Numero 13/14 - 2017

  • Numero 7/8 - 2013
  • Recensioni

Mario Vargas Llosa, De verdwenen cultuur / The Culture That Was, Vertaald door Arie van der Wal, Nexus Bibliotheek X, Tilburg, Nexus Instituut 2013

di Carlo Cappa

Una cultura può smorire? Questo è l’interrogativo posto al cuore delle riflessioni del premio Nobel per la letteratura Vargas Llosa contenute nel suo testo, letto [1] in occasione della lectio magistralis dal titolo The Future of Humanism, tenutasi a Tilburg l’8 giugno 2013 e ora edito nel piccolo volume bilingue, nederlandese e inglese, pubblicato dal Nexus Instituut. Sono diversi i motivi che rendono degna di nota quest’opera e che travalicano la sua qualità intrinseca e il piacere di leggere i sottili pensieri di un così rinomato letterato espressi in una prosa cristallina e sempre godibile. Essa, infatti, offre anche l’occasione per portare l’attenzione sulle meritorie attività del Nexus Instituut; questo istituto è attivo da diversi anni in Olanda e si è dimostrato capace di articolare un’ampia gamma di iniziative di ottimo livello, tutte incentrate su una puntuale analisi e un serio approfondimento della cultura europea, legando tradizionali istanze della eredità del nostro Continente alle più dibattute questioni presenti sullo scenario contemporaneo. La prossima conferenza in programma per il 1° dicembre 2013 conferma il desiderio di proporre approcci non scontati a tematiche di ampio respiro, senza mai sacrificare l’alto profilo dei protagonisti che animano queste occasioni. Il tema in questa occasione dibattuto sarà The Triumph of Science and the Secret of Man con conferenzieri quali: Antonio Damasio, Jean-Pierre Changeux, Patricia Churchland, Robbert Dijkgraaf, Anthony C. Grayling, Allan Janik, Siddhartha Mukherjee, nomi che rimarcano il carattere spiccatamente interdisciplinare del convegno, indispensabile per poter affrontare i numerosi risvolti di un tema tanto sfaccettato. Non mancano, infine, diverse iniziative, articolate in Masterclass e in giornate denominate Connect riservate ai membri, dedicate a giovani impegnati nella riflessione su nodi di vasto respiro, con la trasparente intenzione di creare una nutrita rete europea per la diffusione e il sostegno dello specifico approccio dell’istituto.

Il breve volume, acquistabile attraverso il sito del Nexus Instituut (https://www.nexus-instituut.nl/), comprende anche un’accurata intervista sulle posizioni espresse dall’autore nella sua lectio magistralis, intervista condotta da Rob Reimer, presidente dell’istituto e noto nel nostro paese grazie al bel libro La nobiltà dello spirito. Elogio di una virtù perduta, edito da Rizzoli[2]. Vargas Llosa inizia la sua disamina[3] con il mettere a fuoco alcuni lineamenti che egli ritiene costanti nell’idea di cultura, senza con questo voler diminuire o sfumare i tanti mutamenti che il passare dei secoli ha impresso su tale concetto cardine della nostra storia. Se la cultura è, in maniera molto tradizionale, quell’insieme stratificato e complesso di idee, valori, opere d’arte e l’accumulo e la conservazione dei cambiamenti storici, religiosi, filosofici e scientifici, per giungere fino allo spirito di sperimentazione tanto in campo artistico quanto in tutti gli altri ambiti del sapere, essa è intrinsecamente legata alla possibilità di stabilire gradazioni differenti o, per meglio dire, essa contiene ed è inseparabile dall’idea stessa di gerarchia. Ben due tipi di gerarchie, infatti, fanno la loro comparsa nelle prime pagine del saggio: innanzitutto, una classificazione tra chi è acculturato e chi non lo è, includendo tra questi due estremi un ampio ventaglio di gradazioni (p. 43); in secondo luogo, una differenziazione tra i tanti contenuti del sapere con i quali si viene incessantemente in contatto, impossibili da padroneggiare nella loro totalità e che richiedono una affidabile bussola per essere attraversati (p. 46). Si è di fronte, quindi, a una visione nella quale la cultura, inevitabilmente padroneggiata al meglio da un’élite d’elezione e non certo di censo, è depositaria di principi morali e di quel vitale potenziale atto a creare ponti tra i differenti saperi, legami e attraversamenti senza i quali qualunque sapere specialistico rischierebbe di diventare un recinto che, invece di favorire al suo interno una rigogliosa crescita e sviluppo dei propri ambiti, li taglierebbe fuori dalla indispensabile comunicazione con il resto della conoscenza (p. 47). Il passo che segue riassume perfettamente questo affascinante affresco della cultura:

