Numero 13/14 - 2017

  • Numero 7/8 - 2013
  • Saggi

Glosse femminili alla violenza. Il saggio Sulla violenza di Hannah Arendt e il travaglio della cultura europea: implicazioni educative

di Carlo Cappa

«Mai il mondo è stato più mondo, mai è stato più povero di amore e di bontà.»
Friedrich Nietzsche, Schopenhauer come educatore.

Abstract

Il saggio propone una lettura del tema della violenza a partire dal saggio di Hannah Arendt, Sulla violenza. Attraverso le riflessioni dell’autrice, si ricostruisce una precisa temperie culturale che ha caratterizzato la seconda metà del secolo scorso, gravida di conseguenze educative, specie nel rapporto con le tradizioni che hanno operato una decostruzione della tradizione moderna dell’Europa.

Introduzione

Vi sono alcuni argomenti che sembrano, come argento vivo, sfuggire a qualunque operazione di salda comprensione intellettuale, assumendo differenti fogge a seconda delle epoche e in accordo con la prospettiva dell’osservatore, sia essa disciplinare o personale. Tra questi temi di così difficile trattazione spicca quello della violenza; tante volte al centro della riflessione filosofica e non solo, tale concetto si è prestato ad analisi approfondite e acute, acquisendo uno statuto del tutto particolare e giungendo a presentarsi come un elemento scandagliare il quale significa interrogare qualcosa di prossimo a un delicato strumento di misurazione dell’uomo, capace di fornire un dettagliato ritratto dell’immagine che egli ha di sé. L’ampiezza e la ricchezza polisemica della violenza, a dire il vero, fanno sempre correre il rischio di lasciar scivolare l’interrogazione in una infruttifera vaghezza, provocata dal cercar di leggere fenomeni tra loro profondamente differenti con una medesima categoria concettuale, rendendo quest’ultima, quand’anche assai precipua per decifrare taluni specifici elementi sottoposti a indagine, scarsamente efficace o addirittura fuorviante per dipanare talaltri nodi tematici. Eppure, la violenza deve essere pensata: la realtà, in tal senso, s’impone come richiesta inevasa ogniqualvolta terribili fatti di cronaca scuotono la sensibilità collettiva, lasciando sgomenti di fronte a una brutalità che, indossando maschere delle più diverse guise, torna a far tremare i bastioni che la nostra cultura ha eretto nei secoli per cercare di arginare comportamenti individuali e collettivi abominevoli. Proprio in circostanze di tal fatta, l’emergenza del quotidiano conduce il pensiero al suo problematico limite, postulando che esso si faccia azione o che a essa muova, richiedendo, all’interno di una salda prospettiva assiologica, una solida spinta trasformativa, scommettendo, ancora una volta, su quei valori sempre da rinverdire che hanno forgiato, nel tempo, alti modelli di comportamento. Ciononostante, alcuni ostacoli appaiono come difficilmente superabili attraverso la piana elaborazione teorica propria della filosofia e dell’educazione. In particolare, tra questi, due sembrano ergersi in tutta la loro problematicità riguardo alla violenza: da un lato, la bruciante urgenza di una presa in carico rispetto ai recenti e gravi accadimenti, i quali, specie nella nostra società, coinvolgono donne vittime dell’esplodere di un cieco furore viepiù frequente,[1] dall’altro, la complessità degli elementi in gioco in questo frangente, difficilmente racchiudibili ed esauribili all’interno di un solo ambito, poiché investono la sociologia come la psicologia, l’antropologia quanto la filosofia morale.

Nel presente saggio, si vuole proporre una lettura della violenza a partire dall’opera a ciò dedicata di Hannah Arendt, affinché attraverso la sofferta riflessione di questa autrice si possa giungere a dipanare alcuni temi che hanno prepotentemente caratterizzato il più ampio contesto della cultura del secolo scorso, presentando considerevoli portati educativi, la cui problematicità traspare in tutta evidenza in molte odierne questioni dibattute in ambito pedagogico. Se, infatti, una importante parte della nostra cultura ha cercato, tanto più faticosamente quanto più sono stati dolorosi e drammatici i frangenti storici, di preservare un nobile ideale di uomo, tali sforzi resterebbero muti senza il fondamentale contributo della pedagogia, non già limitata a farsi portatrice di modelli elaborati altrove, bensì implicata in modo coessenziale nel tracciare possibili percorsi all’umanità dell’uomo. Lo studio in chiave pedagogica della complessa eredità del XX secolo, quindi, si pone oggi come compito ineludibile per poter comprendere le difficili dinamiche contemporanee e per riuscire, con piena consapevolezza, a rinsaldare quello sguardo sulla condizione umana che è stato nutrito e sorretto dalle profonde meditazioni della nostra tradizione culturale. Non si condurrà, quindi, nelle pagine che seguiranno, un’analisi della violenza attraverso l’approccio di genere nel senso di uno studio delle donne quali vittime di soprusi o di atti criminali; diversamente, ci si porrà all’ascolto di una voce femminile per comprenderne le specificità, per poi ampliare l’orizzonte dei riferimenti e mettere le sue parole in conversazione con quelle di altri autori così da mostrarne vicinanze e distanze.

Ambiguità di un termine, complessità della tradizione

La violenza è stata sempre al centro della riflessione sull’uomo, prestandosi a essere variamente interpretata, appaiandosi a categorie concettuali proprie della filosofia politica.[2] Un’ambiguità strutturale, questa, che ha serpeggiato in molte delle pagine dedicate a tale tema, ambiguità che si ritrova nell’etimologia stessa del termine, che ben ne mostra, con la duplicità della sua radice, la pluralità di lezioni che ne sono state tratte. Violentus, infatti, viene da vis: forza decisa e propulsiva, vigore e possanza, virtù virile di comando e conduzione, capace di risolvere la situazione incerta o di tagliare il nodo gordiano del dubbio, propendendo per un’accezione essenzialmente positiva. La radice vi- o gvi-, a seconda delle lezioni, però, rimanda all’azione dell’opprimere, all’atto del distruggere, cosicché vis è anche ciò che vince, opprime o distrugge, che unendosi alla terminazione -ulentus, denota eccesso, sproporzione. La forza del violento può essere sì risolutiva, ma al contempo rappresentare un oltrepassamento del limite legittimo, travalicando la liceità dell’azione e arrivando a essere distruttiva affermazione che nulla ha a che vedere con la salda vigoria che incita all’esercizio del coraggio, intrecciandosi così a una furiosa e ribalda hybris.

