Numero 13/14 - 2017

  • Numero 9/10 - 2014/2015
  • Saggi

Origine e sviluppo dell’intelligenza musicale. L’apprendimento della musica in età prescolare

di Giuseppe Sellari

Le origini delle abilità umane sono state discusse fin dall’antichità. I progressi svolti negli ultimi decenni nel campo delle neuroscienze e delle scienze cognitive e gli sviluppi della ricerca psicologica, hanno notevolmente ampliato le conoscenze sul funzionamento del cervello umano e dimostrato l’infondatezza di alcune teorie secondo le quali la mente del bambino alla nascita non è altro che una tabula rasa su cui imprimere nel corso della vita i dati dell’esperienza. Alla luce di questi studi, sappiamo che il neonato possiede capacità di apprendimento di gran lunga maggiori di quanto ipotizzato in passato e che, attraverso interventi educativi mirati e una adeguata stimolazione, è in grado di potenziare le attitudini (ossia le possibilità interiori dell’individuo) che fanno parte del suo prezioso bagaglio genetico. Ciononostante persiste, come eredità atavica nella coscienza collettiva, la convinzione che particolari abilità, come quelle artistiche, siano indipendenti dalle influenze ambientali e dai processi di apprendimento, ma frutto di chissà quali volontà divine. Nel caso specifico della musica, il termine genio ha prodotto un’ideologia culturale fuorviante secondo la quale nascere musicali è appannaggio solo di pochi eletti, per cui madre natura si dimostrerebbe essere più generosa con taluni rispetto ad altri. Va detto che non esistono ragioni scientifiche per considerare questa ipotesi credibile o quantomeno condivisibile: «così come non vi sono bambini del tutto privi di intelligenza, non esistono bambini del tutto privi di attitudine musicale»[1].

