Abstract
Il saggio intende riprendere la riflessione sul ruolo degli intellettuali in chiave politico-pedagogica all’interno dell’attuale società post-moderna e ultra capitalistica. Si vuole proporre in merito il ritorno dell’intellettuale engagé attraverso le tesi di Antonio Gramsci per un verso, Paulo Freire dall’altro e tornando a ristabilire un legame imprescindibile tra pedagogia e politica. A tal fine la narrazione autobiografica potrebbe essere un valido strumento se concepito “politicamente”, direbbe Gramsci, in quanto tensione morale costruttiva di sé e del processo storico. La narrazione della propria esperienza diventa racconto e il racconto di sé diventa storia: l’autoanalisi è al contempo individuale e collettiva. Ed è proprio così che si intende aprire una riflessione sui risvolti politici del congegno narrativo a due livelli, individuale e sociale.
1. Considerazioni preliminari. La pedagogica come opera politica
Nell’affrontare il complesso nesso fra pedagogia e politica bisogna sottolineare come quest’ultima sia una dimensione immanente della pedagogia; si tratta di una politica a matrice etica che orienta, in chiave dichiaratamente regolativa («seppur» come ci ricorda Cambi «in funzione “meta”, cioè che non produce massime, bensì criteri per elaborare massime per l’azione»[1]), la prassi stessa della pedagogia.
Si tratta per la pedagogia di far agire nel presente – pur nel suo statuto di precarietà – i vettori dell’emancipazione, dell’uguaglianza, dell’impegno politico ma senza pre-definirli: essi dovranno essere ripensati e vissuti nel nostro tempo dentro una condizione di complessità e di de-centramento, di pluralismo democratico, di attenzione al soggetto e ai suoi diritti. Tale aspetto è sempre più chiaro all’interno del modello democratico, concepito non sotto forma di tecnica socio-politica bensì come progetto di cittadinanza[2]. La politica risulta pertanto connotata da un forte senso etico-morale tale da risultare lontana dal puro esercizio del potere:
Dovremmo essere di fronte a uno sforzo orientato a dar vita ad una società civile che si organizzi intorno alla partecipazione e “all’opinione pubblica” costituita non dall’élite ma da un vasto sistema di gruppi, di associazioni, di partiti. […] Si tratta di una posizione troppo sofisticata o troppo fragile per una società di massa? Ma è proprio questa la sfida che la pedagogia può contribuire a far passare dall’utopia alla storia[3].
L’opzione pedagogica è, quindi, intesa come sfida politica che raccoglie la spinta democratica che non sia né formale né sostanziale, ma, potremmo dire “integrale” (se il termine non fosse così carico di significati inequivocabilmente spiritualistici), nel senso di realizzata nella società civile e poi nello Stato. Una sfida, questa, di cui l’educazione è la chiave di volta.
Pensare politicamente se non si traducesse in agire politicamente, rischierebbe di perdersi in un vuoto formalismo, in uno dei soliti modi in cui si trastulla magari ritenendo ingenuamente di potere così testimoniare una personale capacità di padroneggiare le situazioni. L’agire politicamente senza poter contare su un pensiero capace di prospettare idee, finalità e grandi progetti, e capace di procedere a un continuo controllo oltre che ad una costante azione di stimolo, rischierebbe di perdersi in un agire la cui unica prospettiva sarebbe quella di agire per il semplice piacere di agire […]. Pensare politicamente e agire politicamente significa dunque riscoprire il senso della politica, la responsabilità dell’educazione, la necessità che queste due esperienze dell’uomo sappiano rapportarsi l’una all’altra, e significa la possibilità di scoprire o riscoprire la gioiosa fatica di pensare e agire sensatamente. Tutto ciò per non accontentarsi di essere umani […] ovvero per puntare con tutte le proprie forze a diventare umani, non disdegnando di aiutarci reciprocamente in una simile impresa, che rappresenta il modo forte più eticamente valido di intendere la politica[4].
