Abstract
Le riforme di orientamento neoliberale che hanno caratterizzato la storia recente delle università convergono oggi nel quadro politico e discorsivo rappresentato dalle idee di economia e società della conoscenza. Il contributo si propone da una parte di esplorare i contenuti, i dispositivi di governo nonché le conseguenze relative alla visione dell’educazione tipici delle politiche di orientamento neoliberale e, d’altra parte, di approfondire le plurali definizioni di economia e società della conoscenza, con l’obiettivo di individuare – attraverso una riflessione di natura pedagogica – spazi possibili di azione educativa nel quadro così delineato dell’università contemporanea.
Introduzione
Il presente lavoro intende proporre un avvio di riflessione sul tema dell’università nel quadro della società contemporanea. A partire dalla definizione degli orientamenti politici che caratterizzano la fase attuale di riforme in alcuni settori chiave della società, si approfondirà la cornice discorsiva in cui le attuali riforme dell’istruzione superiore sono collocate. Obiettivo del contributo è evidenziare i tratti distintivi dei discorsi in cui è inquadrato il cambiamento dell’istituzione universitaria nella contemporaneità, per riconoscervi alcuni elementi critici a partire dai quali avviare una riflessione più spiccatamente educativa.
Idee sull’istruzione superiore nell’epoca del postwelfarismo
In questa sezione l’attenzione sarà focalizzata su alcuni degli elementi che caratterizzano l’idea di università nel dibattito politico e accademico contemporaneo, con l’obiettivo di collocarli in un più ampio quadro teorico di riferimento. Nei processi di cambiamento e di riforma che interessano l’università oggi – tra i quali a livello europeo è possibile individuare, ad esempio, il Processo di Bologna, che sarà in questa sede assunto come oggetto di discussione – emergono con chiarezza alcune idee-guida, come quelle di impiegabilità, di gestione dell’educazione, di competitività e concorrenza fra istituzioni di istruzione superiore, di governo dei processi distribuito e decentrato attraverso una serie di soggetti satelliti che si occupano della diffusione degli obiettivi, del controllo e della valutazione, accanto all’immagine di un’università che si fa sempre più attenta alle esigenze economiche, sociali e professionali che provengono dal suo esterno. Già a partire da queste evidenze è possibile focalizzare l’attenzione su un primo elemento di riflessione: tali idee possono, con un buon grado di accordo, essere collocate nel quadro di più ampie politiche educative di orientamento neoliberale[1], intendendo con neoliberalismo quella corrente politica che a partire dalla fine degli anni Settanta ha determinato una progressiva erosione del modello di stato sociale in Europa[2]. La riflessione accademica ha sottolineato la pervasività delle idee neoliberali in campo educativo, tanto ai livelli inziali dell’istruzione quanto nell’istruzione superiore; secondo Rizvi, ad esempio, la maggior parte dei sistemi educativi mondiali interpreta le richieste di cambiamento in una forma simile, «vedendole attraverso cristalli di uguali colori»[3]. Sebbene la dinamica reale e il ritmo del cambiamento siano variabili a seconda dei contesti locali, la direzione del cambiamento appare la medesima: tutti i paesi negli ultimi trent’anni hanno sperimentato, con enfasi crescente, una transizione da un orientamento politico e da una forma di governo in materia educativa di impostazione socialdemocratica ad una di carattere neoliberale[4]. Il Processo di Bologna può di buon grado essere collocato nel quadro delle trasformazioni che negli ultimi vent’anni hanno interessato i sistemi educativi di gran parte dei paesi occidentali; trasformazioni che coincidono con un cambiamento più profondo all’interno del governo della società, ossia il passaggio da «assetti welfaristi a configurazioni post-welfariste del governo dell’education»[5] e dell’higher education. L’idea di postwelfarismo, d’altra parte, comprende anche la ridefinizione storica che il neoliberalismo ha vissuto a metà degli anni Novanta, quando sono emersi i limiti della competizione mercatistica e dell’eccessiva frammentazione da questa prodotta[6], che hanno reso necessario «uno spostamento (…) verso soluzioni di governance di tipo “eterarchico” (…), che mettessero al centro lo strumento dei network e della partnership pubblico-privata»[7], individuando in esse «le forme politico-organizzative più efficaci per la definizione ed attivazione delle politiche delle nuove arene decentrate»[8]. Le iniziative improntate a tale orientamento, noto come terza via, hanno caratterizzato le riforme di molti sistemi educativi, presentandosi come possibili alternative sia al neoliberalismo che al welfarismo attraverso l’idea di uno stato attivatore di processi di differenziazione educativa centrati sulle specificità locali, da perseguire attraverso strumenti collaborativi di rete, come le partnership, e il maggiore coinvolgimento degli stakeholders. I processi legati al funzionamento delle dinamiche educative divengono in questo modo più aperti al controllo comunitario. In questa visione, la differenziazione dell’offerta diviene un arricchimento a disposizione della scelta dell’utente. Anche questo modello di governance, tuttavia, assume al proprio interno alcune caratteristiche di ispirazione neoliberale, senza negarne la validità: la dimensione competitiva, le politiche di scelta, la managerializzazione, la valutazione, l’accountability, la privatizzazione sono elementi che conservano la loro centralità; a bilanciare queste tendenze già in atto intervengono però aumenti di investimenti in ambito educativo, la previsione di fondi destinati alle fasce svantaggiate, l’impegno retorico a garantire l’accesso, la promozione di forme di governance collaborativa e l’ampliamento della partecipazione ai processi decisionali in ambito educativo attraverso lo strumento della partnership pubblico-privata[9]. Tali modelli di azione, ad esempio, sono riconoscibili anche nelle dinamiche del Processo di Bologna, in quanto processo internazionale basato sulla logica di rete, sul coinvolgimento degli stakeholders e caratterizzato da una forte enfatizzazione delle dimensioni dell’accesso, dell’integrazione sociale, della sostenibilità, collocate nella più ampia cornice della competitività economica. Tali connotazioni non smentiscono, anzi rafforzano, l’orientamento postwelfarista del disegno di riforma complessivo dell’università europea, anche alla luce delle crescenti istanze di differenziazione e competitività che permangono nel discourse del Processo di Bologna e che, anzi, a partire dalla sua parziale implementazione, vi si accentuano[10].
Tra individualizzazione della responsabilità e New Public Management
Il carattere neoliberale delle riforme nei sistemi di istruzione e istruzione superiore permette di identificare specifici «vincoli, (…) possibilità e (…) spazi a disposizione degli attori»[11] che agiscono in tali sistemi. Ad esempio, la visione neoliberale dell’individuo si caratterizza per un «individualismo metodologico di stampo economicistico»[12] e dipinge un attore razionale, in grado di utilizzare al meglio le proprie capacità e realizzare i propri progetti di vita; d’altro canto però, questo individuo razionale è considerato come unico responsabile della propria formazione e della propria impiegabilità: il rischio connesso alla mutabilità delle condizioni di vita e di lavoro risulta allora individualizzato, così come la responsabilità per le traiettorie formative e di vita scelte dal soggetto nel quadro dell’offerta di servizi educativi assicurati da uno stato che si fa garante di percorsi idonei a promettere l’impiegabilità degli individui nel mercato del lavoro[13]. Il cattivo esito di una traiettoria formativa è così responsabilità del singolo; in caso di esito positivo, però, l’uomo neoliberale incontra la sua realizzazione nello sforzo competitivo, nel possesso di beni materiali e nel benessere, che rappresentano la giusta ricompensa al suo sforzo e alle competenze acquisite attraverso l’educazione[14].
