità. Per il paziente, invece, è uno strumento di responsabilizzazione che lo rende attivo, partecipe, co-responsabile dell’esito del trattamento e che – non ultimo – mette al centro le sue esigenze reali, aspettative future, possibilità (anche solo residue) di mantenere un qualche livello di qualità di vita. Questo tipo di lavoro è utile quando l’educazione terapeutica è fortemente strutturata e, dunque, raggiunge gruppi di pazienti che si trasformano in vere e proprie aule di discenti. Nonostante ciò è possibile declinare indicazioni pedagogico-comunicative integrate in questa visione della relazione e della cura anche nella relazione uno a uno. Si tenga, per esempio, presente che:

  1. il 36% dei pazienti non ricorda le informazioni fornite dal medico riguardo la prognosi e la terapia;
  2. il 70% dei pazienti assume in modo scorretto i farmaci prescritti;
  3. i medici sottostimano il desiderio d’informazione dei pazienti nel 65% dei colloqui;
  4. nel corso di colloqui della durata media di 20 minuti, poco più di un minuto è dedicato a trasmettere informazioni al paziente[38].

Il tempo è certamente un fattore determinante, ma non basta a giustificare l’atteggiamento a volte superficiale nei confronti della gestione della comunicazione che vela un modello relazionale introiettato e poco meditato da parte curante più attento agli aspetti di prodotto che non a quelli di processo.

La formazione nel contesto socio-sanitario

La relazione didattica nel contesto socio-sanitario, perciò, non è una relazione che ha per oggetto contenuti di istruzione, se non in modo marginale. Prima di arrivare ai contenuti, infatti, è necessario attivare almeno alcuni dei passaggi e degli atteggiamenti descritti precedentemente, facendosi carico delle difficoltà e complessità che comportano.

La formazione, in questo quadro, non è un prodotto statico e oggettivizzabile in tutti i suoi aspetti, piuttosto è un processo di analisi, accompagnamento, crescita e valutazione che, in alcuni casi paradossali, può anche esser privo di contenuto (disciplinare) senza per questo trasformarsi in una relazione di cura in senso psicologico.

Per chiarire meglio queste affermazioni è bene proporre alcune distinzioni di base: istruire, infatti, è diverso da educare o formare. Con il primo termine (istruire) si fa riferimento ad un processo che si focalizza sulla trasmissione di contenuti o sull’apprendimento di comportamenti attraverso un trasferimento di conoscenze pre-esistenti e che non prevede, fra gli obiettivi, una rielaborazione da parte del discente del materiale di apprendimento, né una produzione di conoscenza diversa da quella proposta. Educare include contenuti e comportamenti, ma il processo è inserito in una visone decisamente più ampia della precedente perché introduce aspetti di natura valoriale. Può esistere, per esempio, un’educazione alla cittadinanza che usa i contenuti come strumento per raggiungere fini diversi e legati all’essere delle persone nei contesti sociali. Educare, perciò, include una visione “a tutto tondo” della persona, considerata anche nei suoi aspetti sociali, culturali etici. Formare, infine, è un ulteriore passo avanti poiché implica aspetti valoriali e, dunque, valuta la persona “a tutto tondo” ma la considera anche capace di migliorare a partire dalle condizioni date che diventano oggetto di attenzione critica e riflessione. È un processo che non può essere svolto individualmente (al contrario – per esempio – dell’istruzione) perché vive solo all’interno di relazioni sociali che fanno da specchio e da motore della crescita individuale che diventa ricchezza anche per la comunità di appartenenza.

In didattica, queste macro aree, sono schematizzate a partire dai seguenti paradigmi teorici:

  1. l’informazione offerta al soggetto: ispirata alle ricerche cibernetiche riconduce l’istruzione al passaggio di informazioni dall’emittente al ricevente;
  2. l’apprendimento realmente conseguito che nasce dall’esigenza di oggettivizzare e perciò misurare quantitativamente il percorso di apprendimento;
  3. la formazione dell’uomo (in cui possiamo fare rientrare anche il punto due del precedente elenco) il cui punto di riferimento è la bildung, cioè una crescita spirituale (ma non di tipo religioso) che investe tutti gli aspetti della persona e del contesto sociale in cui vive.