La pedagogia democratica, per sua stessa natura, non può essere neutrale, la sua storia si connota per la necessità di schierarsi dalla parte dei meno fortunati, per stimolare, promuovere e attivare quei meccanismi e quei circuiti di riscatto e di emancipazione senza i quali il mondo pare perennemente a rischio, non solo perché con l’ingiustizia dell’emarginazione e dell’esclusione si alimentano e si incentivano tutti i tipi di “integralismo”, ma soprattutto in ragione del fatto che una buona parte del mondo viene tagliata fuori dai processi di sviluppo della conoscenza e della diffusione del benessere.
“Prendere posizione” in pedagogia vuol dire svolgere quel ruolo politico che si rende operativo attraverso l’educazione, proponendo testimonianze ed esperienze, avanzando proposte efficaci in rapporto anche ai problemi della formazione degli ambienti lontani dalla cultura ufficiale, avviando ed incrementando il dialogo con le tante “diversità”, per nessun motivo circoscrivibili e/o categorizzabili[5]. La nostra intenzione è quella di proporre la dimensione autobiografica come teoria e come prassi di formazione individuale e sociale, di coscientizzazione – direbbe Paulo Freire[6]. La vocazione educatrice si afferma nell’aspirazione alla libertà mai individualistica bensì costantemente in dialogo con gli altri in quel percorso “umanizzante”[7] per raggiungere consapevolezza della realtà socio-culturale in cui di è calati ma soprattutto della capacità di trasformazione della stessa attraverso l’azione personale secondo una linea assiologica determinata.
2. A seguire. Il problema politico dell’autobiografia
Proporre testimonianze ed esperienze attraverso la pratica autobiografica al fine di formare l’uomo vuol dire credere ed attuare un programma pedagogico preciso che include una ulteriore riflessione anche sul problema politico dell’autobiografia, intesa come narrazione del processo di comprensione critica di sé stessi, come narrazione del processo storico in atto, comprensione della propria funzione storica in tale processo ed acquisizione progressiva di autocoscienza.
In questa nostra proposta ci viene in aiuto Antonio Gramsci che guarda all’autobiografia come ad un problema, come ad una tensione morale costruttiva di sé e del processo storico, che coniuga tensione all’autoeducazione, alla responsabilità morale e alla formazione della personalità. La narrazione della propria “esperienza” diventa racconto e il racconto di sé diventa storia: l’autoanalisi è al contempo individuale e collettiva, insieme di riflessioni sui processi di trasformazione della persona e della società, comprensione e costruzione del processo storico in atto attraverso la comprensione critica di se stesso, mai autobiografismo, né corrivo intimismo[8]. Ed è proprio così che si vuole emancipare il “congegno” autobiografico dalla mera pratica o dal mero psicologismo per aprire una riflessione sui risvolti politici del congegno narrativo a due livelli, individuale e sociale, quest’ultimo troppo spesso omesso o semplicemente non considerato dagli studi di settore.
L’autobiografia si presenta pertanto come uno strumento che permette di rimandare agli autori e ai lettori un senso di empowerment [9] e di restituire loro il valore della propria esistenza. Come spiega Duccio Demetrio, antesignano di questi studi in Italia in ambito pedagogico, la narrazione autobiografica è un valido strumento per la ricomposizione della propria identità, un viaggio formativo necessario per accettare se stessi, un passo decisivo per recuperare il proprio potere personale.
A ragione, quindi, la narrazione di sé è considerata un vero e proprio processo di Bildung[10]: è nel ripercorrersi e nel ripensarsi che risiede il tentativo auto-formativo di cercare un approdo di senso e di prendersi carico di se stessi con una tensione anagogica, in chiave prospettica.
Alla base di questa ricerca di sé, di questa analisi che si divide fra compiutezza e incompiutezza, va collocata una categoria pedagogica che a più riprese e da più autori è stata sottolineata come costitutivamente formativa: quella della cura di sé, che risulta il requisito psicologico, etico, antropologico che genera la formazione e la orienta. «Cura di sé è prendere in custodia la propria esistenza, il proprio stato d’animo, il proprio destino. La cura di sé è prendersi cura e prendersi in cura. […] L’autobiografia non si costituisce che da quest’ottica»[11].