Nel funzionamento delle organizzazioni, al modello burocratico professionale tipico del liberalismo di stampo classico ma anche degli assetti welfaristi, si sostituisce il New Public Management (d’ora in avanti: NPM)[15], articolato in una serie di:
«tecnologie di management e di controllo apparentemente decentralizzate, che incorporano alcuni tratti propri delle burocrazie, ma estendono e frammentano il livello del controllo in misura significativa, distribuendolo e aumentandone la portata in modo particolare sul piano simbolico»[16].
Il modello di gestione del NPM, basato in particolare su contrattualismo e managerialismo «mina quel tessuto di relazioni fiduciarie sulle quali si fonda il professionalismo, inteso come modalità di organizzazione istituzionale e forma di potere basta sull’autonomia e sulla delega dell’autorità»[17], tipica del liberalismo classico, pertanto:
«(…) i professionisti dell’educazione vengono reinseriti all’interno di modelli autoritativi fortemente connotati dal punto di vista gerarchico, in cui l’autorità viene esercitata non più attraverso la regolamentazione e il controllo procedurale, quanto piuttosto attraverso un controllo di tipo simbolico e orientato alle performance (…)»[18]
modalità di controllo che risulta in aperta contraddizione con l’enfasi sulla libertà e l’autonomia degli attori e con le politiche di decentramento.
L’estensione delle logiche del NPM al settore educativo ha un’altra importante conseguenza: «I processi decisionali diventano essenzialmente strumentali, guidati da una forma di razionalità tecnica e da logiche efficientistiche piuttosto che sostanziali e legate alle specificità dell’educazione»[19].
Il predominio di questo tipo di visioni o discourses determina un profondo mutamento nel modo in cui le università e le altre istituzioni di istruzione superiore interpretano e giustificano la ragione della propria esistenza come istituzioni. La tradizionale cultura professionale della ricerca libera e del dibattito avvertono la pressione istituzionale sulla performatività, come è possibile constatare dall’emergere di una marcata enfasi sulla misura dei risultati, sulla pianificazione strategica, sugli indicatori di performance, sulle misure di controllo di qualità e sull’audit.
Gli orientamenti neoliberali sono strettamente correlati sia all’idea di globalizzazione che all’idea di economia della conoscenza. Infatti, in un ambiente globale, il ruolo dell’istruzione superiore per l’economia è considerato strategico da parte dei governi: l’istruzione superiore è diventata «l’ammiraglia nella flotta politica dei governi di tutto il mondo»[20]. Le università sono considerate come il principale driver nell’economia della conoscenza e, di conseguenza, sono spinte a sviluppare nuovi legami e nuovi partenariati con il mondo produttivo e degli affari. Il riconoscimento dell’importanza economica dell’istruzione superiore e della necessità della sua redditività economica hanno visto la nascita di iniziative volte a promuovere maggiori capacità imprenditoriali, così come lo sviluppo di nuove misure di perfomance per migliorare la produttività e raggiungere gli obiettivi. In questo quadro, il sistema di istruzione è rappresentato come un sistema di tipo input-output, assai simile ad una funzione della produzione economica. Le dimensioni che governano le dinamiche educative sono:
- la flessibilità, in relazione all’organizzazione, attraverso l’uso del contratto;
- obiettivi chiaramente definiti (sia dal punto di vista dell’organizzazione che dell’individuo);
- orientamento ai risultati attraverso la misura degli stessi e la responsabilità manageriale per il loro raggiungimento.
In più, il modello del NPM, applicando microtecniche proprie del settore privato o di settori di quasi-mercato alla gestione delle organizzazioni del settore pubblico, sostituisce l’etica del servizio pubblico – secondo la quale le organizzazioni sono governate secondo norme e valori derivanti da assunti relativi al bene comune o al pubblico interesse – con una serie di norme e regole di tipo contrattualistico. Di conseguenza, il riconoscimento della dimensione professionale, basato sulla dimensione fiduciaria, è sostituito dall’idea di rapporto tra committente e esecutore (principal/agent relationships)[21]. In questo nuovo modello le caratteristiche distintive sono: la fiducia nel potere del management, l’elaborazione di strategie di sviluppo e una forte leadership. Economicità, efficienza ed efficacia sono concetti chiave nell’uso dei beni, pubblici o privati che siano, e diventano indicatori del buon governo dei processi. Il NPM, come paradigma globalmente diffuso di governo della pubblica amministrazione, ha un forte orientamento al mercato e la sua applicazione empirica all’interno dei processi di governo si basa sull’elaborazione di alcuni dispositivi[22]:
- decentralizzazione dei processi decisionali: la politica sviluppa le strategie e le agenzie sono responsabili per la loro implementazione;
- direzione attraverso gli outcomes o output e chiarificazione degli obiettivi attraverso accordi di performance;
- appiattimento delle gerarchie attraverso la creazione di agenzie esterne ed entità autonome che gestiscono un proprio budget;
- introduzione di meccanismi di mercato e competizione tra le istituzioni;
- introduzione di strumenti di management propri del settore privato come rendicontazione, marketing, management strategico e management delle risorse umane.
In maniera specifica, nell’ambito del rapporto tra stato e istituzioni di istruzione superiore, l’affermarsi di questo tipo di approccio ha determinato il progressivo spostamento dalla guida dello stato alla guida del mercato; questo nuovo assetto ha attribuito crescente importanza a soggetti terzi come possibili finanziatori, nonché alla necessità di risorse interne da dedicare ad attività di fundraising. D’altra parte, in virtù della quota di risorse che lo stato continua a concedere alle istituzioni di istruzione superiore, la strategia governativa per aumentare l’autoregolamentazione si basa sull’invito a dimostrare responsabilità istituzionale in merito al modo in cui le risorse vengono utilizzate e sui risultati che il loro utilizzo riesce a determinare[23]. L’obbligo di comunicare agli altri, spiegare, giustificare e rispondere a domande sull’utilizzo delle risorse e sui risultati che ne conseguono, detto accountability, rappresenta da parte sua un tema controverso: da un lato, coloro che sostengono in maniera incondizionata la libertà accademica reputano la necessità di rendere conto come un meccanismo di controllo e dipendenza nei riguardi del centro politico, che intacca profondamente il modo tradizionale di intendere la libertà della scienza; siffatta visione contraddice in effetti l’idea che scienza e insegnamento siano valori di per sé, e che dunque solo l’autocontrollo – che in ambito accademico si manifesta essenzialmente attraverso il meccanismo del controllo tra pari, la peer review – in questo campo sia un legittimo meccanismo di regolazione.
D’altra parte, i sostenitori del nuovo orientamento di gestione pubblica sostengono che coloro che finanziano un’istituzione abbiano il diritto di essere informati circa la distribuzione e l’uso delle risorse e le prestazioni che esse ottengono, per essere in grado di elaborare conclusioni sulla base di questi dati. Secondo questo punto di vista, l’accountability può rafforzare la legittimità e la posizione delle istituzioni di istruzione superiore e migliorarne le prestazioni.