Il miglior esempio del modello educativo e didattico formativo (ispirato alla Bildung e orientato alle esigenze individuali e sociali delle persone per corrispondere ai bisogni come da loro percepiti ed elaborati) è l’educazione terapeutica che vuole rispondere ai bisogni di salute delle persone in modo integrato, superando perciò una visione esclusivamente biomedica delle patologie e delle cronicità[39].

Secondo l’OMS, l’educazione terapeutica dovrebbe far mantenere ed acquisire al paziente le capacità e le competenze che lo aiutino a vivere in maniera ottimale con la sua malattia. Si tratta di conseguenza di un processo permanente integrato alle cure e centrato sul paziente.

L’educazione implica attività organizzate di sensibilizzazione, informazione, apprendimento dell’autogestione e sostegno psicologico concernenti la malattia, il trattamento prescritto, le terapie, il contesto ospedaliero e di cura, le informazioni relative all’organizzazione e i comportamenti di salute e di malattia. È finalizzata ad aiutare i pazienti e le loro famiglie a comprendere la malattia e il trattamento, cooperare con i curanti e vivere in maniera più sana e mantenere o migliorare la loro qualità di vita.

Dunque, a differenza dell’informazione, l’educazione è un processo interattivo incentrato su colui che apprende che implica una diagnosi educativa, la scelta di obiettivi d’apprendimento e l’applicazione di tecniche d’insegnamento e di valutazione pertinenti al fine di consentire al paziente di:

  1. conoscere la propria malattia (sapere = conoscenza);
  2. gestire la terapia in modo competente (saper fare = autogestione;
  3. prevenire le complicanze evitabili (saper essere = comportamenti).

Ciò implica un vero e proprio trasferimento pianificato ed organizzato di competenze terapeutiche dai curanti ai pazienti, grazie al quale la dipendenza lascia progressivamente il posto alla responsabilizzazione ed alla collaborazione attiva nonché una costruzione condivisa della visione della malattia, della rinnovata identità individuale e sociale e anche una condivisione degli obiettivi da perseguire. I macro-obiettivi sono così sintetizzabili:

  1. migliorare la qualità della vita;
  2. valorizzare le risorse del paziente;
  3. aumentare l’adesione al trattamento;
  4. promuovere un utilizzo più razionale dei servizi;
  5. ottimizzare i tempi di gestione della malattia;
  6. ridurre il numero delle ospedalizzazioni.

Tutti elementi che rendono il paziente “competente” della sua condizione e, dunque, consapevole e – in molti casi – autonomo. Sebbene questa sia una pratica volta a gestire situazioni di cronicità, possono essere trattate attraverso interventi di educazione terapeutica anche malattie e/o situazioni di breve durata come, per esempio, l’auto-cura post-operatoria, o post-parto, o le lesioni da decubito, nonché tutte le poli-patologie legate all’invecchiamento.

Il modello dell’educazione terapeutica appare funzionale sia alle esigenze delle persone, sia alle esigenze delle istituzioni deputate alla gestione della salute pubblica poiché comporta un miglioramento in termini di efficacia, efficienza e costi. Può essere altresì esportato in altri contesti più vicini al sanitario, che al medico, e – in linea di massima – in ogni situazione in cui è richiesta la condivisione di conoscenze e il gruppo è utilizzato come forma di sostegno all’apprendimento.

La relazione formativa: uno strumento per l’empowerment

È a partire da questo modello di relazione – da un patto che consenta la costruzione di nuovo sapere utile al soggetto perché corrisponde ai suoi bisogni – da ciò che in campo sanitario è definito “alleanza terapeutica” che prendono avvio i percorsi di empowerment, in cui le persone coinvolte sono reciprocamente responsabili.