Si fa autobiografia spinti dalla cura di sé e si assume doppiamente la cura di sé durante il percorso, ripensando il sé in prospettiva futura, e come raggiungimento, mai definitivo, come approdo ad un sé più consapevole e formato.
Secondo Rita Fadda: «il concetto di cura è categoria […] senza di cui né educazione né formazione sarebbero possibili, né l’uomo stesso sarebbe pensabile in quanto, sia la sua sopravvivenza biologica […] sia la sua costituzione […] il suo darsi forma umana e forma singola, individuale e unica, sono opera della cura, della dedizione, del sostegno […] che l’altro o gli altri […] costantemente gli prestano, ma anche della cura che ogni uomo rivolge a se stesso e alle cose del mondo»[12].
La cura di sé è l’a priori di qualsiasi processo formativo, anche quello autobiografico, che oscilla costantemente tra l’illusione della propria finitezza e la necessità dell’altro (e/o dell’altrove), tra una dimensione individuale, soggettiva e una dimensione sociale, dell’alterità.
2.1 La narrazione autobiografica e il processo di coscientizzazione
Se partiamo dall’assunto che la pedagogia, che si impegna nella liberazione dell’uomo, abbia le sue radici proprio in quegli uomini che cominciano criticamente a pensarsi, che Freire nel suo testo La Pedagogia degli oppressi direbbe “inconclusi”, allora principia così qualsivoglia processo formativo e liberatorio dell’uomo, dalla coscienza che si ha della propria “mancanza”.
La narrazione autobiografica, e questo lavoro cerca di riflettere in tale direzione, va considerata come strumento di coscientizzazione cioè come metodo che cerca di dare all’uomo l’opportunità di riscoprirsi attraverso la riflessione sul processo della sua esistenza ma non solo in interiore homine anzi nell’apertura all’alterità, come momento di riflessione collettiva. Le narrazioni tanto più “stanno in situazione” tanto più aiuteranno gli uomini a pensare criticamente il loro “stare” e ad agire in quel contesto.
Freire sosteneva che: «l’educazione liberatrice non può essere l’atto di narrare, trasferire, trasmettere le conoscenze agli educandi, piuttosto è un atto di conoscenza»[13] e il semiologo Cesare Segre ha sottolineato che il concetto di narrazione autobiografica è legato al concetto di conoscenza[14], di formazione dell’uomo e della società, pertanto se praticata a sostegno di una pedagogia “critica” potrebbe trovare una collocazione tutt’altro che forzata all’interno del movimento educativo.
Colui che scrive, che narra, che offre una testimonianza, che si interroga, che lascia memoria ricopre il ruolo di maestro, di educatore, di “intellettuale” al fine di dare forma all’individuo e alla società intera.
3. A chi il compito della memoria? Il ritorno all’intellettuale organico[15]
A chi compete, dunque, il dovere della memoria? Ai testimoni diretti di un evento storico, ai protagonisti di un particolare parte del passato? Riguarda gli studiosi di certe discipline? È piuttosto un dovere civico di ogni singolo individuo per la sua appartenenza all’umanità in generale?
Voci autorevoli si sono spese ad affermare la necessità del ruolo dello storico nella trasmissione del passato come, ad esempio, quella di Paul Ricoeur[16], il quale, riferendosi alla funzione della storiografia, attribuisce a questa un dovere che è innanzitutto morale e poi scientifico, sostenendo che in certe circostanze, in particolare quando lo storico si confronta con l’orribile il rapporto di debito si trasforma nel dovere di non dimenticare.
Narrare di sé, della propria esperienza risulta quindi un dovere – un dovere della memoria – affinché riflessioni di questo genere non vengano etichettate come utopia della memoria.