Gli studi sulla specializzazione musicale del cervello hanno favorito nel corso degli anni due distinte linee di pensiero riconducibili l’una alla teoria della modularità, l’altra alla teoria del parassitismo[2]. Secondo quest’ultima posizione (a cui aderiscono i cognitivisti), la musica è un elemento parassita in quanto si appoggia a sistemi biologici destinati ad altre funzioni come ad esempio quelle legate alla comprensione del linguaggio. Diversamente la teoria della modularità considera la musica come l’emanazione di un’intelligenza distinta rispetto alle altre facoltà umane, per cui possiede un settore di specializzazione del cervello a essa riservato. Questo spiegherebbe per esempio come in soggetti autistici si possano verificare compromissioni anche profonde delle funzioni intellettuali e linguistiche senza per questo pregiudicare quelle musicali. Ciò che particolarmente sorprende delle sindromi savants è proprio la contemporanea presenza di un potenziamento di alcune facoltà insieme allo scarso sviluppo o addirittura alla totale compromissione di altre[3]. In Extraordinary People, Darold Treffert[4] ha constatato che circa il 35% dei savants musicali sono non vedenti o con gravi deficit visivi il che farebbe dedurre un dirottamento delle facoltà visive verso quelle uditive e musicali. Questa eventualità sosterrebbe ulteriormente l’ipotesi della modularità, per cui le attitudini musicali possono svilupparsi e persino raggiungere livelli di eccellenza indipendentemente dal funzionamento del sistema cognitivo. Oltre all’autismo, un’altra forma di patologia cerebrale a sostegno di tale ipotesi è l’epilessia. È stato osservato infatti che in alcuni casi la crisi epilettica possa essere scatenata dall’ascolto della musica[5] per cui verrebbe confermata l’esistenza della facoltà musicale del cervello il cui substrato «è senz’altro situato nelle reti neurali del lobo temporale superiore»[6]. Alcune tecniche di imaging celebrale come la TEP (tomografia a emissioni di positroni) o la risonanza magnetica e la magnetoencefalografia, permettono di mostrare immagini funzionali del cervello e i lobi cerebrali attivati dall’ascolto e dalla lettura del linguaggio verbale e della musica. Le osservazioni effettuate hanno evidenziato la separazione anatomica delle due facoltà indipendentemente dal tipo di codice visivo o uditivo, in quanto le aree attivate dall’esperienza musicale risultano essere diverse e adiacenti rispetto a quelle del linguaggio. La letteratura medica ha registrato negli anni numerosi casi di soggetti che, a causa di danni subiti dalle funzioni del linguaggio nell’emisfero sinistro in seguito a ictus nel lobo temporale, hanno conseguentemente esaltato la loro musicalità o addirittura sviluppato un talento nel campo delle arti visive e/o musicali[7]. Altri studiosi hanno inoltre descritto come l’instaurarsi della demenza frontotemporale in età avanzata possa addirittura influenzare i gusti musicali[8] e quindi orientarne le scelte. In sintesi è possibile affermare che le indagini sulla specializzazione musicale del cervello condotte fino a oggi «permettono di desumere che la musica sia legata all’attività di numerosi micro-cervelli, dei quali perlomeno alcuni sarebbero a essa riservati»[9]. L’abilità musicale è pertanto una capacità plurima composta da molte sotto-abilità indipendenti sul piano neurale e perciò localizzabili anatomicamente in più aree cerebrali e non in un unico centro musicale nel cervello. Howard Gardner, che considera la musica in un contesto di modularità di questo genere, ha messo in discussione il concetto di QI e le visioni unitarie dell’intelligenza definendo tale facoltà umana come la «capacità di risolvere problemi o di realizzare prodotti apprezzati in uno o più ambienti culturali»[10]. Pur non contestando l’esistenza del fattore g (‘intelligenza generale’), Gardner pone l’attenzione sulle risorse cognitive differenti e gli stili cognitivi contrastanti di ciascun individuo, arrivando per questo ad auspicare nell’istruzione un pluralismo metodologico in grado di agevolare il perseguimento delle abilità di vita desiderate. Le ricerche condotte in équipe con i suoi collaboratori, hanno dimostrato che nella nostra mente non c’è un’unica intelligenza fissa, ma una pluralità di intelligenze (teoria delle intelligenze multiple) che non possono essere unificate o misurate in maniera uniforme[11]. Seguendo questo principio, identifica otto tipi di intelligenze (ma molte altre sono in via di definizione come quella spirituale o umoristica): l’intelligenza linguistica, logico-matematica, spaziale, musicale, cinestesico-corporea, naturalistica, interpersonale e intrapersonale. Per quanto riguarda l’intelligenza musicale, potremmo definirla come «la capacità di risolvere i problemi esecutivi, compositivi, analitico-interpretativi o di creare esecuzioni, composizioni e interpretazioni»[12], così come la capacità di comprendere all’ascolto il discorso musicale sapendone percepire l’organizzazione e l’articolazione formale[13]. Tale abilità, anche se da questa definizione potrebbe sembrare evoluta e quindi appannaggio esclusivo di menti superiori, è in realtà comune alla maggior parte degli individui fin dalla primissima infanzia: un bambino di pochi mesi è in grado di battere un ritmo, di muoversi al suono della musica o, nel caso in cui abbia iniziato la fase di lallazione musicale (musical babbling), di inventare una sua melodia[14]. D’altronde alcune competenze musicali si sviluppano già nella vita prenatale. L’orecchio ad esempio inizia a funzionare intorno alla ventiquattresima settimana di gestazione quando il feto è immerso nel bagno sonoro intrauterino[15]. A questi stimoli, anche se filtrati dal liquido amniotico, reagisce con variazioni del battito cardiaco e con movimenti delle palpebre, del capo, degli arti e del tronco[16]. Sarà proprio questa esperienza che condizionerà il suo sviluppo psichico e che stabilirà la prima forma di scambio e di legame con l’ambiente circostante, sia fisico e sia umano. Secondo alcune ricerche condotte sul comportamento neonatale sembrerebbe che, a partire dal settimo mese di gravidanza, si possano rintracciare nel feto anche alcune forme di apprendimento e memoria nei confronti di messaggi musicali[17]. L’ipotesi più accreditata è che tutti nasciamo musicali, nel senso che tutti riceviamo una dotazione genetica alla musica. Le successive abilità musicali dipendono da numerosi fattori, primi fra tutti un ambiente stimolante, capace di alimentare e rinnovare l’interesse, e una buona educazione che, senza imposizioni, incoraggi il bambino ad assorbire la cultura musicale alla quale viene esposto. Attraverso quindi un processo di acculturazione fin dai primi giorni di vita è possibile incidere profondamente sulle capacità di capire e apprendere la musica di ciascun individuo. A tale proposito si sostiene che in pazienti affetti da forme congenite di amusia (deficit nella percezione della musica) ci sia un legame tra la malattia e la mancanza di ascolto musicale durante la prima infanzia, specie in genitori amusici[18]. Ciononostante negli anni Novanta Peretz e Gagnon[19] scoprirono, con loro grande sorpresa, che alcuni soggetti divenuti amusici da lesioni cerebrali erano comunque in grado di apprezzare e di formulare giudizi emozionali sulla musica.