Empowerment, letteralmente, significa conferire potere, è un processo di delega e di responsabilizzazione attraverso cui si accrescono le competenze, le motivazioni e la consapevolezza delle persone che partecipano all’interazione. È un processo diametralmente opposto all’atto di detenere il sapere come strumento di potere, tipico dei saperi esoterici (nella tradizione greca classica, a partire da Aristotele, quei saperi non destinati ad un largo pubblico, ma solo agli allievi) o a quello di gestire la comunicazione in modo autoritario e a prescindere dal contesto.

Assodato che i significati della comunicazione non vivono di un’oggettività astratta, la via più costruttiva per condividerli è cercare di costruirli insieme, rendendoli utili per tutti coloro che vi partecipano. Con queste pre-condizioni è possibile che la crescita individuale, aspirazione di ogni interazione educativa e formativa, raggiunga più puntualmente gli obiettivi.

Il momento della rilevazione dei bisogni, perciò, non è formalizzabile in uno schema quantitativo (o in un test pre-costituito) ma passa necessariamente attraverso l’analisi, l’ascolto e la decodifica dei bisogni di cui le persone sono portatrici, perché un servizio (sia esso medico, sanitario o sociale) «nasce – o dovrebbe nascere – per dare risposta, non riparatoria ma come corrispondenza ad un diritto sociale, ai bisogni espressi dalle persone (anziani, minori, donne disoccupati, immigrati, malati, ecc.) […]»[40]. E con ciò le attività finora illustrate, che rientrano a vario titolo nell’attività di costruzione di una relazione empatica, non sono necessarie perché dovremmo essere più comprensivi o più “buoni”, lo sono – invece – perché rientrano in un mandato professionale che caratterizza tutte le professioni che si basano sulla relazione tra persone e che si concretizzano nella reciproca narrazione (e non più comunicazione).

Se infatti l’esperienza di riconoscere i propri bisogni esistenziali si è contratta e se a questa contrazione, o atrofia, segue un’incapacità di dire, di narrare (per assenza dell’esperienza o per la sua inafferrabilità con il linguaggio), allora la prima cosa da indagare, per chi fa ricerca sui bisogni, è questa “ferita” dell’esistenza, questa lacerazione del tessuto emotivo e volitivo al fine di poterla curare[41].

Costruire la comunicazione attraverso la narrazione reciproca e, dunque, attraverso una crescita condivisa è la base per trasformare il processo formativo in un viaggio verso l’autonomia e l’auto-determinazione dei singoli; verso una indipendenza che dà potere all’individuo e al contesto sociale di cui partecipa: questo è il significato più profondo di un progetto formativo che aspiri all’empowerment.

La prospettiva praticata nelle relazioni che hanno come obiettivo l’empowerment si oppone alle logiche assistenzialistiche ed individualistiche che stanno spesso alla base dei modelli sociosanitari e terapeutici che guidano i servizi alla persona. Gli scopi fondamentali, infatti, riguardano l’autogestione della malattia e del trattamento; la capacità di partecipare alle cure e di fare delle scelte chiare; l’autoefficacia psicosociale e la pratica di una vita qualitativamente migliore. Il paziente è “al centro” nel senso che: è informato sulla malattia e sul trattamento e si “autogestisce”; esprime ciò che sa e ciò che prova rispetto alla malattia e al trattamento, partecipando alle decisioni mediche che lo riguardano; si esprime a proposito della propria vita, analizza le sue emozioni, ricerca e propone soluzione ai problemi[42].

Conclusioni

L’assetto normativo attualmente in vigore, che definisce i criteri a cui le università italiane si debbono attenere per la definizione dei propri Piani di Studi, pur ponendo vincoli precisi e puntuali a garanzia della qualità della formazione dei medici, non è in grado di rispondere pienamente alle esigenze di competenze pedagogiche di più ampia portata, come quelle presentate nel presente lavoro. Data l’ampiezza di tali proposte per le professioni medico sanitarie è ipotizzabile, a partire dalle discipline già presenti nelle Classi delle lauree[43], immaginare per la Laurea in Medicina un ampliamento dell’area umanistica per quei medici che intendono insegnare e dunque gestire gli apprendimenti, considerandola una ulteriore specializzazione a garanzia della futura classe medica e della salute dei pazienti.