La duplicità dischiusa dall’etimologia del termine si è incarnata nelle numerosissime teorizzazioni che si sono succedute nel corso dei secoli, oscillando in rappresentazioni dell’uomo come costantemente preda di due nature contrastanti. La violenza, infatti, ha trovato il suo campo d’elezione principalmente nell’epopea della guerra, nella lunga storia della distruzione che dall’epica omerica, attraverso le tesi di Machiavelli e le analisi di Carl Schmitt, giunge fino alle provocatorie e acute pagine di Hans Magnus Enzensberger. Nella sua breve opera Il perdente radicale, il poeta tedesco mostra quanto sia dirompente la violenza verso l’altro, contro il nemico, quando si trasforma in annientamento del proprio corpo, come nel caso dell’attentatore suicida, proponendo una rappresentazione del proprio sacrificio quale atto estremo contro un’ingiustizia e una diseguaglianza avvertite come sempre più insopportabili e, assieme, incessantemente portate alla luce e ribadite attraverso tutti gli attuali mezzi d’informazione globali. L’anomia teorizzata da Émile Durkheim si fa cappio sempre più soffocante, conducendo a una delusione inemendabile, ove lo sterminio è approdo giustificabile in un’ottica distorta per la quale ogni progresso della società è solo, per una parte del mondo che se ne vede esclusa, un altro chiodo infisso sulla bara delle proprie speranze.[3] Di fronte a questo completo rivolgimento, le normali categorie del pensiero politico scricchiolano, mostrando la problematicità della dimensione impolitica della posizione del perdente radicale, il quale si rivela immune alla pacificazione attraverso il compromesso, all’acquietamento veicolato dall’accordo raggiunto, poiché è l’annientamento dell’altro e di sé l’unico orizzonte che potrebbe placare la sua volontà d’annichilimento.[3] Il gioco di maschere della violenza, che la rende così sfuggente a qualunque definizione univoca, occupa la scena anche del recente testo di Adriana Cavarero,[5] permettendo un rilevante avvicinamento alla questione del genere. In questa opera, infatti, l’autrice invita a un ripensamento delle categorie della filosofia politica attraverso una lettura che parta dal punto di vista degli inermi, scoprendo questi nelle vittime sacrificali di conflitti che sempre più si accaniscono sulla popolazione civile. Tali conflitti, infatti, comportano una duplice dinamica che agglomera in un’esplosiva contraddizione la sparizione del corpo del soldato, fino all’utopia delle guerre con neppure un morto tra le truppe armate,[6] e la contemporanea rilevanza estrema del corpo degli attentatori suicidi, che si fanno strumenti di morte, tornando così a ribadire una centralità che si desiderava meschinamente accantonare come scomoda o insopportabile. Il cambiamento di prospettiva conduce in tal modo alla proposta di un neologismo, titolo del testo, che renda conto della mutevolezza del tema della violenza che, per Cavarero, può essere iscritto nel termine orrorismo, il quale avrebbe il compito di ribadire il non nascondimento della brutalità e della barbarie che si vorrebbero celate attraverso accurate operazioni di offuscamento della sanguinosa realtà degli odierni conflitti che affliggono numerosi paesi del mondo.

La violenza: risorsa di un potere al tramonto

La complessità, confinante in alcuni casi con un’irrisolutezza derivante dai temi analizzati, che attanaglia le letture della violenza fin qui menzionate, si ritrova prepotente anche nell’atmosfera che aleggia nelle pagine di Hannah Arendt, atmosfera sorretta da una prosa spoglia, senza alcuna concessione a orpelli che possano ingentilire un contenuto tendenzialmente cupo, nel quale i concetti sono fatti sfilare davanti agli occhi del lettore a comporre una serrata indagine del proprio tempo. L’autrice incarna, d’altronde, fin dalla sua biografia, molte contraddizioni e ambiguità di un’epoca che ha fatto dell’Europa la fucina di sconvolgenti orrori, duri colpi che si sono riverberati con vigore sull’immagine dell’intellettuale, aprendovi profonde crepe che sono ben lungi dall’essere sanate. Nella lettura della sua opera, è quindi necessario tenere presente questo tremendo frangente storico che ha imposto a tutti la ricerca di una risposta personale per non soccombere di fronte ai fortunali della sorte avversa, una difesa che per molti della sua generazione ha assunto le sembianze dell’emigrazione forzata alla volta degli Stati Uniti. E questo paese, allora, non esercitava affatto l’attrattiva che oggi consideriamo scontata. Sono numerosi i contemporanei che, dall’esilio, alzavano alti lamenti per la nuova condizione, come ad esempio, Ludwig Marcuse (1894-1971) che ci ricorda il sospetto nutrito dagli intellettuali europei verso questo grande paese, mescolando nelle sue parole le aspettative ferite dell’emigrante all’immagine diffusa in seno alla cultura europea[7]. Un altro esponente di spicco della letteratura europea, in fuga questa volta dal comunismo che aveva devastato la sua cosmopolita e raffinata Ungheria, Sándor Márai, in uno dei suoi tanti racconti di viaggio, osservava sconsolato le sale d’attesa degli aeroporti americani, ben diverse dalle eleganti stazioni di sosta europee, giungendo, dal lento declino di quel piccolo frammento di realtà, alla sconfortante considerazione che: «il mondo sta diventando provinciale, in senso cosmico».[8] Il lacerante abbandono del suolo patrio, per di più, si accompagnava con un altro tipo, più intimo, di sofferto straniamento, particolarmente doloroso per gli intellettuali come Arendt, straniamento rappresentato dall’esclusione dal proprio universo linguistico: essere forzati ad apprendere una nuova lingua e a esprimersi con categorie concettuali che non si avvertono come appartenenti al proprio pensiero. Gli Stati Uniti, quindi, erano una patria accogliente, ma quasi mai la patria che si sarebbe voluta e, certamente, non quella che si sarebbe stati pronti a costruire con il proprio contributo personale. Tali tormentose variabili rinfocolarono la disillusa irrequietezza di Arendt che tutt’ora serpeggia nelle sue pagine, conferendo loro un tono che oggi appare tanto dissonante da porre alcuni interrogativi, che diventano scottanti per chi legge questa pensatrice avendo cura di trarne indicazioni preziose per riflettere sull’educazione e sullo statuto che in essa deve ricoprire la tradizione, interrogativi rivolti a una più profonda concezione della cultura e del suo ruolo nella vita civile. Le opere di Arendt, infatti, mostrano tutto il sofferto desiderio di collocarsi all’interno di una tradizione, foss’anche attraverso il suo ripensamento, e, al contempo, di allontanarsi da essa poiché se ne erano potute constatare le drammatiche derive, giunte con il loro venefico influsso fin nelle pieghe della propria intimità. In un ampio arco di tempo che va dalla dissertazione su Agostino[9] del 1929 fin al discorso Le grand jeu du monde del 1975, l’autrice non è mai venuta meno a un confronto serrato, a un vero e proprio corpo a corpo con la tradizione europea, tanto con quella più classica quanto con quella problematica rilettura che ne avrebbero compiuto gli autori a lei contemporanei.[10] Inquietudine e ambiguità non si limitano soltanto a essere presenti nelle opere dell’autrice: è a quel complesso amalgama di esperienza vissuta nel presente e di passato riletto attraverso un indefesso commercio con la cultura, con la storia e la sua narrazione, è, insomma, a quell’orizzonte del reale, da Arendt definito, in modo suggestivo, mondo, che bisogna guardare per avere contezza di quanto queste due dimensioni si facciano elementi strutturali della sua biografia.[11] Apolide ed ebrea, libera intellettuale e docente universitaria, sempre pronta a ribadire un riottoso distacco dalla vita pubblica e fermamente infissa nella vita culturale degli Stati Uniti e dell’Europa, l’esistenza di Arendt sembra essersi sviluppata in un continuo andirivieni tra poli opposti,[12] tutti sfiorati in tempi e modi differenti ma tra i quali nessuno ha rappresentato un porto sicuro nel quale risiedere per troppo tempo.[13]

Di questo instancabile peregrinare, tra luoghi e idee, gli Stati Uniti hanno rappresentato una tappa significativa, costituendo altresì la scena degli avvenimenti che misero in moto la riflessione dell’autrice sul tema della violenza, episodi che si trovano menzionati già nelle prime pagine dell’opera. Il testo, infatti, fu composto sul crinale di un delicato momento della vita di questo paese che assistette, alla fine degli anni Sessanta, alle tumultuose azioni dei movimenti per i diritti civili[14] e alle combattive dimostrazioni delle rivolte studentesche. Arendt prende spunto da tale spaccato per condurre un’accurata analisi di filosofia politica,[15] cogliendo temi ampiamente dibattuti, tanto in Europa quanto nel continente nel quale risiedeva, e che trovarono importanti interpreti che con le loro parole avrebbero condizionato non solo la discussione intellettuale ma anche l’azione civile. Tra questi autori, un ruolo di primo piano è senza dubbio giocato da Jean-Paul Sartre, autore di una prefazione, che fece scalpore a livello europeo, al testo di Frantz Fanon, I dannati della terra, pubblicato per la prima volta nel 1961.[16] Quella che è presentata nel saggio Sulla violenza, è un’attenta disamina nella quale l’approfondimento teorico è sempre animato dal desiderio di comprendere le urgenze della realtà, mostrando la cogenza della visione dello sviluppo della storia come evento. Pensare la storia per fratture, per inediti accadimenti che non s’iscrivono obbligatoriamente in uno sviluppo lineare nel quale ciò che viene prima fornisce sempre tutte le variabili per prevedere ciò che avverrà in seguito: questo significa costringere il pensiero a fuoriuscire da qualunque visione giustificata in chiave teleologica, cercando le categorie concettuali, gli strumenti per decifrare gli accadimenti nella loro propria unicità. In tal modo, il pensiero risiede saldamente nel presente dell’evento,[17] ponendosi come complessa e problematica cerniera tra passato e futuro.[18]