Oltre che da fattori ambientali, il rendimento è una realtà esteriore che dipende dall’apprendimento in relazione alle attitudini, ossia alle capacità potenziali di ciascun individuo. Tuttavia uno scarso risultato in ambito musicale è spesso attribuibile alla mancanza di pratica, di motivazione e di approvazione sociale, piuttosto che a patologie ereditarie che infatti risultano essere diffuse su una ristretta percentuale di persone stimabile intorno al 4/5%.

Al di là delle singole capacità, la musica riveste inoltre un ruolo di primaria importanza nel trattamento di particolari disturbi (disfonie, depressione ecc.) o sindromi (Parkinson, Alzheimer, Williams-Beuren, Asperger ecc.) e nella formazione e sviluppo di abilità generali[20]. Un’esperienza musicale precoce può ad esempio diventare uno strumento di crescita straordinario a sostegno di tutte quelle competenze corporee, motorie, percettive, affettive e relazionali, espressive, comunicative, creative e cognitive che sono alla base del normale processo di sviluppo di ciascun individuo. Fare musica fin dalla primissima infanzia significa avvalersi di uno dei veicoli primari nella costruzione del mondo intellettivo e affettivo della persona, ma significa allo stesso tempo preservare il bambino da una serie di fattori scatenanti che nel corso degli anni minacciano il suo modo di relazionarsi con l’ambiente esterno. La voce per esempio è una forma espressiva di comportamento e come tale va educata fin dalla nascita[21]. Ecco perché prevedere programmi di prevenzione in ambito pediatrico può risultare, in un’epoca come quella attuale in cui prevale il progresso con i suoi stress acustici e vocali, utile se non indispensabile.

Dal momento quindi che tutti nasciamo con una dotazione genetica alla musica, fatta eccezione per quelle rare patologie congenite quali l’amusia, le nostre abilità musicali dipendono dal livello di attitudine iniziale, dall’ambiente in cui siamo immersi fin dalla vita intrauterina e dalle attività educative in grado di potenziare il nostro livello di intelligenza musicale di partenza. Numerosi studi sulle capacità precoci dei giovani musicisti[22], hanno constatato l’importanza delle attività di tipo musicale (suonare, cantare, danzare ecc.) svolte dai genitori, o dagli educatori, a partire dalla nascita. Questa pratica esercita una forte influenza nell’apprendimento e molto spesso produce già all’inizio dell’età scolare profonde differenze e dislivelli nelle abilità musicali. Anche se l’attitudine per la musica sembra essere una caratteristica universale negli uomini, il produrre o ascoltare musica è legato a fattori emotivi e motivazionali che dipendono strettamente dal grado di piacevolezza o meno delle prime esperienze e al raggiungimento di determinati successi. Nell’apprendimento linguistico il bambino inizia a costruire il proprio vocabolario personale attraverso l’interazione con i genitori e con l’ambiente circostante. Questo processo di acculturazione ha inizio intorno al sesto mese di gravidanza quando l’apparato uditivo è in fase di sviluppo. Il riconoscimento in utero della voce materna cantata e parlata è alla base della successiva «relazione simbiotica di scambio»[23] mediante la quale il neonato crea il suo universo affettivo e umano. L’empatia madre-bambino si sviluppa quindi dapprima attraverso il sistema uditivo rispetto a quello visivo, per cui il neonato impara presto a riconoscere e a reagire alla voce materna percependone sia l’intonazione, sia il timbro. Un ruolo importante per accompagnare questo percorso evolutivo è svolto dalle ninne nanne attraverso le quali le madri forniscono al bambino

il senso di essere e di un sé collocato nel proprio corpo (…) L’attualità delle ninne nanne è correlata alla loro capacità di consolidare ulteriormente il legame affettivo tra madre e bambino, al procurare ad entrambi sensazioni piacevoli ed, infine, al favorire il mantenimento di un rapporto di continuità con la tradizione[24].