L’implementazione delle riforme e la loro interpretazione sono frammentate su differenti livelli decisionali e assegnate a diversi soggetti: molteplici stakeholders articolano le proprie domande e interessi, che determinano dei processi decisionali interni piuttosto complessi. Le politiche centrali, guidate spesso dai movimenti del mercato globale, o comunque da idee educative diffuse a livello sovranazionale, incentivano le istituzioni di istruzione superiore a cambiare il proprio mix di ricerca e insegnamento da un modello in cui è centrale la consistenza disciplinare (discipline inspired) a un modello guidato dal mercato (market driven)[24]. Un esempio sono i finanziamenti che si indirizzano prevalentemente verso corsi di studio e di ricerca di impostazione tecnologica e prevalentemente orientati al networking. Il risultato è un vero e proprio cambiamento nella cultura universitaria: l’università perde in parte la propria connotazione come istituzione pubblica per trasformarsi in un’organizzazione ibrida in cui convivono caratteri del sistema pubblico e istanze del sistema privato. Infatti, l’orientamento al mercato influenza anche la vita interna delle singole istituzioni di istruzione superiore, rompendone la monoliticità e collocandovi all’interno nuove e differenziate richieste sociali: nelle università divengono sempre più frequenti consultancies e ricerca applicata, attività peraltro remunerative, in un contesto in cui sempre più le singole discipline competono tra loro per l’allocazione delle risorse. La ricerca diviene sempre più ricerca a contratto, determinando così una sorta di capitalismo accademico[25] che è talora letto come rischio per la libertà accademica, in quanto condiziona l’attività dei ricercatori e sposta l’attenzione verso problemi di medio raggio, a scapito della ricerca fondamentale o di base. Inoltre, la grande allocazione di risorse umane sulla ricerca a contratto rappresenta un rischio di deterioramento qualitativo nei tradizionali compiti di ricerca e insegnamento delle università, anche in virtù della stretta connessione tra di essi esistente. L’orientamento al mercato, che sempre più le istituzioni di istruzione superiore acquisiscono, porta a riconsiderare la tradizionale missione delle istituzioni di istruzione superiore nell’ambito del loro posizionamento competitivo, dei benefici che questo comporta, della diversificazione o della specializzazione tra istituzioni[26]
Il nuovo ruolo del governo centrale, definito come governo debole si basa sulla reinvenzione e distribuzione dei processi di governo: i governi centrali stabiliscono la politica più ampia, la combinano con le questioni economiche, ma trasferiscono la responsabilità della crescita, dell’innovazione, delle perfomance e dei risultati alle istituzioni decentralizzate. Parole chiave come competizione, strategia, sviluppo, risultati e orientamento agli obiettivi, orientamento al cliente, orientamento al mercato divengono frequenti e comuni nel settore pubblico e sono ormai accettate nei settori dell’istruzione superiore. Tale rimodulazione dei processi di governo è talora descritta come un cambiamento di paradigma dal modello del controllo statale (che controlla a livello centrale in maniera diretta tutti gli aspetti chiave) al modello della supervisione totale (in cui lo stato governa a distanza, assicurando la qualità e l’accountability)[27].
La presenza degli elementi sin qui descritti, la cui matrice è legata al controverso passaggio a una impostazione postwelfarista dell’istruzione superiore, distintamente riconoscibile all’interno del Processo di Bologna, è motivo della formazione di opinioni molto critiche nei confronti dello stesso Processo. Ad esempio, secondo Lorenz, le dichiarazioni che costituiscono l’ossatura programmatica del Processo di Bologna sono profondamente dipendenti da una politica pubblica di chiara ispirazione neoliberale[28]. Le politiche pubbliche elaborate a partire dal quadro politico costruito dal Processo, fortemente ispirate al NPM, sono la logica conseguenza di quanto sopra descritto, ossia appaiono caratterizzate da elementi molto contrastanti, in cui alla retorica del libero mercato si combinano pratiche di controllo che il critico del Processo di Bologna definisce quasitotalitarie. Le università vengono così trasformate in NPM institutions, con una conseguente introduzione della dimensione del mercato in tutti i domini sociali, inclusi quelli che prima si riferivano ai public services. In particolare in questi domini, l’introduzione di logiche di mercato può risultare un elemento problematico e talora foriero di rischi, in quanto tali servizi non possiedono naturalmente una capacità di adattamento al mercato.
Istruzione superiore, economia e società della conoscenza
Il mutamento dei meccanismi di governo dei processi interni all’università e la loro interazione con l’ambiente esterno sin qui analizzate, rappresentano elementi non di rado collocati nella più ampia cornice di senso definita dalle idee di società ed economia della conoscenza. Tali potenti idee-concetti sono ampiamente utilizzate tanto nella riflessione accademica quanto nella comunicazione scientifico-divulgativa, nel dibattito pubblico e nella sua rappresentazione mediale. Il più delle volte, l’idea di società della conoscenza non è discussa, ma è utilizzata come dato di fatto, come cornice concettuale che non ha bisogno di spiegazioni. In realtà, sono molti e plurali i discourses che sostengono o che trovano il proprio fondamento sulle idee stesse di società ed economia della conoscenza; al tempo stesso, differenti sono gli usi che si fanno di tali concetti in ambito politico ed in ambito economico. Secondo Välimaa e Hoffman, ad esempio, il concetto di società della conoscenza rappresenta un obiettivo di natura politica ed economica fortemente pervasivo tanto a livello locale, quanto a livello nazionale, sovranazionale e globale; è un orizzonte di natura politica verso il quale bisogna indirizzarsi; tale idea rappresenta tuttavia anche un tentativo sintetico di definire il modo in cui la società cambia[29]. Il concetto di società della conoscenza è, per questo motivo, un macro-tema multidimensionale e non neutrale, che merita un approfondimento nelle sue plurali definizioni di economia della conoscenza, società della conoscenza, società dell’informazione, learning society. Le differenti definizioni che si riferiscono a questo dominio di senso non interagiscono tra di loro tanto in ambito accademico, quanto, e soprattutto, in ambito politico, dove i concetti funzionano, secondo Peters, come ideologie performative (performative ideologies) anziché come teorie[30]. A tale proposito, sembra interessante la distinzione che Välimaa e Hoffman propongono a proposito degli usi possibili di concetti come quelli di società ed economia della conoscenza: l’idea di società della conoscenza è infatti usata sia come concetto accademico, intellectual device, volto a chiarire e spiegare una condizione esistente e a creare le condizioni per un’analisi e una riflessione su di essa, sia come elemento presente in «various public policy arenas» e orientato ad un divenire ideale di natura politica, dunque con connotazioni tipiche di un’ideologia performativa, che mira ad intervenire su un insieme di fenomeni e processi sociali. Tale distinzione è necessaria per comprendere con maggiore chiarezza la relazione tra i cambiamenti che avvengono nelle istituzioni di istruzione superiore, nelle politiche sull’istruzione superiore e nella società.
«Knowledge society provides an example of a concept which has created its own images, expectations and narratives (…). A useful starting point for understanding the variety of connotations is to characterize the knowledge society as an imaginary space, a discourse which is based on intellectual assumptions about the most fruitful focal points for analyses of modern societies. In knowledge society discourse everything related to knowledge and knowledge production can be included and interconnected, regardless of whether it concerns individuals, organisations or entire societies. Knowledge society discourse also describes the current situation in which the knowledge society is both the objective of policies and debates and an agent promoting policies and debates concerning its’ potentials (…). Knowledge society discourse occurs in the context of globalisation debates which assume ‘‘the widening, deepening and speeding up of world wide interconnectedness’’ as Held et al. (1999) contend. Knowledge society discourse also is rooted in the fact that higher education institutions are more important than ever as mediums in global knowledge economies. In the age of globalization, higher education institutions are integral to the continuous flows of people, knowledge, information, technologies, products and financial capital»[31].
