Tradizionalmente, quando si parla di povertà si fa riferimento alla sfera economica e si etichetta come “povero” una persona il cui reddito giornaliero non supera un determinato standard universale, espresso nella valuta della più ricca potenza economica del mondo. Nell’ultimo decennio, però, va ormai affermandosi l’idea di nuove forme di povertà che meglio riescono a descrivere la complessità della società contemporanea. Si tratta di povertà simbolico-esistenziali che, descrivendo condizioni di deprivazione in riferimento alle dimensioni relazionali e ai bisogni sociali, sono povertà non economiche in grado di descrivere tutte le molteplici forme di vulnerabilità che si trovano nel mezzo tra benestanti e poveri, estendendo il concetto di povertà tradizionale.
A queste “povertà umane” – nelle quali mancano le condizioni necessarie per soddisfare i bisogni ritenuti fondamentali per ciascun individuo – è possibile ricondurre quello che Goleman definisce «analfabetismo emotivo»[1], grave piaga della società contemporanea. La povertà emotiva è ben più nascosta e profonda rispetto a quella economica – che in tal senso, risulta essere non l’unica causa dei mali dei nostri giorni, ma un tragico effetto, sicuramente il più evidente – e risiede nell’incapacità di assaporare il presente, di farsi carico del passato e di guardare con coraggio e ottimismo al futuro.
L’analfabetismo emotivo attraversa in maniera trasversale tutte le classi sociali e i gruppi etnici per cui nessun individuo – soprattutto nessun giovane – ricco o povero che sia, è esente dal rischio. In maniera evidente le conseguenze più tragiche di questo diffuso malessere emotivo sono riscontrabili nei tanti episodi di violenza, nei disturbi del comportamento alimentare, nell’uso di droghe e nei suicidi[2]; tuttavia, adottando una prospettiva di indagine più ampia, è possibile riconoscere come sintomi di questo disagio il senso di impotenza, di inadeguatezza e di inquietudine, la voglia di scappare – e l’incapacità di farlo – che sempre più caratterizzano i giovanissimi, impotenti e impreparati nel riconoscere il proprio mondo interiore e, quindi, nel gestire in maniera solida i rapporti con gli altri. In tal senso l’analfabetismo emotivo è, quindi, un vero e proprio problema di ordine sociale che chiama a raccolta tutti gli educatori, genitori ed insegnanti, dal momento che questi giovani, consumatori bulimici e anoressici nei valori[3], angosciati dalla paura del vuoto e impauriti dalla relazione con l’altro, saranno protagonisti del nostro domani.
A descrivere l’intelligenza emotiva come l’ingrediente fondamentale per aver successo nella vita sono per primi Mayer e Salovey[4] che, continuando a percorrere la via aperta dalle intuizioni di Gardner[5] sull’esistenza di forme diverse di intelligenza umana, la definiscono come la capacità che hanno gli individui di monitorare le emozioni e i sentimenti propri e altrui, di discriminare tra sentimenti ed emozioni e di utilizzare le informazioni ricavate per guidare comportamenti e pensieri in modo adeguato alle diverse situazioni. Resa poi nota dal giornalista del “New York Times” Daniel Goleman, che la utilizza come titolo del suo libro del 1996 divenuto best seller, l’espressione “intelligenza emotiva” fa riferimento a cinque abilità distinte ma complementari che sono l’autoconsapevolezza, il controllo delle emozioni, la motivazione di se stessi, il riconoscimento delle emozioni altrui tramite i processi di identificazione ed empatia e, infine, la capacità di gestire le relazioni interpersonali. L’individuo emotivamente competente è colui che ha piena consapevolezza del suo mondo interiore, sa decidere conformemente ai propri sentimenti in ogni momento della vita, ha stabile autostima, è in grado di operare una valutazione realistica dei suoi talenti, sa gestire in modo efficace anche frustrazioni ed insuccessi, è in grado di entrare in sintonia con gli altri e instaurare con loro rapporti di collaborazione e fiducia.
L’intelligenza emotiva, a differenza dell’intelligenza tradizionale standardizzabile con il Q. I., si può educare, sviluppare e raffinare durante tutta la vita, e in particolare durante il periodo critico di apprendimento, dal momento che un temperamento non è destino.