In the most cultivated circumstances and societies in history, culture consisted of hierarchies in the broad range of insights that from knowledge, an all-encompassing morality requiring freedom and enabling expression of the great diversity of humanity but firm in its rejection of all that vilifies and degrades the basic notion of humanity and threatens the survival of the species. It was an elite comprised not by reason of birth or economic or political power but by the effort, talent and work completed and with moral authority to establish, in a flexible, renewable way, an order of importance of values in the arts, science and technology. (p. 48)

Tale nozione di cultura, come si può osservare, rigetta con decisione qualunque cristallizzazione delle sue caratteristiche accidentali, preservando però un nucleo di alta umanità nel rifiuto di qualsivoglia deriva degradante e nella risoluta apertura al flessibile adattamento ai tempi, un accordo e una modulazione che possono essere opera solo di un’élite che, si sarebbe tentati di dire, riesce a conquistare sul campo la patente che la identifica. Naturalmente, come il titolo dell’opera lascia presagire, sono numerose le nuvole che l’autore vede addensarsi, da oramai più di mezzo secolo, su questo orizzonte culturale, figlio di quella che in un breve scritto Thomas Mann chiamò epoca umanistica[4]. Ed è proprio muovendo da questa costatazione, che Vargas Llosa ingaggia un brillante attacco di fioretto contro quegli elementi che vede come mestatori di una cultura che, a suo avviso, è la sola depositaria di quegli antidoti contro molte delle derive, anche in campo educativo, che egli può oggi osservare.

Le due discipline che, più di altre, sembrano essere responsabili dell’erosione di quei confini che identificavano la cultura come un insieme definito e gerarchico, sono l’antropologia e la sociologia. Alla prima, pur animata dalla lodevole intenzione di combattere ogni forma di discriminazione verso culture altre rispetto a quella occidentale, è attribuito il livellamento tra tutte le culture, interpretate come semplice espressione dell’umana diversità. Alla sociologia, invece, è fatto risalire l’annoverare le più differenti forme di espressione nel corpus della cultura, sicché sono i confini per così dire ‘interni’ a essere eliminati, poiché visti come frutto di un potere egemone e castrante. È impensabile ritenere ancora plausibile il mantenimento di una gerarchia e di un ruolo positivo delle élites dopo questi vigorosi colpi di pialla inferti alla tradizione, che hanno rappresentato, però, a detta dell’autore, una vittoria di Pirro, dato che l’indifferenziato a cui hanno dato vita non è affatto foriero di una vertiginosa libertà creativa o di un attento sentimento di rispetto. Ben diversamente, ciò che si può osservare è una destrutturazione della cultura, frammentazione nella quale sono i saperi specialistici tanto invisi a Edgar Morin ad avere la meglio. Vargas Llosa sa perfettamente quale sia la forza pervasiva di questi e come, se affrontata con un piglio quantitativo, la crescita della ‘cultura’ sia indubitabile, ciononostante, senza quei ponti tra le isole del sapere, esse possono trasformarsi in «manifestation of barbarity» (p. 46) come nel caso eclatante dello sviluppo tumultuoso negli armamenti.

Affrontando questi delicati nodi, l’autore giunge alle soglie di quel complesso e articolato rapporto tra le scienze e le discipline umanistiche; naturalmente, nell’ambito di un breve saggio come questo, non si può certo richiedere una completa trattazione o una dettagliata analisi della bibliografia in merito ai temi presentati. Restando nell’economia del genere praticato, Vargas Llosa riesce comunque a offrire spunti di sicuro interesse, in particolare riguardo alla confusione che spesso s’incontra sull’applicazione pedissequa delle idee di progresso e di specializzazione. Queste, infatti, se sono proprie e connaturate al campo della scienza, mal si adattano all’ambito delle discipline umanistiche[5]. In ambito scientifico, si assiste a un puntuale superamento di ciò che viene prima, consegnato dalla storia, dove «the past is in a cemetery» (p. 48), mentre nell’ambito umanistico, pur potendo registrare a una continua evoluzione delle forme di espressione, le creazioni veramente tali restano pulsanti e attuali, tanto che «they continue living and enriching new generations and they evolve with them» (p. 49).