Ed è in questo senso che la sua opera, ancora oggi, può dirci qualcosa sul nostro mondo, sulle sue contraddizioni, dischiudendo possibili percorsi per affrontare dubbi e difficoltà. Un ruolo che la filosofia ha sempre svolto e che, in questo momento storico in cui è più che necessaria una seria riflessione sulle finalità dell’educazione, non può essere dismesso a favore di una scarsa presa in carico della nostra tradizione. Anche in questo caso, Arendt rappresenta un fulgido esempio di un pensiero che non si è ritratto sotto il velo fascinoso ma spesso inconcludente di una poetica oscura e drammaticamente separata dal senso comune, che negli anni successivi alla sua morte avrebbe favorito il sorgere di un’immagine di questa disciplina polverosa e arcigna o elitaria e refrattaria a insegnare qualcosa per la vita, con un vocabolario ostico se non addirittura criptico. Ma non è detto che la filosofia debba oggi presentarsi obbligatoriamente con questo volto: essa è sempre stata la più sociale e urbana tra le discipline, fatta dagli uomini per gli uomini,[19] e non ha mai né disdegnato di partecipare a convivi né si è rifiutata, se solo glielo si è permesso, di accompagnare l’uomo in ogni circostanza della vita. Anche se non immediatamente facile, il suo fine è la piacevolezza.[20]

La struttura del saggio Sulla violenza, cadenzata in tre capitoli, è relativamente lineare: Arendt denuncia inizialmente l’impossibilità di utilizzare ancora le teorie politiche che hanno rappresentato la violenza come uno strumento del potere, tanto affine a questo da risultarvi strutturalmente e ontologicamente legato. Lo sviluppo della tecnica negli armamenti bellici e l’equilibrio internazionale stabilitosi dopo la Seconda Guerra mondiale, in particolar modo identificato con la Guerra Fredda, sarebbero i principali elementi che renderebbero inutilizzabili le tradizionali letture della filosofia politica. Ma non soltanto: in questo mutato scenario sarebbero completamente velleitarie anche le pretese avanzate da chi con smaccata protervia si volesse arrogare il diritto di presentarsi come esperto nella previsione degli eventi futuri, poiché questi sono del tutto incerti. Le teorie, spesso costruite con una radicale messa tra parentesi della realtà, sarebbero solo, per l’autrice, delle letture pseudoscientifiche che hanno l’effetto di addormentare il senso comune dei cittadini.[21] In questo approccio alla tematica della tecnica e alla figura dello specialista si può avvertire facilmente tutta la sofferta vicinanza dell’autrice a specifiche posizioni di Heidegger. Tecnica e un vacuo approccio specialistico separerebbero gli individui dalla possibilità di presa sul dato del reale, poiché lo avvolgerebbero in quella ingannevole bambagia che ne attenuerebbe i tratti appartenenti a esso e ad esso solo, gli unici rilevanti per una comprensione situata e atta a tradursi in azione. Le trasformazioni della violenza, invece, richiedono proprio la capacità di porre in discussione le precedenti letture di questo fenomeno: Arendt, in poche e dense pagine, mostra come l’impatto della Seconda Guerra mondiale e la proliferazione delle armi di distruzione di massa abbiano consegnato ai giovani impegnati nelle rivolte studentesche un senso del rischio della fine dei tempi,[22] dell’annientamento totale, un sentire che incide in profondità sui movimenti sociali da lei osservati.

Tali rivolgimenti, la cui portata non cessava di suscitare sconcerto tra gli intellettuali del tempo, sembrano condurre a un crollo della gloriosa tradizione europea che pare, ad Arendt, completo, sicché anche l’idea di progresso, che ha in precedenza guidato tanto pensatori conservatori quanto filosofi progressisti, si è fatta inservibile. L’affermazione è lapidaria: «Il progresso, in altre parole, non può più essere usato come criterio in base al quale valutare i processi di cambiamento disastrosamente rapidi che abbiamo messo in atto».[23] Naturalmente Arendt non giunge al compiaciuto nichilismo ostentato da alcuni suoi contemporanei, ma la sua analisi resta dura e impietosa. È rilevante notare nella critica all’ideologia del progresso la continuità con l’impostazione data nelle prime pagine dell’opera: qualunque visione del progresso, infatti, per Arendt, impedirebbe il manifestarsi di qualcosa di completamente nuovo e inatteso,[24] creando l’illusione di una linearità che, fin troppo spesso, è stata volta a giustificare azioni di mantenimento dello status quo. L’accelerazione impressa dalle scienze naturali ha rappresentato, per altri versi, il rinsaldarsi della fede nel progresso, poiché il loro sviluppo ha assecondato la chimerica visione di un’emancipazione universale. Questa pretesa, però, è doppiamente fallace: Arendt ne mina, innanzitutto, la certezza – non è affatto detto che questo sviluppo possa continuare – e, subito dopo, ne mostra la mancanza di correlazione con un portato morale, poiché il progresso scientifico ha cessato di riverberarsi in un miglioramento per l’umanità, minacciandone, invece, nel caso degli armamenti nucleari, la sopravvivenza stessa.

In questo desolato orizzonte, da lei richiamato in più opere, tra le quali, per la complementarietà dei temi trattati in essa e in Sulla violenza,[25] riveste una particolare importanza L’umanità in tempi bui, saggio dedicato alla figura di Lessing, l’autrice reputa che s’imponga come necessaria una messa a fuoco di concetti dati troppo spesso per scontati. Per far questo, Arendt rivolge il suo sguardo al concetto di politica della tradizione della polis greca e della civitas romana.[26] Ciò le permette di presentarci un’idea di potere del tutto separata da quella di violenza, poiché il primo è identificato come un’iniziativa collettiva, che deriva dall’azione di concerto della maggioranza dei cittadini; sono loro a conferire potere al potere,[27] così come essi possono invalidarlo e sottrargli la sua ragion d’essere, facendogli mancare il loro essenziale consenso. In questa ottica, la violenza non è altro che una risorsa strumentale, impiegata da un potere esautorato per imporsi e sopravvivere, e dunque si può concludere che:

politicamente parlando è insufficiente dire che il potere e la violenza non sono la stessa cosa. Il potere e la violenza sono opposti; dove l’una governa in modo assoluto, l’altro è assente. La violenza compare dove il potere è scosso, ma lasciata a se stessa finisce per far scomparire il potere.[28]

La violenza non è connaturata al potere, ma non può essere per questo uno strumento legittimo di chi si oppone allo status quo, poiché le manca la possibilità di modificare positivamente la realtà. Essa può certamente incidere sulla situazione in cui si esercita, ma non può provocare altro che un’accentuazione della violenza stessa nel mondo. Si può ammettere, secondo l’autrice, una reazione violenta ai soprusi o all’ipocrisia subiti, anche perpetrati da uno stato burocratizzato e impersonale come quello che le sembra di scorgere come forma di governo prossima ventura, ma questa violenza ‘di reazione’ deve essere di breve durata, strumentale, per l’appunto.[29] Tale desiderio di separare questi due concetti, potere e violenza, e la preoccupazione per la burocratizzazione delle strutture di governo sono elementi restati al centro delle riflessioni di Arendt fino alla fine della sua vita, tanto che li si può ritrovare nel suo ultimo breve discorso, pronunciato nel 1975, anno della sua morte, nel corso delle celebrazioni per il ritiro del premio Sonning, a Copenaghen.[30] In questa occasione, l’autrice, ricordando l’esempio offerto dalla Danimarca riguardo al trattamento degli ebrei durante la Seconda Guerra mondiale, ravvisava nel comportamento concorde e coeso dei danesi una dimostrazione del potere che s’oppone alla follia nazista.