La tesi dell’intellettuale organico è forse una risposta critica a questo interrogativo. A tale scopo – allora come ora – secondo Gramsci, era indispensabile avvalersi dell’ausilio di un “nuovo tipo” di intellettuale, capace di interessarsi seriamente alle concrete esigenze del proletariato con cui avrebbe dovuto stabilire un “rapporto egemonico”. Per rapporto egemonico egli intendeva una vera e propria relazione pedagogica attiva, reciproca e dialettica, simile a quella tra insegnante e allievo, finalizzata all’arricchimento vicendevole, che coinvolgesse la società intera e, quindi, “governanti e governati”, “élites e seguaci”, “dirigenti e diretti”, “avanguardie e corpi di esercito”, anche a livello internazionale. In quest’ottica anche l’intellettuale era chiamato alla crescita e alla messa in discussione della società in generale, affinché l’ambiente culturale così modificato fungesse esso stesso da “maestro” in quanto, acquisito un maggior senso storico-critico, fosse in grado di agire su di esso ponendo interrogativi e problemi sempre diversi[17].
Non è più l’eloquenza a caratterizzare il nuovo intellettuale, ma una formazione sia teoretica sia pratica, nel mescolarsi alla vita pratica, l’intellettuale di nuovo tipo è organizzatore, è costruttore, è «persuasore permanentemente»[18].
Ci sentiamo in questo lavoro di raccogliere e riproporre il nucleo fondante del discorso gramsciano che risiede nella convinzione che ogni uomo, al di fuori della propria professione, è portatore di valori, di una propria morale, di una personale concezione della vita, di un proprio gusto poetico, letterario, artistico. Ogni uomo è, quindi, un filosofo, un artista, esplica un’attività intellettuale e contribuisce a suscitare nuovi modi di pensare e, dunque, a promuovere e a modificare una determinata concezione del mondo. È proprio in questo senso che intendiamo il ruolo pedagogico-politico degli intellettuali che svolgono una missione di “coscientizzazione.
In quelle che Gramsci chiama esplicitamente Note autobiografiche[19]la narrazione della propria “esperienza” diventa racconto e il racconto di sé diventa storia. Ed è proprio questa la chiave della nostra proposta, emancipare il “congegno” autobiografico dalla mera pratica o dall’esclusivo ripiegamento narcisistico su se stessi per aprire una riflessione sui risvolti politici della narrazione autobiografica.
3.1 Un chiarimento: la nota gramsciana intitolata Giustificazioni delle autobiografie
Una delle giustificazioni può essere questa: aiutare gli altri a svilupparsi secondo certi modi e verso certi sbocchi. Spesso le autobiografie sono un atto di orgoglio: si crede che la propria vita sia degna di essere narrata perché «originale», diversa dalle altre, perché la propria personalità è originale, diversa dalle altre, ecc. L’autobiografia può essere concepita «politicamente». Si sa che la propria vita è simile a quella di mille altre vite, ma che per un «caso» essa ha avuto uno sbocco che le altre mille non potevano avere e non ebbero di fatto. Raccontando si crea questa possibilità, si suggerisce il processo, si indica lo sbocco. L’autobiografia sostituisce quindi il «saggio politico» o «filosofico»: si descrive in atto ciò che altrimenti si deduce logicamente. È certo che l’autobiografia ha un grande valore storico, in quanto mostra la vita in atto e non solo come dovrebbe essere secondo le leggi scritte o i principî morali dominanti[20].
In questa nota Antonio Gramsci attribuisce valore all’autobiografia in quanto concepita politicamente, non sulla base del presupposto narcisistico e individualistico dell’originalità ma col fine specifico di aiutare gli altri a svilupparsi secondo certi modi e verso certi sbocchi, raccontando la propria vita in quanto simile a quella di altre vite ma con uno sbocco che quest’ultime non potevano avere. Dunque Antonio Gramsci giustifica l’autobiografia in quanto segnata da un fine politico-pedagogico-storico.
L’importanza di questa funzione di testimonianza del “particolare” è tanto più grande quanto più in un paese la realtà effettuale è diversa dalle apparenze, i fatti dalle parole, il popolo che fa dagli intellettuali che interpretano quei fatti. L’autobiografia come documento di storia aiuta a comprendere il rapporto fra formazione individuale e collettiva.