Viceversa, le competenze pedagogiche utili alla relazione formativa tra medico e paziente dovrebbero essere un patrimonio comune per tutte quelle figure che hanno un ruolo di cura e di ciò vi è testimonianza nella presenza, massiccia, dei settori umanistici nelle Classi delle Lauree di molte delle professioni sanitarie. Nonostante ciò il beneficio reale che arriva al paziente a fronte di una dichiarazioni di intenti così orientata è, al momento, piuttosto scarso.

Probabilmente questo tipo di riflessione, che ha come focus la pedagogia nell’area della cura, deve penetrare con maggiore intensità e frequenza nella pratica della medicina ed essere vissuta non come un peso che si aggiunge alla già impegnativa professione di cura, assistenza e docenza ma come un investimento e un progetto su quale classe medica speriamo di avere nel prossimo futuro.

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Indagine condotta dal Censis Servizi per la Facoltà di Medicina e Chirurgia di Palermo: http://www.censisguida.it/GetMedia.aspx?lang=it&id=5e64914b366b489a80fec68f258f1519&s=0 (al settembre 2011).

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  1. Coinvolti nel progetto per Roma Tor Vergata (Facoltà di Medicina e Chirurgia) i proff. Stefano Elia e Fabio Cortese che si ringraziano per le fruttuose riflessioni condivise in merito alla presentazione: Development of teaching staff training curriculum compatible with European standards.
  2. http://www.sds.firenze.it/sds_firenze/chi_siamo/index.html
  3. Indagine condotta dal Censis Servizi per la Facoltà di Medicina e Chirurgia di Palermo: http://www.censisguida.it/GetMedia.aspx?lang=it&id=5e64914b366b489a80fec68f258f1519&s=0 (al settembre 2011).
  4. L. Da Dalt, S. Callegaro, A. Mazzi, A. Scipioni, P. Lago, M. L. Chiozza, F. Zacchello, G. Perilongo, A model of quality assurance and quality improvement for post-graduate medical education in Europe, in «Medical Teacher», 32, 2010, pp. 57-64.
  5. Per le ricadute specifiche di questa prospettiva nei settori Medicina generale, Medicina d’urgenza, Geriatria, nonché su settori interdisciplinari quali l’Ortogeriatria e la Psicogeriatria cfr. G. Salvioli, La formazione in medicina nel Sistema Universitario italiano: Medicina Interna e Geriatria: http://www.acsa-onlus.it/index.php?option=com_content&view=article&id=90:la-formazione-in-medicina-nel-sistema-universitario-italiano-medicina-interna-e-geriatria&catid=22:formazione-in-medicina&Itemid=27 (al settembre 2012).
  6. P. Binetti, M. G. De Marinis, La prospettiva pedagogica nella facoltà di medicina, Roma, Società editrice Universo, 2001, p. 80.
  7. Cfr. I. Cavicchi, EBM sì ma con misura, in «Politiche sanitarie» 1, 4, 2000, pp. 208-209.
  8. J. Bligh, Medical teacher and evidence, in «Medical Education», 2000, n° 34, pp.162- 163.
  9. Cfr. G. Cosmacini, C., Rugarli, Introduzione alla medicina, Roma-Bari, Laterza, 2000.
  10. G. Israel, Per una medicina umanistica. Apologia di una medicina che curi i malati come persone, Torino, Lindau, 2010, p. 6.
  11. Ivi, p. 87.
  12. G. Venuti, «Crisi della medicina», in La comunicazione della salute. Un manuale, (a cura di Fondazione Zoè), Milano, Raffaello Cortina Editore, 2009, pp. 46-47.
  13. Ivi.
  14. R. Prentice, «L’uomo invisibile», in La vita nascosta degli oggetti tecnologici (a cura di S. Turkle), Milano, Ledizioni, 2009, p. 145.
  15. Cfr. Ivi, p. 234, nota 119.