Attraverso queste considerazioni e grazie alla presa in conto del ruolo formativo giocato dalle opere di ambito umanistico per le generazioni a venire, si giunge alle pagine più espressamente dedicate all’educazione. In esse, sono due i principali obiettivi critici dell’autore, tra loro strettamente collegati: da un lato, la radicale messa in discussione dell’autorità, senza la quale egli ritiene impossibile il dispiegarsi completo e fruttuoso del rapporto tra docente e allievo, dall’altro, Michel Foucault, visto come eccellente pensatore, ma i cui ideali libertari lo hanno portato ad attaccare a testa bassa la cultura occidentale, un pericoloso percorso che ha finito con il condurlo a veri paradossi dalle conseguenze ancora oggi nefaste[6]. Esattamente come nel caso della cancellazione delle gerarchie insite nella tradizionale immagine della cultura, anche a seguito dell’abolizione dell’autorità e della messa sotto accusa della scuola quale espressione di un potere censorio e viziato, giudizio, quest’ultimo, tanto diffuso da essere a volte interiorizzato dagli stessi insegnanti, non si registrano rilevanti risultati positivi: l’investimento nella distruzione della precedente tradizione non ha dato luogo a nuove ricchezze ma solo alla tetraggine di una cultura orfana.

Vargas Llosa sceglie di dedicare le sue ultime pagine agli ambiti che più gli sono congeniali, cioè la letteratura, che già aveva fatto capolino, e la critica letteraria. Sono questi i punti d’ingresso per attaccare, sviluppando le precedenti obiezioni alla cultura postmoderna, il decostruzionismo di Derrida e la sua immagine di letteratura. In questo caso, a fronteggiarsi è qualcosa in più che due approcci critici alla letteratura o due scuole filosofiche: sono due visioni del mondo e del ruolo dell’intellettuale in esso. Le sapide scudisciate di Vargas Llosa alla verbosità, pletorica e soverchia quanto autoreferenziale e specialistica, di una considerevole parte del postmoderno (pp. 54-57) sono un ottimo strumento per pensare al ruolo educativo che oggi deve essere dato alle arti e alla filosofia, portatrici di essenziali chiavi per leggere l’uomo, in tutta la sua complessità e contraddittorietà. In particolare, rispetto alle opere letterarie, l’autore regala, attraverso una conversazione con critici quali Gertrude Himmelfarb e Lionel Trilling, una vibrante apologia della lettura come fugace sguardo in quegli abissi che sono le profondità dell’animo umano. Affinché ciò possa avvenire, perché la letteratura sia in grado di dispiegare tutto il suo potenziale, è necessario un contatto diretto con il testo, con gli originali nel senso più autentico del termine. Certo, questa considerazione potrebbe apparire banale, specie per un paese come il nostro che ha visto nella sua storia il fiorire di un amore attento e severo per la filologia e per il rapporto con le opere nel senso più ampio del termine. Bisogna ammettere, però, che tali raccomandazioni sono sempre utilissime, anche soltanto per evitare quegli abbagli di cui sono disseminate le riforme del nostro sistema d’istruzione, come quello riguardante il patente svilimento dei testi classici che avrebbe comportato la loro offerta attraverso l’ausilio delle nuove tecnologie in forma di surrogato, posizione che assecondava una falsa prospettiva d’innovamento, troppo incline a confondere facilità di fruizione con piacevolezza e significatività.[7] In tal senso, la breve opera di Vargas Llosa è un altro indizio dell’indebolimento della cultura postmoderna, per la quale sembra giunto in molti campi un redde rationem ineluttabile. Sarebbe auspicabile che anche la riflessione pedagogica riuscisse a prestare ascolto a questi cambiamenti, dismettendo alcune posizioni frutto di temporanee ubriacature che, quand’anche in buona fede, hanno prestato il fianco ad accuse portate su un certo compiaciuto “pedagogismo”, accuse capziose e interessate ma che hanno trovato facile gioco in un ambito disciplinare che è sembrato in cerca d’identità.