La storia si può comprendere attraverso le autobiografie e al contempo l’autobiografia è comprensione della propria funzione nel processo storico di trasformazione.
4. La funzione pedagogica degli intellettuali. L’etica della responsabilità
Gramsci ci invita dunque a guardare gli intellettuali come portatori – nel loro ruolo di educatori critici, di edificatori di consenso, di creatori di egemonia – di responsabilità, a cui non possono sottrarsi senza tradire se stessi[21].
Continua ancora Angelo d’Orsi, storico dell’educazione e studioso del pensiero politico, che la storia degli intellettuali sul finire del “secolo breve” appare piuttosto la fuga dal principio di responsabilità e dalla sua etica in nome spesso di emozioni, passioni, e di stati d’animo, nel ricordo, troppo lontano, della eccezionale stagione dell’impegno dopo la seconda guerra mondiale in un’Italia che tentava di tenere assieme con la ricostruzione economica quella delle coscienze, una riforma intellettuale e morale che vedeva gli intellettuali accomunati dalla consapevolezza della necessità di prendere una posizione.
Arrivavano del resto in Italia, tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, gli echi delle discussioni del mondo dell’intellettualità transalpina, animate da personaggi del calibro di De Beauvoir, Merleau-Ponty che definivano l’intellettuale come qualcuno che si prende a cuore, pre-occupa, dei problemi che non lo riguardano in prima persona così da occuparsi della polis, della possibilità della convivenza tra gli esseri umani.
L’ideologia del disimpegno, ci avverte Norberto Bobbio[22], è stata “inverata” con la caduta del Muro di Berlino, una volta decretata la fine della storia, la fine delle grandi narrazioni, iniziò così una vera campagna di ridimensionamento della figura dell’intellettuale dipinto come retrò, quando non nemico della modernità.
Del resto, come aveva notato Bauman[23], gli intellettuali hanno visto cambiare la loro funzione, o piuttosto hanno accettato di cambiarla: da legislatori sono divenuti interpreti, si sono attestati su ruolo tecnici, dimenticando il motto – diffusosi in Italia nel ’68 – I care, «mi sta a cuore» (che com’è noto si tratta dell’esatto, deliberato rovesciamento del «me ne frego» fascista) che dovrebbe costituire le fondamenta dell’atteggiamento e del pensiero intellettuale a favore di una rinuncia ad esporsi dovuto a quel demone che Raymond Aron definiva l’«oppio degli intellettuali»[24].
L’“impegno” suona così, nel tempo dell’ultra capitalismo, come superfluo o residuale, tutt’altro che finalizzato alla ricerca e alla creazione e lontano dalla dimensione critica del pensiero stesso ma proprio queste caratteristiche dei “filistei del XX secolo”[25], stimolano una riflessione pedagogica sulla necessità del ritorno all’engagement intellettuale che postuli un diritto/dovere di impegnarsi nella vita della polis per la formazione permanente dell’uomo e del cittadino.
Nel lasciare una testimonianza, nel narrare un bilancio della propria vita al fine di aiutare gli altri a fare lo stesso, a seguire una possibile via tracciata, si legge la prova di un preciso impegno pedagogico che può costituire davvero un ambito di studi da esplorare e analizzare.