Durante il primo anno di vita, come è noto, i bambini sono particolarmente sensibili ai mutamenti ambientali[25]; ne consegue che ogni suono nuovo, o insolito, cattura la loro attenzione. Le ricerche di Chang e Tehub[26] indicano che già a cinque mesi  sono sensibili alle strutture sequenziali e ai cambiamenti ritmici. Usando gli organi fonoarticolatori, il bambino è in grado di produrre suoni di varia natura come la tosse, i gorgoglii e il pianto. Il successivo sviluppo dell’apparato uditivo intorno ai tre mesi gli permette di ascoltare i suoni che lui stesso produce e, attraverso il suo feedback acustico, di modificarli quando necessario. Intorno ai due/sei mesi è in grado di imitare i modelli vocali proposti e assorbiti quotidianamente dall’ambiente circostante. Ha inizio così la fase di lallazione e la comparsa di prime manifestazioni cantate (musical babbling o lallazioni musicali) con variazioni in altezza e glissati micro tonali e prive di variabilità fonemica perché intonate di frequente su un’unica vocale[27]. Questa fase, in cui il bambino riproduce una serie di suoni anche estranei alla lingua materna, ma comunque percepiti dall’ambiente sonoro circostante[28], si prolunga fino agli 8/9 mesi, periodo in cui il bambino impara a rispettare l’alternanza dei turni (turn-talking) e a prepararsi al successivo sviluppo conversazionale.

Prima dell’inizio del secondo anno di vita, i bambini sono spesso in grado di associare determinati gesti con la musica all’ascolto delle canzoni d’azione[29]. Soltanto a partire da questa età si può parlare di comunicazione intenzionale: il bambino diventa cosciente delle sue capacità comunicative e di relazione con l’ambiente esterno. Le acquisizioni di tipo vocale, gestuale e cognitivo nel primo anno di vita, precedono la fonazione delle prime parole favorendo lo sviluppo della sincronia interazionale evidenziata e osservata da Condon e Sander[30] già nei neonati di circa dodici ore. Si tratta di tutte quelle serie di movimenti spesso inconsci che accompagnano il discorso e che permettono una comunicazione più efficace e quindi meno disturbata. Il linguaggio con le sue caratteristiche morfologiche e sintattiche si articola solo verso i quattro/cinque anni di età. I successivi sviluppi e soprattutto l’inserimento scolastico (istruzione formale) permetteranno al bambino di acquisire nuove conoscenze come il lessico e l’enciclopedia.

In qualsiasi processo di apprendimento la fase iniziale di ascolto riveste un’importanza fondamentale per la percezione delle informazioni. A qualsiasi sollecitazione vocale o sonora è importante far seguire momenti di silenzio affinché il bambino elabori gli stimoli percepiti e incominci a rispettare l’alternanza nell’eloquio. Questa esperienza iniziale permette al bambino di sviluppare la consapevolezza e il pensiero musicale o, come direbbe Edwin Gordon, l’«audiation» ovvero la capacità di sentire dentro di sé e di comprendere mentalmente il suono anche se non fisicamente presente nell’ambiente: «il pensiero sta alla parola come l’audiation sta alla musica»[31]. La varietà, la ripetizione e la complessità delle proposte sonore e linguistiche offrono al bambino la possibilità di costruire un vocabolario il più ricco e completo possibile. Così come il neonato viene linguisticamente esposto a stimoli differenti (si pensi ad esempio non solo agli ambienti più propriamente colti, ma anche alle forme di bilinguismo), è importante che anche le sollecitazioni di tipo musicale non siano povere e semplici, perché uno dei passi fondamentali dell’apprendimento è imparare dalle differenze. Le capacità discriminatorie si affinano quindi solo attraverso la possibilità di mettere in relazione parametri diversi. Un educatore musicale, durante la prima fase di apprendimento, quella che Gordon definisce «guida informale»[32], agisce come un genitore musicale cantando melodie e ritmi e muovendosi in modo fluente seguendo il flusso energetico della musica. Ai bambini non viene data nessuna consegna, ma semplicemente di essere e di ascoltare. Dopo aver assorbito le informazioni attraverso la semplice esposizione alla musica senza nessuna imposizione da parte dell’adulto, le elabora nel rispetto dei suoi tempi con l’obiettivo di uscire allo scoperto solo quando si sentirà pronto a farlo, dapprima con risposte casuali e in un secondo momento con risposte intenzionali (fase di acculturazione). La manifestazione più evidente che si verifica dopo il primo anno è la comparsa del canto spontaneo, la cui caratteristica principale è l’utilizzo di altezze tonali discrete e stabili. Con l’approssimarsi del secondo anno di vita, i bambini aumentano le esplorazioni vocali attraverso l’utilizzo di intervalli (anche se ancora del tutto approssimativi) sempre più ampi come le quarte e le quinte. Questa continua sperimentazione fa sì che i canti spontanei diventino più lunghi tra i due e i tre anni quando le invenzioni cominciano a mostrare un’organizzazione interna più accurata:

a due anni e mezzo, sembra che il bambino abbia assimilato il concetto in base a cui la musica va costruita attorno a un piccolo insieme prefissato di intervalli di altezze e che una sua pietra angolare è la ripetizione di configurazioni di intervalli e di ritmi. Quel che non arriva ad afferrare è la necessità di una struttura gerarchica che governi queste configurazioni, indicando direzione e conclusione. In generale una caratteristica dei canti dei bambini di questa età è l’essere “privi di meta”: possono andare e venire lungo la musica che producono, senza alcun senso di fine. La decisione di fermarsi è in larga misura arbitraria[33].