  16. Per un corposo approfondimento di queste tematiche: cfr. A. Pagnini, Filosofia della medicina. Epistemologia, ontologia, etica, diritto, Roma, Carocci, 2010; G. Boniolo, S. Giaimo, Filosofia e scienze della vita, Mondadori, Milano 2008; M. Biscuso, Filosofia e medicina, Milano, Mimesis, 2009.
  17. Per approfondire, cfr. L. Guasti (a cura di), Apprendimento e insegnamento. Saggi sul metodo, Milano, Vita e Pensiero, 2002. Nel volume sono affrontati i diversi modelli di lezione suddivisi in: logocentrica, psicocentrica, empirocentrica, integrale.
  18. L’art. 33, nella parte che ci interessa recita: «l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento», il che di fatto rende il docente autonomo nell’esercizio della sua professione con riguardo ai programmi e ai metodi.
  19. Per un approfondimento sul tema cfr. A. Guarguaglini, S. Cini, F. P. Corti, L. Lambruschini, Gestire gruppi in formazione. Teorie e strumenti, Trento, Erickson, 2007.
  20. Il concetto di ancoraggio matura all’interno della Programmazione Neuro Linguistica (PNL) e si riferisce al collegamento tra uno stimolo esterno e uno stato emotivo. Questa connessione può essere riprodotta associando sempre ad un certo spazio una determinata attività in modo che si crei una aspettativa inconsapevole da parte degli studenti per quella determinata attività (es.: mi colloco sempre a destra del tavolo di lavoro quando comincio spiegazioni teoriche).
  21. Per approfondire A. Spinelli, Un’officina di uomini. La scuola del costruttivismo, Napoli, Liguori, 2009.
  22. La ZSP o, nell’acronimo multilingue ZOPED «è la distanza tra il livello effettivo di sviluppo così come è determinato da problem-solving autonomo e il livello di sviluppo potenziale così come è determinato attraverso il problem-solving sotto la guida di un adulto o in collaborazione con i propri pari più capaci». L. S. Vijgotskij, Il processo cognitivo, Torino, Bollati Boringhieri, 1987, p. 127. «È nel momento in cui il soggetto agisce socialmente, cercando di risolvere un problema che non sarebbe in grado di affrontare autonomamente, attraverso lo scaffolding (sostegno) dialogico – che orienta senza dirigere – di chi tale problema sa già risolverlo (in quanto ha già colmato o reso attuale quella sua ZSP), che egli si “appropria” di nuovi strumenti cognitivi. Essi gli serviranno ad alimentare un “agire interiore” (interiorizzazione della procedura risolutoria attraverso un dialogo che, da sociale, diventa intrapersonale o “pensiero riflessivo”), il quale gli permetterà di risolvere in maniera autonoma problemi analoghi a quello affrontato con altri, controllando il proprio operare ». B. M. Varisco, Costruttivismo socio-culturale. Genesi filosofiche, sviluppi psico-pedagogici, applicazioni didattiche, Roma, Carocci, 2007, p. 106.
  23. La Zona di comfort è la condizione in cui il soggetto non è sottoposto a nessuno stress e si sente a suo agio, l’idea di base è che l’apprendimento avvenga – invece – in condizioni di pressione in cui il soggetto non si sente perfettamente a suo agio e per trovare una soluzione deve corrispondere all’ambiente esterno con una soluzione adattiva. L’apprendimento non avviene in una zona di comfort ma in condizioni che richiedono una interazione attiva con l’ambiente esterno.
  24. L’apprendimento significativo consente di dare un senso alle conoscenze, permettendo l’integrazione delle nuove informazioni con quelle già possedute e l’utilizzo delle stesse in contesti e situazioni differenti, sviluppando la capacità di problem solving, di pensiero critico, di metariflessione e trasformando le conoscenze in vere e proprie competenze. L’origine della riflessione si deve a D. P. Ausubel, integrato successivamente da molti autori che hanno approfondito il tema con riguardo all’uso delle nuove tecnologie e alla costruzione di mappe cognitive.