Nella conclusione del testo, lasciando inespressi i tre movimenti che ne compongono la partitura, le critiche all’appiattimento della cultura e alla sua dissoluzione, la contestazione della cancellazione dell’autorità e del ruolo cardine della scuola e la marginalizzazione dell’approccio decostruttivista, l’autore li lega con un sentito richiamo a una cultura che sappia ancora rivolgersi alla vita, legandosi a essa e illuminandola con la sua ricchezza, senza rifugiarsi in linguaggi iniziatici o nella ricerca di posizioni vuotamente provocatorie, peccati di cui vede macchiarsi coloro che sono stati oggetto dei suoi raffinati strali. Nelle parole di Vargas Llosa non c’è, occorre specificarlo, nessuna malcelata malinconia per il tramonto di quello che Stefan Zweig avrebbe chiamato Il mondo di ieri: è il futuro a tener banco nelle parole dello scrittore argentino ed è tale slancio a rendere il testo una testimonianza di grande umanità e di autentica passione espressa con l’abilità retorica che gli è propria.

  1. Il testo propone il rimaneggiamento di alcune considerazioni già presenti nel volume La civilización del espectáculo, Madrid, Alfaguara – Santillana Ediciones Generales, 2012 (ed. it. La civiltà dello spettacolo, trad. it. di Federica Niola, Torino, Einaudi, 2013).
  2. Rob Riemen, De adel van de geest. Een vergeten ideaal, Amsterdam, Atlas, 2009 (trad. it. di David Santoro, La nobiltà di spirito. Elogio di una virtù perduta, Milano, Rizzoli, 2010). Si segnala che è sua anche l’introduzione al piccolo volume di George Steiner, Una certa idea di Europa, con prefazione proprio di Mario Vargas Llosa, trad. di Oliviero Ponte di Pino, Milano, Garzanti, 2006 (ed. orig. The Idea of Europe, Tilburg, Nexus Instituut, 2004).
  3. Si farà sempre riferimento solo alla parte in inglese del volume e non soffermandosi sull’ampia intervista che lo chiude.
  4. Ci si riferisce al solo e brevissimo scritto dedicato dal romanziere tedesco a Dante Alighieri, nel quale, riferendosi alla lunga parabola della cultura che vide nell’autore della Commedia un precursore, si domanda: «Noi oggi sentiamo che tale periodo storico, l’epoca umanistica (che fu insieme l’epoca borghese e liberale), sta ormai per concludersi. È dubbio quanto sopravviverà ancora, sotto il sole della nuova giornata che già spunta, di tutto ciò che chiamiamo cultura e umanità», Thomas Mann, Dante, in Id., La nobiltà di spirito e altri saggi, a cura di Andrea Landolfi, con un saggio di Claudio Magris, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, p. 775 (ed. orig. Dante, in «Jugend», fascicolo 24, 1921).
  5. Occorre precisare che in questa recensione non si approfondisce il problema terminologico presente tra l’italiano e l’inglese nella definizione delle discipline umanistiche. Vargas Llosa utilizza prevalentemente humanities, a volte accompagnandolo ad arts.
  6. Il passo è particolarmente efficace: «His rebuff of Western culture – the only culture in history which, with all its limitations and missteps, has advanced freedom, democracy and human right – prompted him to believe that it was more feasible to achieve moral and political emancipation by throwing rocks at police officers and frequenting gay bathhouses in San Francisco or the sadomasochistic clubs of Paris, than in taking advantage of school classrooms or ballot boxes», p. 53.
  7. Per un’analisi delle dubbie scelte compiute dalla commissione di saggi voluta dall’allora Ministro Luigi Berlinguer e, in particolare, dei punti 3.5 e 3.7 della Sintesi dei lavori della commissione a cura di Roberto Maragliano, contenuta nel DM 50/97 del  13 maggio 1997, si veda Piero Bevilacqua (Ed.), A che serve la storia? I saperi umanistici alla prova della modernità, Roma, Donzelli Editore, 2011.