La condanna della violenza, quindi, è netta, tanto che è negata anche la validità politica di quella fratellanza che Arendt riconosce nascere all’interno delle comunità perseguitate, quando, di fronte all’esclusione dalla vita civile, nella perdita di quel mondo che può nascere solo dalla condivisione, gli uomini si stringono naturalmente gli uni agli altri, avvertendo una calda complicità e un compartecipe volere. Questa fratellanza, infatti, è troppo precaria perché possa dar vita a un progetto di diverso respiro.[31] È fin troppo trasparente, in questo caso, il riferimento alle esplosioni di violenza che costellavano gli inquieti anni nei quali il testo veniva composto. Desta sincera ammirazione lo sforzo compiuto dall’autrice per mantenere un arduo equilibrio tra l’evidente simpatia umana per coloro che volevano forzare la mano alla politica statunitense e la scarsa fiducia riposta nelle manifestazioni di violenza di cui percepiva la rischiosa attitudine a essere prede di derive pericolose e incontrollate. Una ricerca di equilibrio questa che, pur non scivolando nell’indecisione o nella vaghezza, data la condanna della violenza quale sistematico strumento politico, lascia trapelare il desiderio di, per usare la sua espressione, «pensare senza balaustra»,[32] attualizzazione ben più sofferta del Selbstdenken di Lessing, volontà di accettare le contraddizioni e la complessità del reale, che non si lascia iscrivere, se guardato da vicino, in nessuna facile e univoca categorizzazione. Un pensare per sé, quindi, che è esattamente il contrario della chiusura nella torre d’avorio o del ripiegamento in sé per trovare una dimensione più autentica, configurandosi invece come radicale apertura al mondo e proposito di vivere pienamente in esso.[33]

Sarebbe legittimo chiedersi, allora, dove si potrebbero trovare i presupposti per la costituzione di quella volontà comune che, sola, può dar luogo a un potere libero, almeno in parte, dalla violenza.[34] Arendt lascia sospeso tale interrogativo, demandando ad altri testi una possibile chiave per stemperare il plumbeo tenore di queste pagine e per identificare uno spirito di comunità che si sottragga a un procedere del progresso cieco e senza limiti, come quello della tecnica, o impersonale, come nel caso della burocrazia.

Essere amici per vivere nel mondo

Per trovare una fiaccola nei brechtiani tempi bui da lei vissuti, Arendt preferisce abbandonare la mera elaborazione teorica e procedere riflettendo sull’opera e sulla figura di altri pensatori, istaurando così un dialogo a distanza foriero di un tono più disteso e, se si vuole, propositivo.[35] In particolare, è nella lettura di Lessing, svolta nel 1959, a cui si è già fatto riferimento, che si trovano le indicazioni più preziose per riuscire a sviluppare alcuni dei concetti fin qui analizzati. Il confronto con questo caposaldo dell’Illuminismo tedesco è, infatti, il momento propizio per l’autrice per puntualizzare la sua sfiducia verso quell’idea di fratellanza come sentimento nato dai momenti più tetri della storia, concludendo che:

La “natura umana” e il corrispondente sentimento di umanità si manifestano solo nell’oscurità e non possono quindi venire individuati nel mondo. Inoltre, in condizioni di visibilità si dissolvono nel nulla come fantasmi. L’umanità degli umiliati e offesi non è mai sopravvissuta all’ora della liberazione neppure per un minuto.[36]

Come si può osservare, tale posizione è perfettamente in linea con quella espressa dopo più di dieci anni nel saggio Sulla violenza. Nell’attento ascolto di Lessing, però, questa considerazione disillusa non domina più la scena; accanto a essa, infatti, vi è il desiderio di affrontare il passato, per quanto tragico esso sia stato, proponendo un percorso effettuato con gli strumenti dell’arte e della narrazione. Sono questi a permetterci, secondo Arendt, di vivere compiutamente, con pienezza e intensità, il senso della storia.[37] È molto pregnante l’immagine che l’autrice tratteggia della narrazione: essa diviene quel momento di consapevolezza che radica gli individui nella loro storia. Una tale funzione rende la narrazione una necessaria premessa per fondare quell’accordo che è il solo presupposto possibile per dar luogo al potere, infatti: «il potere sorge solo là dove delle persone agiscono assieme».[38] Queste affermazioni, d’altra parte, sono preparate da pagine sofferte, nelle quali l’autrice sceglie di definirsi attraverso il suo essere ebrea,[39] non già per rifiutare altre appartenenze, ma per affrontare e fronteggiare la realtà da lei vissuta. Affrontare e fronteggiare: sembra che queste due azioni s’implichino vicendevolmente quando ci si avvicina ad argomenti che toccano così da vicino l’immagine che l’uomo ha di se stesso. Il tema della violenza fa da detonatore per quel conglomerato che s’affastella attorno alla condizione umana, richiedendo prepotentemente che si facciano i conti con elementi scomodi, capaci di risuonare fin nelle pieghe di quei concetti dati per assodati e refrattari a essere posti realmente in discussione.

Ecco che, nel mezzo di un testo dedicato a un autore che funge da fondamento per la cultura tedesca, si scopre di non essersi allontanati affatto dal tema della violenza. Al contrario: in queste pagine se ne osservano gli antidoti, le sole cose che a essa possono davvero opporsi cioè la parola e, attraverso di essa, l’amicizia. Con la medesima strategia adottata nell’avvicinamento e nel ribaltamento della violenza attraverso la costruzione dell’immagine positiva del potere, anche per presentare quella peculiare forma di amicizia che ella identifica come cifra distintiva del lavoro di Lessing, Arendt ricorre alle suggestive assonanze con la tradizione classica. È opportuno precisare che in questi avvicinamenti alle radici della cultura del Vecchio Continente, l’autrice non è mai stata interessata a una ricostruzione filologica dell’eredità greca o latina; piuttosto, ci s’imbatte in una strategia argomentativa di liberi rimandi con i quali il distanziamento dal presente sembra rinverdire concetti e istanze della filosofia, sottraendoli a quella catastrofe dell’Europa moderna più volte richiamata.

Cos’è allora l’amicizia per Arendt? Essa non è una virtù privata, non è quel legame intimo e fortemente elettivo che s’istaura tra due spiriti affini, fondata quindi, seguendo la tradizione aristotelica, sulla virtù e con una chiara vocazione aristocratica, com’è quella affrescata nelle pagine del libro VIII e del libro IX dell’Etica Nicomachea. Diversamente, l’autrice predilige valorizzare il versante politico di questo sodalizio, presente soprattutto in alcuni passi del De Amicitia di Cicerone:[40] in questo modo, l’amicizia diventa un legame che permette il formarsi del potere, poiché gli uomini, attraverso l’utilizzo della parola, rinsaldano quell’unione che permette loro di vivere pienamente il mondo. Il disincanto dell’autrice le impedisce di porre i suoi passi su quella nobile visione dell’amicizia come incontro perfetto tra due anime,[41] obbligatoriamente limitato a pochi individui, poiché presuppone l’affidarsi completamente all’altro. Nel far questo, però, sembra nobilitare le amicizie nate in vista dell’utilitas, rendendole, proprio perché rivolte a qualcosa di esterno da raggiungere e per questo situate, un legame che fa uscire il soggetto da sé, fondando così il presupposto per l’azione e per il cambiamento. Il concetto di koinonia si amplia, svilendosi, ma al contempo riuscendo ad aspirare a un’universalità che rende il sodalizio umano un orizzonte trasformativo che può iscriversi in un ripensamento della politica.[42]