Per questo motivo, di seguito si analizzano gli aspetti economici, sociali e tecnologici che contribuiscono alle plurali definizioni che esistono in tale dominio di senso. Secondo Powell e Snellman per economia della conoscenza si può intendere la produzione di prodotti e servizi basati su attività che si fondano sulla conoscenza, che contribuiscono ad accelerare tanto il ritmo del progresso tecnico e scientifico quanto la rapida obsolescenza dello stesso[32]. La dimensione che più di altre caratterizza l’idea di economia della conoscenza è una fiducia più marcata sulle capacità intellettuali piuttosto che sugli input fisici o sulle risorse naturali, accompagnata dall’impegno ad integrare miglioramenti in tutti i passaggi dei processi produttivi, a partire dal laboratorio di ricerca e sviluppo, sino alla fabbrica e all’interfaccia con i clienti. I cambiamenti che caratterizzano un’economia della conoscenza si riflettono nella quota crescente relativa di prodotto interno lordo che è attribuibile al capitale intangibile[33]. È tuttavia importante sottolineare che le prime concettualizzazioni relative all’idea di economia della conoscenza si possono collocare intorno ai tardi anni Cinquanta – primi anni Sessanta, e fanno riferimento alla crescita delle nuove industrie di base scientifica e al loro ruolo nel cambiamento economico e sociale. Uno dei più emblematici lavori in questo senso è quello di Bell, che analizza la centralità della conoscenza, una conoscenza che lo studioso definisce theoretical, come principale fonte dell’innovazione[34]. Negli anni Novanta, data la straordinaria crescita dei mercati basati sulla conoscenza, l’attenzione si è focalizzata sulle conseguenze relative alla nascita di nuove forme di lavoro; molti studiosi si sono inoltre concentrati sulla gestione efficiente della conoscenza all’interno delle imprese[35]. Powell e Snellman sottolineano che, sebbene esistano molte altre e più ampie definizioni di economia della conoscenza, essi abbiano scelto di concentrare l’attenzione su una visione che enfatizza la produzione di nuove idee in grado di generare beni, servizi e pratiche organizzative nuove o migliorate. Gli autori analizzano infatti i dati sui brevetti come prove che documentano uno slancio nella produzione di conoscenza, e dimostrano che questa espansione è guidata dall’emergere di nuove attività produttive, che indicano la concretizzazione della diffusione e del trasferimento di nuova conoscenza[36]. Un altro modo di concettualizzare i cambiamenti legati all’avvento dell’economia della conoscenza è la definizione di knowledge capitalism[37], emersa per descrivere la transizione all’economia della conoscenza, che si caratterizza in termini di un’economia dell’abbondanza, dell’annullamento delle distanze, della deterritorializzazione degli stati e degli investimenti in capitale umano. Secondo Burton-Jones, il sapere diviene la più importante forma di capitale globale. Nei lavori di Burton-Jones, così come in quelli di agenzie come la World Bank[38] o l’OECD[39], il passaggio ad un’economia della conoscenza passa attraverso un ripensamento radicale delle relazioni tradizionali tra l’educazione, l’apprendimento e il lavoro, focalizzando così l’attenzione sul bisogno di una nuova alleanza tra università e attività produttive. Nell’ambito di queste riflessioni, l’educazione è considerata come una forma di capitale conoscitivo in grado di determinare il futuro del lavoro, l’organizzazione delle istituzioni che gestiscono la conoscenza e la configurazione della società nel futuro[40].
L’idea di società della conoscenza, rispetto all’idea di economia della conoscenza, focalizza la propria attenzione su una visione più integrale della società, non limitandosi ad enfatizzare la dimensione dei processi produttivi ed economici – che pure rimangono centrali – ma dedicando anche consistente attenzione all’interazione tra cambiamenti economici, conseguenze per le vite degli individui e dimensione sociale. Tale visione emerge già verso la fine degli anni Novanta: l’UNESCO (2005), in particolare, ha adottato il termine società della conoscenza, o la sua variante al plurale, knowledge societies, nell’ambito delle sue politiche istituzionali[41]. Tale tipo di riflessione prende l’avvio dal fatto che nei paesi sviluppati il numero di lavoratori della conoscenza ha ormai raggiunto e superato il numero di lavoratori tradizionali, rappresentando così il più grande gruppo di lavoratori della società cosiddetta postindustriale[42]. La struttura sociale, economica e politica è profondamente influenzata da questi processi di cambiamento. In primo luogo, è essenziale rilevare che il lavoratore della conoscenza ottiene l’accesso al lavoro e la sua posizione sociale attraverso l’istruzione formale. La quantità e il tipo di conoscenza formale accumulata nel corso della vita rappresentano dunque elementi che differenziano tra loro i lavoratori della conoscenza, i quali possono possedere gradi più o meno elevati di specializzazione. Pertanto, l’istruzione rappresenta una risorsa chiave per l’individuo ma anche per la stessa società: i centri di istruzione – scuole, università, enti e istituzioni di formazione continua, anche all’interno di aziende e organizzazioni, ecc. – divengono istituzioni centrali. La realizzazione o la performance di un individuo, di un’organizzazione, di un settore produttivo o di un paese dipende dalla capacità di acquisire, produrre e applicare conoscenza. Oltre alla trasformazione della struttura occupazionale, in cui i lavoratori della conoscenza costituiscono la maggior parte della forza lavoro, la conoscenza si fa tanto più produttiva in termini economici quanto più specializzata. L’elevata specializzazione cambia anche l’organizzazione del lavoro: un sapere estremamente specializzato, per essere produttivo, presuppone il lavoro di équipe e, in secondo luogo, presuppone che la propria specializzazione si concretizzi all’interno di un’organizzazione di grandi dimensioni: un ospedale, una banca, un’istituzione educativa, un centro di ricerca, un organismo di governo[43]. Le organizzazioni forniscono il quadro in cui i saperi sono posti tra loro in relazione di continuità, contiguità e interrelazione, in maniera che siano in grado di produrre altro sapere e valore economico. La specializzazione, in un certo senso, espropria gli individui specializzati degli obiettivi e dei fini della propria conoscenza, che si esplica al meglio delle proprie possibilità all’interno delle organizzazioni stesse: il soggetto sperimenta nuove forme di alienazione. Per questo motivo, al centro della società della conoscenza, ci sono i lavoratori e le organizzazioni: ciò significa che la definizione stessa di società della conoscenza è profondamente interrelata con l’economia e con l’organizzazione della società.