  25. In particolare il modello Knowledge Building che si configura come un metodo didattico orientato in quanto orientato a promuovere non tanto la capacità di apprendere quanto quella di costruire conoscenza. Per approfondire cfr. QWERTY – Interdisciplinary Journal of Technology, Culture and Education, Special Issue, n. 2, 2011.
  26. Lo schema è liberamente tratto da M. Knowles, Quando l’adulto impara. Pedagogia e andragogia, Milano, Franco Angeli, 2002.
  27. Cfr. F. Cambi, L. Toschi, La comunicazione formativa. Strutture, percorsi frontiere, Milano, Apogeo, 2006; A. Abbruzzese, R. Maragliano (a cura di), Educare e comunicare. Spazi e azioni dei media, Milano, Mondadori, 2008; M. T. Giannelli, Comunicare in modo etico. Un manuale per costruire relazioni efficaci, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2006.
  28. Fondazione Zoè (a cura di), La comunicazione della salute. Un manuale, Raffaello Cortina, Milano 2009, p. 3.
  29. G. Bert, S. Quadrino, «Il counselling in medicina», in Fondazione Zoè (a cura di), op. cit., p. 219.
  30. J. F. D’Ivernois, R. Gagnaryre, Educare il paziente. Un approccio pedagogico, Milano, McGraw-Hill, 2006.
  31. Il patto di formazione è uno strumento differente dal consenso informato che è l’assenso che il malato esprime verso la proposta terapeutica e/o diagnostica del medico che lo ha informato (in maniera comprensibile) sugli scopi, i rischi e le alternative possibili. Il consenso informato presuppone un rapporto dialettico e fiduciario fra medico e malato e la completa informazione di quest’ultimo riguardo alle proprie condizioni di salute (cfr. M. A. De Santi, I. Simeoni, Il medico, il paziente, i familiari. Guida alla comunicazione efficace, Torino, SEED, 2012). Il patto di formazione, invece, è uno strumento che aggiunge una negoziazione degli obiettivi della cura/terapia e che responsabilizza tanto il curante quanto il paziente, ha come scopo quello di tarare gli obiettivi sulle effettive necessità e abitudini di vita del paziente e di sostenerlo nell’apprendimento delle conoscenze e competenze necessarie per la gestione “autonoma” della sua condizione di cronicità.
  32. Il primo studioso che si è occupato di andragogia e che ne ha inventato il nome è Malcom Knowles (op. cit.) da cui sono tratte tutte le citazioni proposte.
  33. Ivi, p. 77.
  34. Ivi, p. 78.
  35. Ivi, p. 79.
  36. Ivi, p. 80.
  37. Ivi, p. 82.
  38. P. Ley, Memory for medical information, in «British Journal of Social & Clinical Psychology», 1979, n°18, pp. 245-255; H. Waitzkin, Doctor patient communication. Clinical implications of social scientific research, in «JAMA The Journal of the American Medical Association», 1984, vol, 252, n°17, pp. 2441-2246.
  39. Per approfondire J. F. d’Ivernois, R. Gagnaryre, op.cit.
  40. E. Vergani, Bisogni sospetti. Saggio di critica sociale, Santarcangelo di Romagna, Maggioli Editore, 2010, p. 60.
  41. Ivi, p. 94.
  42. I. Aujoulat, D. Doumont e A. Deccache Patient Education and Empowerment: a review of literature, 10th Internationa Conference on Health Prompting Hospitals, Bratislava, 2002.
  43. Nella Classe della Laurea di Medicina e Chirurgia sono già presenti: BIO/08 – Antropologia M-DEA/01 – Discipline demoetnoantropologiche; M-PED/03 – Didattica e pedagogia speciale; M-PSI/05 – Psicologia sociale; MED/02 – Storia della medicina; SPS/07 – Sociologia generale.