La narrazione, la parola: Arendt è molto insistente nell’offrire al suo ascoltatore un affresco univoco e vibrante di questa risorsa tutta umana. L’uomo dei suoi testi è costretto a vagare per un mondo fatto di macerie, ove tutte le verità date per assodate nei secoli precedenti sono state scosse ab imis fundamentis, fino ad abbatterle. Questa realtà bruta è inospitale e, per più di un tratto, ostile, tanto che come tale non si dà all’uomo quale sua possibile dimora. Le cicatrici lasciate dal Novecento sono evidenti, così come è palpabile lo scoramento di fronte a una storia che, pur potendo essere rivissuta attraverso la narrazione, per non perderne la memoria, sembra sottrarsi alla ricerca di un senso che ne possa dare ragione. Su questo infelice scenario, nel quale, come ebbe a dire più volte, «ciò che è andato storto è la politica», però, Arendt non accetta di veder calare una volta per tutte il sipario. Questo sentimento di indomita rivalsa non sembra poter giungere ad assumere le sembianze della speranza; sicuramente, però, si può rintracciare nelle opere di questa autrice un forte anelito verso qualcosa che possa rendere umano l’inumano. Ed è esattamente questo il ruolo conferito alla parola: l’uomo fa sì che il mondo sia abitabile, lo costruisce e lo condivide, soltanto nel dialogo istaurato con l’altro, nell’accogliente cornice dell’amicizia. In questa posizione di Arendt si può ravvisare un utilizzo, certo parziale, ma davvero efficace, dell’atipico illuminismo di Lessing: l’autore di Nathan der Weise (1779), che propugnò l’amicizia quale sentimento di solidale unione tra gli uomini a prescindere dai loro credi politici e religiosi, diventa così colui «la cui sola preoccupazione era di umanizzare l’inumano con un incessante parlare sempre ricondotto alle vicende e alle cose del mondo».[43]

Vi è una forte complicità tra Arendt e Lessing, si può intuirla nella ricerca compiuta dall’autrice di punti di contatto che potessero andare ben al di là del semplice apprezzamento, identificando quei tratti che si prestassero a un’operazione definibile come quasi mimetica, di piena adozione del pensiero dell’illuminista. Tra queste importanti sovrapposizioni, ve n’è una che riguarda specificamente l’amicizia. La possibilità di ‘umanizzare l’inumano’ non può essere pensata come obiettivo raggiungibile semplicemente attraverso qualsiasi forma di dialogo. Nonostante Arendt ampli molto la base dell’amicizia che propone nella sua opera, prospettando un’unione tra individui rivolta ad azioni concrete nel mondo, ella stessa si sente in dovere di definire almeno una importante condizione senza la quale la parola, ebbene sì, anche questo potente strumento dell’uomo, potrebbe degenerare, conducendo al vestibolo delle stanze di Marte, ingenerando ostilità e conflitti. Qual è dunque questa sola condizione affinché la parola si faccia legame tra gli uomini e argine alla violenza? È che la parola non pretenda di essere portatrice di un’unica e conchiusa verità. Il nucleo di questo forte relativismo è certo da rintracciare nelle pagine di Lessing, ma Arendt accentua la dimensione di estrema apertura propria del pensiero di questo autore.

Il relativismo, come condizione per rischiarare i tempi bui, si presenta così al lettore come un duplice movimento: da un lato, accantona la pretesa di giungere a una verità assoluta e incontrovertibile, sia essa trascendente o appartenente al mondo degli uomini, dall’altro, permette e stimola la disputa, relegando nel dimenticatoio la possibilità di un perfetto accordo tra tutti.[44] A differenza di quello che si potrebbe pensare, infatti, l’accordo non è affatto visto come un traguardo il cui raggiungimento coronerebbe un auspicabile percorso. Al contrario: è proprio nella disputa, in quella rispettosa contesa che anima la conversazione, che si può raggiungere quella condivisione e quel rispetto per l’altro che rappresentano le coordinate per costituire la positiva reciprocità dell’amicizia. Proprio nelle ultime pagine del suo discorso, Arendt ribadisce quanto possa essere pericolosa l’ipotesi, di certo puramente teorica, di un perfetto accordo tra tutti: «Se ciò accadesse, il mondo, che si forma solo nell’intervallo tra gli uomini nella loro pluralità, scomparirebbe dalla faccia della terra».[45] Come già detto, il mondo, per Arendt, non è la mera realtà data, poiché essa, di per sé, è inospitale e ben poco umana, bensì il mondo è quello spazio che si costruisce assieme, attraverso il dialogo, nutrendo per mezzo di una parola aperta al confronto quella preziosa virtù che è l’amicizia, la sola che possa disinnescare la violenza, la quale, fin troppo spesso, diventa principale tratto della realtà.

Si può smettere di pagare il debito?

Si è deciso di intitolare questo saggio Glosse femminili alla violenza, poiché si desiderava di porre in evidenza, fin dall’inizio, come il pensiero di Arendt si costruisse attraverso un costante dialogo: un dialogo intrapreso con autori dalle cui idee ella si vuole distanziare, fino a giungere a invalidarne le posizioni, come nel caso di Jean-Paul Sartre, o un dialogo condotto sul filo dell’identificazione, mai né completa né pedissequa, come nella lettura di Lessing. Quale che sia la forma del dialogo scelta, però, ciò che l’autrice non fa mai affievolire è l’attento ascolto dell’altro, la creazione di quel clima di amichevole condivisione che ella stessa ha identificato e proposto come compito altamente umano. Questo suo insegnamento, questa sofferta eredità, si offre ancora oggi come prospettiva di grande integrità e di completa dedizione alla missione, sempre da iniziare nuovamente, di ‘umanizzare l’umano’. La sua attenzione per la realtà in quanto tale, per il mondo nel suo concreto accadere è viatico per affrontare il nostro presente, quand’anche esso apparisse privo di senso e senza speranza, come nelle occasioni in cui la cronaca narra gli orribili atti di violenza feroce e gratuita sulle donne.

Nel percorso compiuto tra le pagine di Arendt, inoltre, si può rintracciare un altro movimento del suo pensiero, particolarmente significativo, perché condiviso con numerosi suoi contemporanei, e di grande impatto, anche oggi, per l’educazione. L’autrice è, infatti, del tutto consapevole di star inferendo un durissimo colpo alla tradizione dell’Europa moderna, un attacco che, nel caso degli argomenti qui trattati, si sviluppa attraverso due strategie, una più scoperta, l’altra meno evidente ma non per questo meno efficace, entrambe strategie che, se lette con una sensibilità pedagogica, rivelano tutta la loro carica dirompente. La prima riguarda la critica, presente nel saggio Sulla violenza, alla nozione di autorità: rispetto all’adamantina chiarezza con la quale Arendt affronta gli altri concetti sui quali indugia – potere, forza e violenza – le righe dedicate all’auctoritas risultano più sfumate, lasciando trasparire una baldanzosa insofferenza per un rapporto di forza che si ritiene sbilanciato e limitante per la propria autonomia di pensiero, tanto che gli si oppone lo strumento liberatorio e anarchico del riso.[46] La seconda, quella più velata, s’incontra in un riferimento all’opera e allo sviluppo della personalità di Lessing: commentando il rapporto con il mondo e la società a lui contemporanei, Arendt sottolinea come, a causa degli stravolgimenti che il tempo a portato con sé: «Nel nostro secolo, persino il genio ha potuto svilupparsi solo in conflitto con il mondo e la sfera pubblica, per quanto egli abbia sempre trovato il suo peculiare accordo con la società».[47] Da un lato, l’autorità come eredità accumulatasi nei secoli è imbelle a fornire quella guida necessaria per orientare il pensiero e l’azione in un presente desideroso di futuro, dall’altro, il sogno così spiccatamente tedesco di una Bildung che si traducesse in accordo tra il soggetto e il mondo è infranto e dismesso come inattingibile.