L’altra dimensione che ha caratterizzato fortemente le concettualizzazioni in tema di società della conoscenza è quella tecnologico-informativa. Le profonde trasformazioni avvenute con l’accelerazione dello sviluppo tecnologico, con l’interconnessione delle comunicazioni a livello mondiale attraverso la rete, con la diffusione planetaria del web, sono anch’essi elementi profondamente connessi con i cambiamenti delle modalità di creazione del valore, con i mutamenti nei modi di produzione della ricchezza, con l’improvvisa centralità della conoscenza; da qui, la nascita delle le più varie etichette: Villaggio Globale[44], Era Tecnotronica[45] società dell’informazione o era dell’informazione. Il termine società dell’informazione[46] e i suoi sinonimi, sebbene definiti sin dagli anni Settanta, hanno rappresentato una potente definizione, centrale soprattutto negli anni Novanta, non perché esprimessero necessariamente una chiarezza teorica, quanto piuttosto perché questa idea fu enfaticamente incorporata all’interno delle politiche ufficiali dei paesi più sviluppati, concentrando l’attenzione sulle idee di interconnessione, cancellazione delle distanze, cambiamento delle modalità di lavoro grazie alla tecnologia, rapida circolazione della conoscenza come fattore di sviluppo economico. Nel contesto dello sviluppo del World Wide Web e delle ICTs, la società dell’informazione, come concetto politico e costrutto ideologico, si è sviluppata nell’ambito della contemporanea e crescente globalizzazione dei mercati, accompagnata spesso dall’idea di un’accelerazione nel processo di creazione di un mercato mondiale aperto e auto-regolato. L’idea di società dell’informazione ha rappresentato in qualche modo la faccia amichevole dei processi di globalizzazione. L’enfasi sull’idea di società dell’informazione è diminuita contestualmente alla crisi della new economy manifestatasi a partire dal 2000[47]. Dal rapporto World report on Knowledge Societies[48] si possono trarre alcune riflessioni che aprono la porta ad uno spazio di azione educativo; nel rapporto si sottolinea infatti come società della conoscenza e società dell’informazione non debbano essere confuse: la prima propone una visione che mette al centro il benessere degli individui e delle comunità, e comprende dimensioni etiche, sociali e politiche; la seconda focalizza la propria attenzione su progressi tecnologici che ampliano l’accesso ad una moltitudine di dati, che possono risultare indistinti e poco significativi per coloro che non possiedono le competenze necessarie per trarne beneficio. Castells compie un passo in avanti nella definizione di società dell’informazione, precisando che più che di information society, si debba parlare di informational society. In questa definizione, il termine informational si riferisce ad una specifica modalità di organizzazione sociale, in cui la creazione, il trattamento e la trasmissione delle informazioni si trasformano in fonti di produttività e di potere, grazie alle nuove condizioni tecnologiche. Inoltre Castells osserva che ciò che è centrale non è tanto la conoscenza o l’informazione, quanto piuttosto la loro applicazione alla generazione di nuova conoscenza e ai dispositivi di elaborazione delle informazioni/comunicazione, in un ciclo di feedback cumulativo tra l’innovazione e gli usi sociali della stessa. Sono gli usi sociali della tecnologia a determinare il fatto che la mente umana divenga una forza produttiva diretta e non solo un elemento all’interno del sistema produttivo[49]; pertanto le tecnologie dell’informazione e della comunicazione agiscono sulla possibilità stessa di produzione della conoscenza, potenziando da un lato le capacità del singolo di processare informazioni, dall’altro consentendo la creazione di reti di soggetti che possono scambiare e produrre conoscenza collettivamente, da cui l’idea di networked society.
Spazi aperti di riflessione pedagogica per l’università nella società della conoscenza. Il diritto di cittadinanza nella learning society
La pluralità di definizioni sin qui illustrata ci restituisce un quadro più completo, benché più complesso, del panorama in cui hanno luogo i cambiamenti dell’università contemporanea, nonché della connotazione storico-politica dei cambiamenti in corso. A seguito di una ricomplessificazione del discorso è opportuno ora domandarsi quali spazi sia possibile individuare per avviare considerazioni di natura prettamente educativa, che possano avere diritto di parola nelle questioni relative all’università tanto quanto le riflessioni di natura economica e politica.
Secondo Alberici, un elemento da cui partire per sviluppare una riflessione di questa natura è dato proprio dalla complessità delle dimensioni sin qui delineate, che emergono però con alcuni tratti comuni che convergono verso la centralità dell’apprendimento, inteso come strumento chiave per la gestione della complessità. L’apprendimento è «sfida per affrontare la globalizzazione o l’innovazione tecnologica, leva a partire dalla quale costruire una nuova coesione sociale e, contestualmente, ambito che offre ai soggetti la possibilità di sperimentare un protagonismo riflessivo, creativo e divergente»[50]. Dalla pluralità degli scenari illustrati precedentemente, che individuano i caratteri distintivi della società contemporanea e intorno ai quali ruotano l’insieme dei processi sociali, culturali, economici, politici e le vite degli individui, emerge l’importanza di privilegiare una lettura trasversale di tali caratteri, centrata sulla definizione di learning society. Questa visione, infatti, «evidenzia la pervasività della conoscenza, dei saperi e delle competenze, in tutte le dimensioni della vita sociale e individuale, nel lavoro, nell’economia, nelle politiche di sviluppo, nella stessa distribuzione e concentrazione mondiale del potere e della ricchezza»[51] e controbilancia l’idea di una società della conoscenza intesa anche e soprattutto come società di mercato, in cui l’abbondanza di informazione/conoscenza è considerata merce volta a soddisfare un bisogno e non un bene volto a determinare un apprendimento significativo per il soggetto e per la società. È pertanto possibile leggere l’idea di learning society come quella di una società in cui a tutti deve essere data la possibilità non solo di accedere ma di imparare a gestire le informazioni e la conoscenza[52] in ogni circostanza e momento in cui l’accesso al sapere si riveli essenziale per il pieno esercizio del diritto di cittadinanza. Da qui deriva il bisogno di individuare spazi di garanzia, formali ed informali, grazie ai quali i cittadini possano costantemente aggiornare le loro competenze[53]. Il riconoscimento della necessità di spazi educativi aperti e accessibili ha implicazioni importanti non solo dal punto di vista economico, ma anche per le condizioni di vita e di lavoro dei soggetti, in quanto la richiesta crescente di specializzazione, in continuo cambiamento e l’offerta di forza lavoro qualificata rischiano di non coincidere più e di dar luogo a condizioni di vita inique, tensioni, emarginazione e ingiustizia sociale. Di conseguenza, alle grandi opportunità in termini di accesso alla conoscenza, fa da contraltare un aumento dei rischi[54], in quanto la creazione e il trasferimento di conoscenza non rappresentano più garanzia di equità in un contesto in cui il soggetto è privato della possibilità di far fruttare la propria conoscenza in maniera autonoma e individuale. Abbiamo infatti visto come nell’economia della conoscenza, la ricchezza e la prosperità dipendano dalla capacità dei soggetti di essere competitivi sul mercato del lavoro, di entrare in sintonia con i desideri e le esigenze del mercato, e di essere pronti a ristrutturare la propria identità professionale e sviluppare nuove competenze, a seconda di quanto richiesto dalle fluttuazioni economiche. Nell’economia della conoscenza, tali capacità non dipendono solo dagli individui, ma dalle organizzazioni[55]. Per questo motivo, le istituzioni di istruzione superiore e le istituzioni educative in generale divengono il luogo privilegiato per la creazione e la cura di quelle capacità intellettuali necessarie in una società in cui la produzione e la circolazione di conoscenza sono centrali, e luoghi in cui è possibile garantire la promozione, l’aggiornamento e il miglioramento delle conoscenze e competenze possedute in un’ottica di lifelong learning. Lo spazio in cui allora una riflessione di natura pedagogica può svilupparsi ancora con forza e richiedere diritto di parola è proprio quello dato dalla possibilità di una lettura complessiva delle dimensioni dei cambiamenti in corso, che evidenzi da una parte il ruolo dell’apprendimento come risorsa chiave per la realizzazione degli individui e che, d’altra parte, ponga l’accento sulla responsabilità istituzionale dell’università: una responsabilità intesa non solo come accountability, ma anche come attenzione al soggetto, alla efficacia e al buon esito delle traiettorie formative, che sempre più spesso sono importanti chiavi di accesso alla piena cittadinanza. Tale centralità della dimensione pedagogica emerge con forza ancora maggiore se si prendono in considerazione visioni critiche come quella di Giroux, il quale sottolinea come, nei discorsi sull’educazione, il potere esercitato dalla dimensione economica e lo spazio che si è lasciato governare dalle dinamiche dei nuovi assetti sociali ed economici abbiano determinato una marginalizzazione delle istanze civiche ed una crescente mercificazione della conoscenza, che è così deprivata della sua componente etica e politica e che può produrre «(…) compliant workers, depoliticized consumers, and passive citizens»[56] a scapito di equità, cittadinanza attiva e democrazia.