Bibliografia
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- Franco Cambi, Libertà da… L’eredità del marxismo pedagogico, La Nuova Italia, Firenze, 1994, p. 102. ↩
- A proposito dei diritti umani su cui la pedagogia democratica dovrebbe interrogarsi si veda il monografico della Rivista “CQIA Rivista Formazione, Persona, Lavoro” dal titolo La Costituzione per la formazione della persona o l’educazione della persona per la Costituzione?, numero IV, febbraio 2012, uscito in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia (in http://cqiarivista.eu). ↩
- Franco Cambi, op. cit., p. 138. ↩
- Piero Bertolini, Educazione e politica, Raffaello Cortina, Milano, 2003, pp. 161-163. ↩
- Stefano Salmeri (a cura di), Pedagogia e politica. Per le buone pratiche educative e per la formazione del cittadino in democrazia, Città Aperta, Enna, 2009, pp. 73-74. ↩
- Paulo Freire (1921-1997), pedagogista e teorico dell’educazione brasiliano, autore fra gli altri del volume tradotto in tutto il mondo, La Pedagogia degli Oppressi, (Gruppo Abele, Torino, rist. 2011). ↩
- Cfr. Edda Ducci, Approdi dell’umano. Il dialogare minore, Anicia, Roma, 1999. ↩
- Giansiro Ferrara, Niccolò Gallo (a cura di), 2000 pagine di Gramsci, Il Saggiatore, Milano, 1964. «Dei quattro volumi che compongono {l’opera}, il II {- Lettere inedite e edite (1912-1937) -} è il più autobiografico e, nel miglior senso, il più narrativo. E mostra fra l’altro come in Gramsci l’autobiografia non si deteriori in autobiografismo, né il ragguaglio anche intimo in corrivo intimismo» (seconda di copertina). ↩
- Il concetto di Empowerment fa riferimento all’accrescimento spirituale, politico, sociale o della forza economica di un individuo o una comunità. Spesso tale concetto fa riferimento allo sviluppo della fiducia nelle proprie capacità. L’empowerment può quindi definirsi come un processo che dal punto di vista di chi lo esperisce, significa “sentire di avere potere” o “sentire di essere in grado di fare”. È un concetto multilivello, che rinvia ad un livello individuale e ad uno sociale e di comunità. Appare così il frutto del concorrere del senso di padronanza e di controllo raggiunto dal soggetto (livello psicologico), e delle risorse/opportunità offerte dall’ambiente in cui il soggetto vive (livello sociale e di comunità). ↩
- Su questo argomento si vedano: Rita Fadda, Sentieri della formazione. La formatività umana tra azione ed evento, Roma, Armando, 2002; Francesco Mattei, Sfibrata paideia. Bulimia della formazione, anoressia dell’educazione, Anicia, Roma, 2009; Franco Cambi, L’autobiografia come metodo formativo, Laterza, Roma-Bari, 2002. ↩
- Franco Cambi, Libertà da… L’eredità del marxismo pedagogico, cit, p. 119. ↩
- Rita Fadda, Sentieri della formazione. La formatività umana tra azione ed evento, Roma, Armando, 2002, p. 96. ↩
- Paulo Freire, op. cit., p. 61. ↩
- Cfr. Cesare Segre, Narrazione/narratività in Enciclopedia, Einaudi, vol. 6, 1980, pp. 690-701. ↩
- Riflessione questa sul ruolo degli intellettuali che la scrivente ha approfondito durante gli studi per la tesi di dottorato ma che è quanto mai di attualità, tanto che il sito degli editori Laterza (www.laterza.it) ha aperto una pagina dal titolo Gli intellettuali servono ancora? Confronto tra Sergio Romano e Giuseppe Laterza, su cui hanno poi scritto, partecipando al dibattito, diversi autorevoli pensatori. ↩
- Cfr. Paul Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina, Milano, 2003. ↩
- Cfr. Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana, vol. II, Einaudi, Torino, 1975, pp. 1131-1132. ↩
- Ivi, vol. I., p. 20. ↩
- Cfr. Q. 15, paragrafo 9 ↩
- Antonio Gramsci, Giustificazioni delle autobiografie, (Q. 14), p. 1718. ↩
- Angelo d’Orsi, Intellettuali nel Novecento italiano, Einaudi, Torino, 2001, p. 15. ↩
- Cfr. Norberto Bobbio, L’utopia capovolta, La Stampa, Torino, 1990, pp. 127 e ss. ↩
- Cfr. Zygmunt Bauman, La decadenza degli intellettuali: da legislatore a interpreti, Bollati Boringhieri, Torino, 2007. ↩
- Cfr. Raymond Aron, L’oppio degli intellettuali, Ideazione Editrice, Roma, 1998. ↩
- Cfr. Frank Furedi, Che fine hanno fatto gli intellettuali? I filistei del XX secolo, Raffaello Cortina, Milano, 2007. ↩