Arendt affronta e fronteggia il tema della violenza, è vero, e lo fa costruendo un concetto di amicizia la cui proposta, però, ha un prezzo molto alto, quello della radicale messa sotto accusa della nostra tradizione culturale. Vi sono ovviamente molte ragioni storiche per spiegare questa dura critica che troppo spesso, specie in autori più vicini a noi, è scaduta in secco e sterile rifiuto. Il desiderio condiviso da numerosi intellettuali di oltrepassare la tragedia della Seconda Guerra mondiale ha assunto sovente le sembianze di un guerreggiare con la tradizione che, giustificato nel preciso momento storico del suo sorgere, ha comportato nei decenni successivi conseguenze delle quali non si era avuta, forse, al tempo, piena contezza. In particolare, sul versante educativo, la messa in scacco dell’autorità ha trovato interpreti pronti a confondere le acque, attribuendo un’eguale negatività a tutte le forme di autorità, agglutinate attorno a una visione negativa del potere quale strumento di controllo e di limitazione della singolarità individuale. Allo stesso tempo, il relativismo che, in autori come Lessing e molti suoi epigoni, era tragica ricerca della verità e non certo liberatorio abbandono di essa, si è tramutato in una triviale indifferenza verso dimensioni profonde dell’uomo, in uno sguardo banalizzante che ha fatto del livellamento culturale uno stendardo dietro il quale muovere verso una progressiva futilità del pensiero. Una sistematica politica del sospetto si è tramutata pian piano in una incapacità di distinguere e di selezionare ciò che è necessario coltivare come essenziale dono del passato per il presente, affinché si possa rendere ancora umano il nostro mondo, preferendo a tali impegnativi processi il più stolido rifiuto generalizzato di ciò che ci ha preceduto, bollato con l’infamante marchio di un discriminante elitismo o di una imbelle inattualità. A questa visione della cultura, il cui crepuscolo mette seriamente a repentaglio la visibilità di autori cardine per la tradizione europea,[48] è subentrato il torbido e indifferenziato oceano di una produzione culturale volta a una facile e immediata fruizione, incapace di fungere da guida e di nutrire un vigile spirito critico che coniugasse eticità e rigore.

Oggi, tuttavia, rispetto agli anni in cui ha scritto Arendt, il mondo è radicalmente mutato e, forse, si può iniziare a recuperare una visione positiva della nostra eredità culturale, consapevoli di come, negli ultimi trent’anni, estremizzazioni compiaciute e tracotanti siano sfociate, anche in ambito educativo, in angusti e mortificanti vicoli ciechi. Non si tratta, sia ben chiaro, di tornare indietro: per quanto affascinante, è oramai troppo lontana dalla sensibilità odierna la rassicurante immagine lucreziana della conoscenza come saldo riparo dal quale osservare i violenti marosi che tengono in pugno uomini meno fortunati o più incauti.[49] Sarebbe ugualmente sbagliato, però, percorrere il cammino opposto, irrigidendo e uniformando l’eredità culturale del nostro continente per decretarne così il superamento. La scommessa è, invece, evitare queste semplici polarizzazioni per affrontare un percorso attento e consapevole, capace di dischiudere tutta la problematicità insita nelle opere che hanno caratterizzato lo sviluppo dell’Europa, scoprendo in esse quella sensibilità per l’incerto, per il provvisorio, per la varietà che tanto potrebbero essere utili per il presente. Restando in ambito epicureo, ad esempio, finanche la figura del saggio proposta da questa scuola filosofica, che guarda con un sorriso esemplato su quello del suo maestro gli accadimenti del mondo, è così consapevole dell’instabilità che governa il reale da cercare con ferrea disciplina e attenti esercizi quell’ataraxia che è dinamico equilibrio sempre da riafferrare e non certo porto stabile e costante. Ugualmente, la raffinata phronesis dell’etica aristotelica, capace d’inedite gemmazioni nel pensiero stoico, rimanda a una prospettiva di severo controllo di sé e delle proprie passioni, dando luogo a un affresco dell’uomo che dischiude una complessità dai netti chiaroscuri, saldamente radicata nelle trasformazioni e nella mutevolezza del mondo. E gli esempi si potrebbero moltiplicare, in un canto corale nel quale le somiglianze tra le voci non diventano mai tanto significative da annullare le differenze, restituendo a ogni pensatore la propria unicità e il suo inconfondibile timbro. Ciò significa tornare a pensare il rapporto con le differenti tradizioni delle discipline umanistiche, riuscendone ad apprezzarne e a farne gustare la ricchezza, liberandole da una visione mutuata su quella delle altre scienze, ove ciò che è più contemporaneo rappresenta un superamento di quello che l’ha preceduto. Si è consapevoli, naturalmente, di quanto il passato possa rappresentare un pesante e ingombrante bagaglio, ma per poter procedere e affrontare le sfide a venire, non si può liberarsene credendo così di rendere il proprio passo più leggero. Ben diversamente, questo bagaglio deve renderci più forti e capaci, tramutandosi in qualcosa di intimo e di personale, alleggerendosi via via che si fa parte di noi, conferendo alla nostra andatura un passo più lieve. Il bagaglio, quindi, è mappa, è sostentamento che evita l’avere il fiato troppo corto o il venir meno delle forze, consentendoci, lui solo, di procedere più innanzi, rasserenando lo sguardo e permettendoci di apprezzare ciò che di prezioso il passato ci ha regalato.