Bibliografia
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- Su questi temi, cfr. P. Roberts e M.A. Peters, Neoliberalism, Higher Education and Research, Rotterdam & Taipei, Sense Publishers, 2008, e R. Dale, «Los efectos de la globalización en la política nacional: un análisis de los mecanismos», in Globalización y Educación: Textos Fundamentales, (a cura di X. Bonal, A. Tarabini-Castellani, A.Verger), Buenos Aires, Miño y Dávila, 2007, pp. 87-114. ↩
- Gli orientamenti neoliberali, secondo Roberts e Peters possono essere fatti risalire sino agli anni Cinquanta e si possono individuare come orientamenti politico-economici dominanti in almeno sei momenti storici: «(…) For analytical purposes, we can postulate several stages of neoliberalism: first, the development of the Austrian, Freiburg and Chicago schools in neoclassical economics; second, the “first globalization” of neoliberalism with the establishment of the Mont Pelerin Society in 1947; third, the development of the “Washington consensus” during the 1970s; fourth, the Thatcher-Reagan experiment; fifth, the emergence of structural adjustment loans and institutionalisation of neoliberalism through a series of world policy agencies such as the International Monetary Fund, the World Bank, the OECD (Organisation for Economic Cooperation and Development), and the WTO (World Trade Organisation); sixth, the transition to “knowledge economy” and “knowledge for development” in the 1990s and beyond». P. Roberts e M.A. Peters, op.cit., p. 9. ↩
- F.Rizvi, «La globalización y las políticas en materia de reforma educativa» in Globalización, posmodernidad y educación ( a cura di J.L. Aróstegui e J.B. Martínez), Madrid, Akal y Universidad Internacional de Andalucía, 2008, p. 91. ↩
- Ivi, p. 92. ↩
- E. Grimaldi, Discorsi e pratiche di Governance nella scuola, Milano, Franco Angeli, 2010, p. 59. ↩
- Cfr. E. Grimaldi, op.cit., p.75 ↩
- Ibidem ↩
- Ibidem. ↩
- Ivi, pp. 75-77. ↩
- Cfr. W. Weymans , «From Coherence to Differentiation: understanding (changes in) the European Area for Higher Education and Research» in International Handbook of Comparative Education (a cura di R. Cowen, e A. M. Kazamias), Dordrecht, Springer, 2009, pp. 569-585. ↩
- E. Grimaldi, op. cit., p. 59. ↩
- Ivi, p. 67. ↩
- Cfr. E. Grimaldi, op.cit., pp. 67-69. ↩
- Cfr. C.A. Cascante Fernandez, ¿Refundar Bolonia? Un análisis político de los discursos sobre el proceso de creación del espacio europeo de educación superior, in «Revista española de educacion comparada», n°15, 2009, pp.131-161. ↩
- Il New Public Management – NPM, è uno stile di governance emerso nei primi anni ottanta del XX secolo nei lavori di alcuni studiosi statunitensi. La public governance rappresenta la gestione di settori pubblici complessi e non direttamente limitabili alle dinamiche di mercato, in quanto i portatori di interessi (gli stakeholders) sono di natura plurima e comprendono istituzioni, associazioni senza scopo di lucro, cittadini privati, imprese e altri enti pubblici in rete: dato questo convergere di interessi disomogenei per natura e finalità in un equilibrio dinamico, molti studiosi preferiscono parlare di collaborative public management. Il New Public Management è, quindi, definibile come uno stile di gestione del settore pubblico che, sull’esempio delle pubbliche amministrazioni anglosassoni soprattutto, vuole integrare il diritto amministrativo e le pratiche gestionali tradizionali di un ente pubblico con una metodologia più orientata al risultato (l’interesse pubblico), mutuata dal settore privato e mirata ad un maggior coinvolgimento nella gestione della cosa pubblica. Secondo Olsen e Peters non vi è un modello uniforme di NPM, poiché ogni Stato lo declina in modo diverso, fermo restando il nucleo minimo costituito dall’introduzione nel settore pubblico dei meccanismi del mercato e della competizione tramite il ricorso alla contrattualizzazione e alla managerializzazione (Governance without government), cfr. J. Olsen, e B.G. Peters, «Learning from Experience?» in Lessons from Experience, Experiential Learning in Administrative Reforms in eight Democracies (a cura di J. Olsen and B.G. Peters), Oslo, Scandinavian University Press, 1996. ↩
- E. Grimaldi, op. cit., p. 72. ↩
- Ivi, p. 73. ↩
- Ibidem. ↩
- Cfr. S. Gewirtz e S. Ball, From “Welfarism” to “New Mangagerialism”: shifting discourses of school headship in the education marketplace, in «Discourse: studies in the cultural politics of education», n° 21,3, 2000, pp. 253-268., citato in E. Grimaldi, op.cit, p.74. ↩
- Cfr. M. Olssen e M.A. Peters, Neoliberalism, higher education and the knowledge economy: from the free market to knowledge capitalism, in «Journal of Education Policy», n° 20, 3, 2005, pp. 313-345. ↩
- Ivi, p. 324; cfr. anche E. Grimaldi, op.cit., p.74. ↩
- Cfr. C. Hood, A Public Management for all seasons?, in «Public Administration», n°69, 1991, pp. 3-19. ↩
- Cfr. F. Strehl, S. Reisinger and M. Kalatschan, Funding Systems and their Effects on Higher Education Systems, «OECD Education Working Papers», n°. 6, OECD Publishing, 2007, pp.19- 21. ↩
- Ivi, p. 20. ↩
- Cfr. S. Slaugther e L. Leslie, Academic capitalism: Politics, policies, and the entrepreneurial university, Baltimore, Johns Hopkins Press, 1997. ↩
- Ad, esempio, uno degli argomenti frequentemente addotto come elemento a supporto di una separazione tra i compiti di ricerca e di insegnamento delle università è il fatto che in aree di insegnamento di tipo basilare o introduttivo non è necessaria un’integrazione diretta tra insegnamento e ricerca: può essere più efficiente ed efficace fornire lo stato dell’arte rilevante (ed internazionale) del campo di studi. ↩
- F. Strehl et al., op.cit., p.23. ↩
- Cfr. C. Lorenz, Higher Education Policies in the European Union, the ‘Knowledge Economy’ and Neoliberalism, in «Social Europe the journal of the european left», 2006, pp. 78-86. ↩
- Cfr. J. Välimaa e D. Hoffman, Knowledge society discourse and higher education, in «Higher Education», n°56 (3), Springer, 2008, pp. 265-285. ↩
- Cfr. M. A. Peters, Knowledge economy, development and the future of higher education, Rotterdam and Taipei, Sense Publishers, 2007. ↩
- J. Välimaa e D. Hoffman, op. cit., p. 266. ↩
- Cfr. W. Powell e K. Snellman, The Knowledge Economy, in «Annual Review of Sociology», n° 30, 2004, pp. 199-220. ↩
- Cfr. M. Abramovitz e P.A. David, «Technological change and the rise of intangible investments. The U.S. economy’s growth-path in the twentieth century», in Employment and Growth in the Knowledge-Based Economy, Paris, OECD, 1996, pp. 35-60. ↩