Durante questa particolare fase di apprendimento, i bambini sviluppano la capacità di imitare determinate sezioni di canzoni ascoltate in precedenza ripetendo soprattutto le parole più importanti. Successivamente, intorno ai tre anni, i bambini iniziano l’estrazione delle caratteristiche ritmiche e tonali dei canti appartenenti alla loro cultura[34] a cui seguirà la capacità di ripetere intere canzoni. Ciò che riescono a padroneggiare tra i tre e i quattro anni è il ritmo e il contorno delle altezze, ma non ancora la capacità di riprodurre precisamente gli intervalli e di mantenere la tonalità mentre cantano. A poco a poco i bambini cominciano a dare risposte musicalmente corrette o a proporre piccole frasi improvvisate fino al raggiungimento di una buona coordinazione tra respiro, movimento, intonazione e ritmo dando così vita a vere e proprie conversazioni musicali con i loro interlocutori. Del tutto originale è la comparsa, intorno ai quattro anni, delle canzoni potpourris inventate attraverso la collazione di diversi frammenti melodici appartenenti a canzoni diverse precedentemente ascoltate[35]. Solo a partire dai cinque anni la maggior parte dei bambini riescono a riprodurre con un certo grado di accuratezza i canti familiari e le cantilene infantili. Siamo passati dalla fase di imitazione alla fase di assimilazione in cui il bambino è in grado di esprimere competenze che ormai gli appartengono. La maggior consapevolezza delle proprie capacità intorno ai cinque anni risulta però essere la causa principale della drastica riduzione nella frequenza delle canzoni spontanee dovuta principalmente alla necessità dei bambini di non commettere errori e di risultare più precisi nelle esecuzioni. Il loro interesse verso le ripetizioni esatte, ad esempio, evidenzia l’esigenza di padroneggiare accuratamente tutto ciò che fanno, che è in linea con quanto affermato da Gardner e Wolf[36] riguardo all’«onda di simbolizzazione» che accompagna i bambini da una fase di «corrispondenza topologica», in cui i rapporti di forma e grandezza sono approssimativi (ad esempio disegnare le mani senza prestare attenzione al numero delle dita), a una «corrispondenza digitale», caratterizzata da una ricerca dell’esattezza della qualificazione e della classificazione (ad esempio disegnare le mani con il giusto numero di dita).

L’acculturazione musicale durante il periodo prenatale e l’età prescolare è pertanto una condizione indispensabile e di estrema importanza per il potenziamento dell’intelligenza musicale. Senza questa fase, infatti, le zone cerebrali implicate nell’apprendimento della musica non verrebbero stimolate adeguatamente e ciò provocherebbe il dirottamento delle attività neuronali verso altri sistemi sensoriali con un inevitabile e conseguente depotenziamento delle abilità musicali. Diversamente, dopo un’idonea formazione musicale di base, è possibile avviare il bambino all’istruzione della musica anche attraverso l’approccio a uno strumento tradizionale, senza peraltro tralasciare l’importanza di una continua esplorazione sonora e dell’accrescimento delle attività creative. È infatti auspicabile che anche in questa fase successiva il bambino impari a conoscere, attraverso la pratica alla musica, le numerose possibilità espressive non solo dello strumento prescelto, ma anche del proprio corpo in movimento e della voce. Quest’ultima, in particolare, rappresenta senz’altro uno degli elementi più preziosi e identificativi del nostro essere, nonché la via più diretta ed efficace per lo sviluppo di una mente musicale. Educare a una voce eufonica è inoltre un requisito indispensabile per ridestare in ciascun individuo un atteggiamento estetico e stimolare a una qualità poetica dell’esistenza.

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  31. E. E. Gordon, op. cit., p. 29.
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  34. H. Gardner, D. Wolf, op. cit.
  35. H. Moog, op. cit.
  36. H. Gardner, D. Wolf, op. cit.