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  1. La rilevanza nella discussione pubblica del tema del femminicidio e i recenti provvedimenti legislativi che hanno caratterizzato l’azione legislativa del Parlamento su tale questione sono solo le ultime propaggini di una più ampia riflessione che ha visto i contributi di numerosi studiosi appartenenti a diversi ambiti disciplinari. Si segnala, per un approccio di genere al tema della violenza, il recente volume Donne, trasgressività e violenza, a cura di Margarete Durst e Carlo Cappa, pubblicato dall’editore ETS di Pisa nel 2012.
  2. Sono molto interessanti le considerazioni di Massimo Cacciari riguardo all’elaborazione politica di Platone, nella quale rintraccia il desiderio di raggiungere un delicato e dinamico equilibrio tra polemos e stasis: è questa ricerca continua a porsi come necessaria per la molteplicità che dimora nel cuore della polis greca, molteplicità che rende del tutto illusoria qualunque sintesi pacificante. Cfr. Massimo Cacciari, Guerra e mare, cap. II di Id., Geofilosofia dell’Europa, Milano, Adelphi, 2008, pp. 29-78.
  3. Cfr. Hans Magnus Enzensberger, Il perdente radicale, Torino, Giulio Einaudi editore, 2007, p. 12 e segg. Queste posizioni dell’autore sembrano riecheggiare le analisi di Alexis de Tocqueville sulle cause scatenanti della rivoluzione francese contenute nell’opera incompiuta L’Ancien Régime et la Révolution (1856), nella quale lo storico e uomo politico francese identificò proprio il progressivo miglioramento della situazione dei suoi connazionali come la cornice nella quale maturarono i sentimenti di sempre maggiore insofferenza e odio per i soprusi ancora subiti. Si veda, in particolare, il cap. I della seconda parte dal titolo Pourquoi les droits féodaux étaient devenus plus odieux au peuple en France que partout ailleurs.
  4. Cfr. Hans Magnus Enzensberger, Il perdente radicale, Torino, Giulio Einaudi editore, 2007, p. 12 e segg. Queste posizioni dell’autore sembrano riecheggiare le analisi di Alexis de Tocqueville sulle cause scatenanti della rivoluzione francese contenute nell’opera incompiuta L’Ancien Régime et la Révolution (1856), nella quale lo storico e uomo politico francese identificò proprio il progressivo miglioramento della situazione dei suoi connazionali come la cornice nella quale maturarono i sentimenti di sempre maggiore insofferenza e odio per i soprusi ancora subiti. Si veda, in particolare, il cap. I della seconda parte dal titolo Pourquoi les droits féodaux étaient devenus plus odieux au peuple en France que partout ailleurs.
  5. Adriana Cavarero, Orrorismo ovvero della violenza sull’inerme, Milano, Feltrinelli, 2007.
  6. Posizione in aperta polemica con l’impianto ideologico e con la strategia comunicativa creati dagli Stati Uniti in occasione delle due guerre condotte nel Golfo.
  7. Ludwig Marcuse: «Chi è giovane oggi non può immaginare che cinquant’anni fa un europeo istruito vivesse in un mondo il cui epicentro era Parigi; New York e l’area coloniale circostante erano più lontane dell’Africa (…) Erano dunque queste le premesse della mia immagine dell’America: grattacieli tra i quali innumerevoli individui, in anguste forre dove non giunge mai il sole, strisciavano facendo incetta di dollari» cit. nella pref. di Gabriele Pedullà a Felix Gilbert, Machiavelli e Guicciardini. Pensiero politico e storiografia a Firenze nel Cinquecento, Milano, Giulio Einaudi editore, 2012, p. XIV.
  8. Sándor Márai, Il vento viene da ovest, Milano, Mondadori, 2009, p. 54.
  9. Per un circostanziato approfondimento di questo primo lavoro svolto in ambito universitario da Arendt, si veda il recente testo di Maria Letizia Pelosi, Mondo e amore. Hannah Arendt e Agostino, Casoria, Loffredo, 2011.
  10. Laura Boella: «Hannah Arendt presenta l’ambiguità come cifra del suo rapporto con la tradizione, la storia, la cultura. In questo modo, esse vengono a rappresentare l’orizzonte entro cui la singolarità è ricompensa, ma in un rapporto aperto e asimmetrico, poiché, così come la singolarità può non trovare posto in essa, la storia può anche “insegnare qualcosa di nuovo”, ossia sorprendere, desituare l’esperienza soggettiva», Hannah Arendt. Agire politicamente, pensare politicamente, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 53.
  11. In questa cornice, il problematico rapporto con Heidegger, tanto come filosofo quanto in qualità di suo maestro e amante, rappresenta solo un altro tassello, per quanto importante, di una vita che non si è mai tirata indietro dall’accettare le aspre sfide poste dal reale. Su tale legame, si vedano: l’ampia ricostruzione di Antonia Grunenberg, Hannah Arendt e Martin Heidegger. Storia di un amore, Milano, Longanesi, 2009, le belle e appassionate pagine di George Steiner nel capitolo III, Magnificus, del libro La lezione dei maestri, Milano Garzanti, 2004, e la ricostruzione fattane da Laura Boella nel capitolo II, Hannah Arendt scrittrice, di Hannah Arendt. Agire politicamente, pensare politicamente, cit.
  12. Laura Boella: «Rivelandosi inseparabile dal gusto per ciò che è, per il fatto, il fenomeno, l’ambiguità appare dunque l’unica forma possibile dell’esperienza di un presente vissuto a un tempo sconvolgente e inespressivo, sogno o incubo indecifrabile che si sporge su un futuro incerto e a cui corrisponde il rischio del pensare e il limite oltre il quale il sapere non può pretendere di andare», Hannah Arendt. Agire politicamente, pensare politicamente, cit., p. 29.
  13. Affermare questo non vuol dire negare la presenza di costanti nel pensiero dell’autrice; oltre ai temi a lei cari, infatti, anche diverse precise eredità culturali sono state da ella stessa ribadite, quando, facendo i conti con il suo atteggiamento verso la dimensione pubblica propria del ruolo dell’intellettuale, affermò: «Si elles sont acquises durant les année de formation, ces inclinations (tiennent-elles au tempérament? au goût?) que j’ai tenté de situer historiquement et d’expliquer de manière concrète, sont susceptibles d’exercer une influence durable», Hannah Arendt, Le grand jeu du monde, in Esprit, juillet-août, 1982, p. 26.
  14. Tra i quali anche il Black Panther Party, nel quale militò, tra gli altri, James Forman, autore, nel 1969, del Black Manifesto, dove si poteva ravvisare con nettezza un razzismo nero che Arendt stigmatizza come «probabilmente più una reazione alle caotiche rivolte di questi ultimi anni che la loro causa», Hannah Arendt, Sulla violenza, trad. di Savino D’Amico, Parma, Ugo Ganda Editore, 1996, p. 84.
  15. Un’analisi che in molti casi si tinge di radicale rivisitazione dei concetti propri di questa disciplina, tanto da rappresentarne una ridiscussione; questo tratto della sua speculazione filosofica s’accentua specie nei serrati confronti con i contemporanei, tanto d’averla fatta interpretare in alcuni casi come un attacco all’epistemologia stessa della filosofia politica. Cfr. Carole Widmaier, Fin de la philosophie politique? Hanna Arendt contre Leo Strauss, Paris, CNRS, 2012; Miguel Abensour, Hannah Arendt contro la filosofia politica?, trad. di Carlo Dezzuto, pref. dell’autore all’ed. it., postfazione di Mario Pezzella, Milano, Jaca Book, 2010.
  16. L’attuale edizione italiana pubblicata da Einaudi, a cura di Liliana Ellena, riproduce la militante prefazione di Jean-Paul Sartre (pp. I-XXXVIII). Cfr. Frantz Fanon, I dannati della terra, trad. it. di Carlo Cignetti, Milano, Einaudi, 2007.
  17. Cfr. Laura Boella, Hannah Arendt. Agire politicamente, pensare politicamente, cit., pp. 99-118.
  18. La collocazione “tra” passato e futuro e la capacità generativa di un pensiero che in tale frattura si pone sono state ben illustrate nei saggi raccolti nel volume Hannah Arendt. Percorsi di ricerca tra passato e futuro 1975-2005, a cura di Margarete Durst e Aldo Meccariello, Firenze, Giuntina, 2006.
  19. Lucio Anneo Seneca: «Questa strada {della filosofia}, poi, non è così aspra come qualcuno ci vuole far credere. Soltanto l’inizio appare talmente ostruito da rocce e massi da sembrare impraticabile; d’altronde, molti sentieri, da lontano, si presentano scoscesi e inaccessibili solo perché la vista è ingannata dalla distanza. Man mano che ci si avvicina, però, tutto quanto l’occhio incerto aveva sovrapposto e confuso, a poco a poco, si chiarisce: e allora quelli che apparivano dirupi e precipizi si trasformano in dolci pendii», La fermezza del saggio, in Id., Dialoghi morali, trad. di Gavino Manca, intr. e note di Carlo Carena, Milano, Einaudi, 2008, p. 63. Tale immagine paradigmatica della filosofia forgiata da Seneca avrebbe attraversato i secoli giungendo fin nelle pagine più pedagogicamente pregnanti dei suoi lettori rinascimentali, tra i quali si ricorda Michel de Montaigne che, proprio nel capitolo degli Essais, De l’institution des enfants (I, xxvi), oppone questa dolce filosofia a quella per lui trita e asettica della tarda scolastica.