- Cfr. D. Bell, The coming of post-industrial society: A venture in social forecasting, New York, Basic Books, 1973. ↩
- Su queste tematiche, cfr. P. Drucker, Post-capitalist Society. New York, Harper Collins, 1993; inoltre I. Nonaka e H. Takeuchi, The knowledge-creating company, New York, Oxford University Press, 1995 e L. Prusak, Knowledge in Organizations, Boston, MA Butterworth-Heinemann, 1997 ↩
- W. Powell e K. Snellman, op. cit., p. 201. ↩
- Cfr. A. Burton-Jones, Knowledge capitalism: business, work and learning in the new economy, Oxford, Oxford University Press, 1999. ↩
- Cfr. World Bank, World Development Report: Knowledge For Development, Oxford, Oxford University Press, 1998. ↩
- Cfr. OECD, The Knowledge-based Economy, Paris, OECD, 1996. ↩
- Cfr. W. Powell e K. Snellman, op. cit. ↩
- Si veda ad esempio UNESCO, Towards knowledge societies: UNESCO world report, Paris, UNESCO Publishing, 2005, p.18; la definizione dell’UNESCO è «simultaneous growth of the internet, mobile telephony and digital technologies with the third industrial revolution – which, at first in the developed countries, has seen much of the working population migrate to the service sector – has revolutionized the role of knowledge in our societies». ↩
- Cfr. J. L.Mateo, Sociedad del conocimiento, in «ARBOR Ciencia, Pensamiento y Cultura», n° CLXXXII (718), 2006, pp. 145-151. ↩
- Ivi, p.149. ↩
- Cfr. M. McLuhan, Understanding Media: The Extensions of Man, New York, McGraw-Hill, 1964 ↩
- Cfr. Z. Brzezinski, Between the Two Ages: America in the Technetronic Era, Harmondsworth. Penguin, 1976. ↩
- Per una sintesi delle varie teorie sulla società dell’informazione e della conoscenza, si veda F. Webster, Theories of the information society, London,, Routledge, 1995. ↩
- Cfr. S. Burch, The Information Society/The Knowledge Societies, 2005: http://vecam.org/article517.html (verificato il 10 ottobre 2012) ↩
- UNESCO, Towards knowledge societies: UNESCO world report, Paris, UNESCO Publishing, 2005 ↩
- Cfr. M. Castells, The Rise of the Network Society, Oxford, Blackwell, 1996 ↩
- A. Alberici, Imparare sempre nella società della conoscenza, Milano, Bruno Mondadori, 2002, p. 4. ↩
- Ibidem ↩
- Ivi, pp. 16-17. ↩
- Cfr. C. Marcelo, Aprender a enseñar para la Sociedad del Conocimiento. «Revista Complutense de Educación», n°12:2, Universidad de Sevilla, 2001, pp. 531-593. ↩
- L’idea di rischio, declinata a partire da vari punti di vista, è centrale nell’elaborazione sociologica sul tema della tarda modernità/postmodernità; su questi temi, si vedano, ad esempio, A. Giddens, The Consequences of Modernity, Cambridge, Polity, 1990, U. Beck, Risk Society: Towards a New Modernity, New Delhi, Sage, 1992 e Z. Bauman, Liquid Modernity, Cambridge, Polity Press, 2000. ↩
- Cfr. A. Hargreaves, Teaching in the Knowledge Society. Technology Colleges Trust Vision 2020 – Second International Online Conference, 13-26 October and 24 November-7 December 2002. URL: http://www.pgsimoes.net/Biblioteca/Hargreaves.pdf (verificato il 10 ottobre 2012) ↩
- H. A. Giroux, Neoliberalism and the Vocationalization of Higher Education: http://www.henryagiroux.com/online_articles/vocalization.htm (verificato il 13 settembre 2012) ↩
- Su questi temi, cfr. P. Roberts e M.A. Peters, Neoliberalism, Higher Education and Research, Rotterdam & Taipei, Sense Publishers, 2008, e R. Dale, «Los efectos de la globalización en la política nacional: un análisis de los mecanismos», in Globalización y Educación: Textos Fundamentales, (a cura di X. Bonal, A. Tarabini-Castellani, A.Verger), Buenos Aires, Miño y Dávila, 2007, pp. 87-114. ↩
- Gli orientamenti neoliberali, secondo Roberts e Peters possono essere fatti risalire sino agli anni Cinquanta e si possono individuare come orientamenti politico-economici dominanti in almeno sei momenti storici: «(…) For analytical purposes, we can postulate several stages of neoliberalism: first, the development of the Austrian, Freiburg and Chicago schools in neoclassical economics; second, the “first globalization” of neoliberalism with the establishment of the Mont Pelerin Society in 1947; third, the development of the “Washington consensus” during the 1970s; fourth, the Thatcher-Reagan experiment; fifth, the emergence of structural adjustment loans and institutionalisation of neoliberalism through a series of world policy agencies such as the International Monetary Fund, the World Bank, the OECD (Organisation for Economic Cooperation and Development), and the WTO (World Trade Organisation); sixth, the transition to “knowledge economy” and “knowledge for development” in the 1990s and beyond». P. Roberts e M.A. Peters, op.cit., p. 9. ↩
- F.Rizvi, «La globalización y las políticas en materia de reforma educativa» in Globalización, posmodernidad y educación ( a cura di J.L. Aróstegui e J.B. Martínez), Madrid, Akal y Universidad Internacional de Andalucía, 2008, p. 91. ↩
- Ivi, p. 92. ↩
- E. Grimaldi, Discorsi e pratiche di Governance nella scuola, Milano, Franco Angeli, 2010, p. 59. ↩
- Cfr. E. Grimaldi, op.cit., p.75 ↩
- Ibidem ↩
- Ibidem. ↩
- Ivi, pp. 75-77. ↩
- Cfr. W. Weymans , «From Coherence to Differentiation: understanding (changes in) the European Area for Higher Education and Research» in International Handbook of Comparative Education (a cura di R. Cowen, e A. M. Kazamias), Dordrecht, Springer, 2009, pp. 569-585. ↩
- E. Grimaldi, op. cit., p. 59. ↩
- Ivi, p. 67. ↩
- Cfr. E. Grimaldi, op.cit., pp. 67-69. ↩
- Cfr. C.A. Cascante Fernandez, ¿Refundar Bolonia? Un análisis político de los discursos sobre el proceso de creación del espacio europeo de educación superior, in «Revista española de educacion comparada», n°15, 2009, pp.131-161. ↩
- Il New Public Management – NPM, è uno stile di governance emerso nei primi anni ottanta del XX secolo nei lavori di alcuni studiosi statunitensi. La public governance rappresenta la gestione di settori pubblici complessi e non direttamente limitabili alle dinamiche di mercato, in quanto i portatori di interessi (gli stakeholders) sono di natura plurima e comprendono istituzioni, associazioni senza scopo di lucro, cittadini privati, imprese e altri enti pubblici in rete: dato questo convergere di interessi disomogenei per natura e finalità in un equilibrio dinamico, molti studiosi preferiscono parlare di collaborative public management. Il New Public Management è, quindi, definibile come uno stile di gestione del settore pubblico che, sull’esempio delle pubbliche amministrazioni anglosassoni soprattutto, vuole integrare il diritto amministrativo e le pratiche gestionali tradizionali di un ente pubblico con una metodologia più orientata al risultato (l’interesse pubblico), mutuata dal settore privato e mirata ad un maggior coinvolgimento nella gestione della cosa pubblica. Secondo Olsen e Peters non vi è un modello uniforme di NPM, poiché ogni Stato lo declina in modo diverso, fermo restando il nucleo minimo costituito dall’introduzione nel settore pubblico dei meccanismi del mercato e della competizione tramite il ricorso alla contrattualizzazione e alla managerializzazione (Governance without government), cfr. J. Olsen, e B.G. Peters, «Learning from Experience?» in Lessons from Experience, Experiential Learning in Administrative Reforms in eight Democracies (a cura di J. Olsen and B.G. Peters), Oslo, Scandinavian University Press, 1996. ↩
- E. Grimaldi, op. cit., p. 72. ↩
- Ivi, p. 73. ↩
- Ibidem. ↩
- Cfr. S. Gewirtz e S. Ball, From “Welfarism” to “New Mangagerialism”: shifting discourses of school headship in the education marketplace, in «Discourse: studies in the cultural politics of education», n° 21,3, 2000, pp. 253-268., citato in E. Grimaldi, op.cit, p.74. ↩
- Cfr. M. Olssen e M.A. Peters, Neoliberalism, higher education and the knowledge economy: from the free market to knowledge capitalism, in «Journal of Education Policy», n° 20, 3, 2005, pp. 313-345. ↩
- Ivi, p. 324; cfr. anche E. Grimaldi, op.cit., p.74. ↩
- Cfr. C. Hood, A Public Management for all seasons?, in «Public Administration», n°69, 1991, pp. 3-19. ↩
- Cfr. F. Strehl, S. Reisinger and M. Kalatschan, Funding Systems and their Effects on Higher Education Systems, «OECD Education Working Papers», n°. 6, OECD Publishing, 2007, pp.19- 21. ↩
- Ivi, p. 20. ↩
- Cfr. S. Slaugther e L. Leslie, Academic capitalism: Politics, policies, and the entrepreneurial university, Baltimore, Johns Hopkins Press, 1997. ↩
- Ad, esempio, uno degli argomenti frequentemente addotto come elemento a supporto di una separazione tra i compiti di ricerca e di insegnamento delle università è il fatto che in aree di insegnamento di tipo basilare o introduttivo non è necessaria un’integrazione diretta tra insegnamento e ricerca: può essere più efficiente ed efficace fornire lo stato dell’arte rilevante (ed internazionale) del campo di studi. ↩
- F. Strehl et al., op.cit., p.23. ↩
- Cfr. C. Lorenz, Higher Education Policies in the European Union, the ‘Knowledge Economy’ and Neoliberalism, in «Social Europe the journal of the european left», 2006, pp. 78-86. ↩
- Cfr. J. Välimaa e D. Hoffman, Knowledge society discourse and higher education, in «Higher Education», n°56 (3), Springer, 2008, pp. 265-285. ↩
- Cfr. M. A. Peters, Knowledge economy, development and the future of higher education, Rotterdam and Taipei, Sense Publishers, 2007. ↩
- J. Välimaa e D. Hoffman, op. cit., p. 266. ↩
- Cfr. W. Powell e K. Snellman, The Knowledge Economy, in «Annual Review of Sociology», n° 30, 2004, pp. 199-220. ↩
- Cfr. M. Abramovitz e P.A. David, «Technological change and the rise of intangible investments. The U.S. economy’s growth-path in the twentieth century», in Employment and Growth in the Knowledge-Based Economy, Paris, OECD, 1996, pp. 35-60. ↩
- Cfr. D. Bell, The coming of post-industrial society: A venture in social forecasting, New York, Basic Books, 1973. ↩
- Su queste tematiche, cfr. P. Drucker, Post-capitalist Society. New York, Harper Collins, 1993; inoltre I. Nonaka e H. Takeuchi, The knowledge-creating company, New York, Oxford University Press, 1995 e L. Prusak, Knowledge in Organizations, Boston, MA Butterworth-Heinemann, 1997 ↩
- W. Powell e K. Snellman, op. cit., p. 201. ↩
- Cfr. A. Burton-Jones, Knowledge capitalism: business, work and learning in the new economy, Oxford, Oxford University Press, 1999. ↩
- Cfr. World Bank, World Development Report: Knowledge For Development, Oxford, Oxford University Press, 1998. ↩
- Cfr. OECD, The Knowledge-based Economy, Paris, OECD, 1996. ↩
- Cfr. W. Powell e K. Snellman, op. cit. ↩
- Si veda ad esempio UNESCO, Towards knowledge societies: UNESCO world report, Paris, UNESCO Publishing, 2005, p.18; la definizione dell’UNESCO è «simultaneous growth of the internet, mobile telephony and digital technologies with the third industrial revolution – which, at first in the developed countries, has seen much of the working population migrate to the service sector – has revolutionized the role of knowledge in our societies». ↩
- Cfr. J. L.Mateo, Sociedad del conocimiento, in «ARBOR Ciencia, Pensamiento y Cultura», n° CLXXXII (718), 2006, pp. 145-151. ↩
- Ivi, p.149. ↩
- Cfr. M. McLuhan, Understanding Media: The Extensions of Man, New York, McGraw-Hill, 1964 ↩
- Cfr. Z. Brzezinski, Between the Two Ages: America in the Technetronic Era, Harmondsworth. Penguin, 1976. ↩
- Per una sintesi delle varie teorie sulla società dell’informazione e della conoscenza, si veda F. Webster, Theories of the information society, London,, Routledge, 1995. ↩
- Cfr. S. Burch, The Information Society/The Knowledge Societies, 2005: http://vecam.org/article517.html (verificato il 10 ottobre 2012) ↩
- UNESCO, Towards knowledge societies: UNESCO world report, Paris, UNESCO Publishing, 2005 ↩
- Cfr. M. Castells, The Rise of the Network Society, Oxford, Blackwell, 1996 ↩
- A. Alberici, Imparare sempre nella società della conoscenza, Milano, Bruno Mondadori, 2002, p. 4. ↩
- Ibidem ↩
- Ivi, pp. 16-17. ↩
- Cfr. C. Marcelo, Aprender a enseñar para la Sociedad del Conocimiento. «Revista Complutense de Educación», n°12:2, Universidad de Sevilla, 2001, pp. 531-593. ↩
- L’idea di rischio, declinata a partire da vari punti di vista, è centrale nell’elaborazione sociologica sul tema della tarda modernità/postmodernità; su questi temi, si vedano, ad esempio, A. Giddens, The Consequences of Modernity, Cambridge, Polity, 1990, U. Beck, Risk Society: Towards a New Modernity, New Delhi, Sage, 1992 e Z. Bauman, Liquid Modernity, Cambridge, Polity Press, 2000. ↩
- Cfr. A. Hargreaves, Teaching in the Knowledge Society. Technology Colleges Trust Vision 2020 – Second International Online Conference, 13-26 October and 24 November-7 December 2002. URL: http://www.pgsimoes.net/Biblioteca/Hargreaves.pdf (verificato il 10 ottobre 2012) ↩
- H. A. Giroux, Neoliberalism and the Vocationalization of Higher Education: http://www.henryagiroux.com/online_articles/vocalization.htm (verificato il 13 settembre 2012) ↩