  20. Non bisogna sottovalutare, inoltre, l’influsso esercitato in questa tradizione dalla lezione aristotelica dell’eutrapelia, trattata nell’Etica Nicomachea (II, 7, 1108a 23-24), ricordata da Dante nel Convivio (IV, xvii, 6) e centrale per comprendere l’urbanitas legata alla civiltà della conversazione dell’Europa moderna.
  21. Hannah Arendt: «Il pericolo è che queste teorie sono non solo plausibili, perché confermate da tendenze attuali effettivamente discernibili, ma hanno anche, a causa della loro coerenza interna, un effetto ipnotico; esse addormentano il nostro senso comune, che non è nient’altro che il nostro organo mentale che ci permette di percepire, comprendere e avere a che fare con la realtà e con i fatti concreti», Sulla violenza, cit. p. 11.
  22. Ivi: «Alla domanda che abbiamo sentito tanto spesso: Chi sono coloro che fanno parte di questa generazione?, si è tentati di rispondere: Quelli che sentono il ticchettio», p. 21.
  23. Ivi, p. 35.
  24. Cfr. Andreas Kalyvas, Democracy and the Politics of the Extraordinary. Max Weber, Carl Schmitt, and Hannah Arendt, Cambridge, Cambridge University Press, 2008.
  25. Hannah Arendt: «Le basi delle “verità universalmente riconosciute” (per restare alla sua {di Lessing} metafora), che allora erano state scosse, oggi giacciono in frantumi; non abbiamo bisogno né della critica né di uomini saggi per scuoterle ulteriormente. Basta solo guardarsi intorno per vedere che ci troviamo nel mezzo di un vero campo di rovine», L’umanità in tempi bui. Riflessioni su Lessing, edizione italiana a cura di Laura Boella, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2006.
  26. Il rapporto dell’autrice con l’eredità classica è molto complesso; si veda a tal proposito Silvia Giorcelli Bersani, L’auctoritas degli antichi. Hannah Arendt tra Grecia e Roma, Firenze, Le Monnier Università, 2009.
  27. Hannah Arendt: «è il sostegno del popolo che dà potere alle istituzioni di un paese, e questo appoggio non è altro che la continuazione del consenso che ha dato originariamente vita alle leggi», Sulla violenza, cit., p. 43.
  28. Ivi, p. 61.
  29. Ivi: «La violenza, essendo strumentale per natura, è razionale nella misura in cui è efficace nel raggiungere il fine che deve giustificarla. E dato che quando agiamo non sappiamo mai con un minimo di sicurezza quali potranno essere le conseguenze ultime di quello che stiamo facendo, la violenza può rimanere razionale soltanto se persegue obiettivi a breve termine. (…) E in effetti la violenza, contrariamente a quanto i suoi profeti cercano di dirci, è più un’arma della riforma che della rivoluzione», p. 86.
  30. Hannah Arendt: «J’ai souvent pensé que cette histoire extraordinaire (…) devrait figurer au programme de tous les cours de sciences politiques portant sur les rapports entre le pouvoir et la violence, notions dont on présuppose souvent l’équivalence et dont la confusion constitue l’une des méprises fondamentales non seulement de la théorie, mais aussi de la pratique politique effective», Le grand jeu du monde, cit., p. 23.
  31. Hannah Arendt: «Ma è vero che i forti sentimenti di fratellanza che la violenza collettiva genera hanno tratto in inganno molta brava gente che ha sperato ne potesse nascere una nuova comunità assieme a un “uomo nuovo”. Questa speranza è un’illusione per la semplice ragione che nessun rapporto umano è più precario di questo genere di fratellanza, che può essere messa in atto soltanto in condizioni di imminente pericolo di vita», Sulla violenza, cit., pp. 74-75. Cfr. Ferruccio Andolfi, Hannah Arendt e la critica all’utopia sociale, in Hannah Arendt. Percorsi di ricerca tra passato e futuro 1975-2005, cit., pp. 33-44.
  32. Laura Boella, Hannah Arendt. Agire politicamente, pensare politicamente, cit., p. 27.
  33. Paolo Flores d’Arcais, nella sua raccolta di saggi dedicati ad Arendt, legge questa possibilità di realizzazione di sé nell’agire nel reale come contrapposta al ripiegamento per fini privati propria dell’homo œconomicus della tradizione liberale. Cfr. Paolo Flores d’Arcais, Hannah Arendt.  Esistenza e libertà, autenticità e politica, Roma, Fazi, 2006.
  34. Cfr. Crispin Mpululu Nzolambi, La pluralité humaine comme principe constitutif du politique chez Hannah Arendt. Dignité et fragilité du vivre-ensemble, Roma, Pontificia Università Gregoriana, 2008.
  35. Laura Boella: «I saggi sono pertanto esercizi di pensiero concreto che hanno al centro il rapporto tra soggetto e mondo e raccontano concrete esperienze di pensiero», Hannah Arendt. Agire politicamente, pensare politicamente, cit., p. 73.
  36. Hannah Arendt, L’umanità in tempi bui. Riflessioni su Lessing, cit., p. 68.
  37. Ivi: «Nessuna filosofia, nessuna analisi, nessun aforisma, per quanto profondo, può avere un’intensità e una pienezza di senso paragonabili a quelle di una storia ben raccontata», p. 79.
  38. Ivi, p. 81.
  39. Rivendicazione che accentua anche l’appartenenza di genere, sempre al centro della riflessione dell’autrice, pur attraverso percorsi non certo canonici. Cfr. Sandra Rossetti, La nascita infame. Identità e genere nel pensiero di Hannah Arendt, presentazione di Irene Strazzeri, Roma, Aracne, 2012.
  40. Per le differenti tipologie di amicizia nel De amicitia se ne veda la presentazione per bocca di Lelio nei paragrafi 26-32.
  41. Le amicizie per Aristotele possono declinarsi secondo tre tipologie, tra le quali la prima è quella più pura e raffinata, ma proprio tale carattere ne implica la rarità: «è ragionevole che tali amicizie siano rare: uomini di tal sorta non sono frequenti, e in più tale amicizia ha bisogno di tempo e di consuetudine»; «Distinte in questo modo le specie di amicizia, le persone dappoco saranno amiche per piacere o per utile, dato che sono simili in questi aspetti, mentre i buoni saranno amici per se stessi, perché lo saranno in quanto sono buoni. Questi dunque saranno amici in assoluto, quelli lo saranno per accidente, e per il fatto di somigliare agli altri», Etica Nicomachea, VIII, 1156b, 25-27, e VIII, 1157b, 1-5, trad. intr. e note di Carlo Natali, Roma-Bari, Editori Laterza, 2009, p. 319 e p. 323.
  42. Laura Boella: «Agire è un supremo sforzo di liberarsi da se stessi e dall’ingombro dell’io. (…) Solo accentuando l’incontrollabilità e precarietà dell’azione e sottraendola al regno della volontà, delle sue motivazioni e dei suoi scopi, Hannah Arendt riesce a fare di essa un principio di libertà e non di necessità, un principio politico e non un affare privato», Hannah Arendt. Agire politicamente, pensare politicamente, cit., p. 123.
  43. Hannah Arendt, L’umanità in tempi bui. Riflessioni su Lessing, cit., p. 97.
  44. Ibidem: «Non arrivava mai al punto di rompere effettivamente con un avversario (…) Voleva essere l’amico di molti, ma il fratello di nessuno».
  45. Ivi, p. 99.
  46. Hannah Arendt: «La sua caratteristica specifica è il riconoscimento indiscusso da parte di coloro cui si chiede di obbedire; non si vuole né coercizione né persuasione. (…) Il peggior nemico dell’autorità, quindi, è il disprezzo, e il modo più sicuro per scuoterne le basi è il riso», Sulla violenza, cit., pp. 48-49.
  47. Hannah Arendt, L’umanità in tempi bui. Riflessioni su Lessing, cit., p. 49.
  48. Si pensi alle sconsolate considerazioni di Harold Bloom che constata il beffardo destino di un autore come Thomas Mann che, oggi negli Stati Uniti, a dispetto della qualità e della vastità della sua produzione culturale, «deve sopportare l’ironia di essere riscoperto come scrittore omosessuale tratto fuori dallo sgabuzzino per l’occasione», Il genio. Il senso dell’eccellenza attraverso le vite di cento individui non comuni, Milano, BUR, 2010, p. 229.
  49. Tito Lucrezio Caro: «Suave, mari magno turbantibus æquora ventis, e terra magnum alterius spectare laborem, non quia vexari quemquamst iucunda voluptas, sed quibus ipse malis careas quia cernere suave est», De rerum natura, II, 1-4. Questi esametri hanno avuto, fin in tempi recenti, una enorme fortuna, tanto essendo citati nella loro interezza quanto sopravvivendo solo sotto forma di lacerto; inevitabile, in tal senso, il riferimento al fortunato testo di Hans Blumenberg, Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, Bologna, il Mulino, 1985. Per una rapida ricostruzione dei percorsi di questi versi, si veda il saggio di Andrea Rodighiero, Fortuna di una citazione: il lucreziano Suave, mari magno, in «Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici», LXII, 2009, pp. 59-75.