Come le neuroscienze hanno dimostrato ampiamente[6], nasciamo neotenici e abbiamo bisogno di tempo e lentezza per strutturarci: il nostro cervello, estremamente plastico e ridondante alla nascita, prende forma attraverso l’esperienza e, quindi, anche attraverso il contatto con l’altro. Se alla nascita abbiamo una quantità sbalorditiva di neuroni con una possibilità pressoché infinita di sinapsi che si possono stabilire, se attraverso il processo di pruning (potatura) il cervello perde le connessioni neurali meno usate e stabilizza i circuiti sinaptici più utilizzati e se lo sviluppo più intenso avviene durante i primi anni di vita, allora l’infanzia è una ricchissima finestra di opportunità. Come scrive Siegel, psichiatra e direttore del Mindsight Institute della University of California di Los Angeles
La neurobiologia interpersonale riconosce il potere delle relazioni di plasmare il cervello, e il potere del cervello di plasmare le relazioni. Se si considera che il cervello sviluppa gran parte dei propri circuiti regolativi durante i primi cinque anni di vita, appare chiaro come questi primi anni siano di fondamentale importanza per aiutare la prossima generazione a sviluppare facoltà come l’intelligenza emotiva e sociale e le funzioni esecutive. (…) La comunicazione integrativa tra caregiver e bambino stimola l’attivazione e la crescita di fibre integrative nel cervello, ossia delle fibre che rendono possibile il coordinamento e l’equilibrio del sistema nervoso alla base dell’autoregolazione. In altri termini, l’integrazione interpersonale favorisce l’integrazione neurale[7].
La strutturazione di un sé equilibrato ed emotivamente consapevole è un obiettivo educativo di ordine sociale, dal momento che nell’affettività «c’è sempre relazione e, cioè, costruzione, sia pure a volte fragile e frammentaria, di dialogo e di ascolto, di silenzio e di contatto: di intersoggettività»[8].
Un proverbio africano recita che “per educare un bambino ci vuole un villaggio”: per educare i giovani, nella loro complessità di individui, è necessaria, come appare sempre più evidente, una nuova cultura pedagogica condivisa, un vero e proprio patto educativo tra scuola e famiglia.
Importantissimo è il ruolo della famiglia, e della madre in primis[9], nell’educazione alle emozioni ma, se un’educazione volta alla competenza emotiva è necessaria nella società contemporanea, ancor più che in passato, è fondamentale chiamare in causa tutti i luoghi di formazione, innanzitutto la scuola, che accompagna l’individuo in maniera trasversale per gran parte della sua vita.
Alcuni genitori, come faceva notare già Goleman[10], sono eccellenti allenatori emotivi, capaci di prendere sul serio bisogni e preoccupazioni dei figli, tracciando confini sicuri – ma non opprimenti – in cui crescere emotivamente sani e socialmente efficienti. Altri lo sono meno e, incapaci di educare i propri figli all’indipendenza e all’autostima, favoriscono eccesso e dismisura.
Oggi sappiamo che l’impatto del comportamento dei genitori sulla competenza dei figli nella sfera emotiva comincia dalla culla. Il pediatra di Harvard Brazelton[11] afferma che tutto il futuro apprendimento scolastico del bambino dipende dalle capacità emotive e sociali, da una buona autostima, da un grande interesse nei confronti del mondo e dalla capacità di saper esprimere le proprie esigenze nel rispetto di quelle degli altri. É necessario, quindi, che il bambino arrivi al suo primo giorno di scuola avendo appreso dai genitori le capacità di fiducia, curiosità, intenzionalità, autocontrollo, comunicazione e cooperazione, che rappresentano un “Heart Start”, l’equivalente nella sfera emotiva dei programmi di “Head Start” – introdotti negli Stati Uniti a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso e rivolti a ragazzi in età prescolare provenienti da ambienti socialmente ed economicamente svantaggiati[12].
Fondamentale è poi un solerte intervento da parte della scuola, sia nei confronti di quei ragazzi cresciuti con buone guide emotive sia per coloro che non sono stati altrettanto fortunati. Nel primo caso, infatti, è bene tenere presente che l’apprendimento emozionale mette radici e fruttifica quando le esperienze si ripetono continuamente – e il cervello le accoglie come percorsi neuronali consolidati che vengono depositati nella memoria dell’individuo per poter riaffiorare nei momenti di bisogno – nel secondo, invece, se la famiglia non rappresenta un valido punto di riferimento per il ragazzo, resta soltanto la scuola per correggere carenze di competenza emozionale e sociale.
L’alfabetizzazione emozionale, pertanto, comporta spesso che il ruolo sociale degli insegnanti si estenda e vada a compensare le eventuali mancanze familiari. In realtà, è soltanto a partire dagli anni Novanta che si comincia a riconoscere, non più soltanto a livello di senso comune, l’importanza – e la necessità – di un’educazione emotiva all’interno dell’ambiente scolastico. Attualmente sono tantissimi i progetti di educazione alle emozioni che, articolati in maniera diversa a seconda della fascia d’età cui sono rivolti, tendono ad approfondire le competenze di base dell’intelligenza emotiva. Si procede innanzitutto con una vera e propria “alfabetizzazione emotiva” – da affiancare alle attività di alfabetizzazione vere e proprie – in cui si insegna ai bambini ad identificare i segnali emotivi provenienti da sé o dagli altri, mostrando come ogni emozione possieda un suo linguaggio specifico; successivamente è possibile far riflettere i ragazzi sulle cause – interne o esterne – che possono scatenare le varie emozioni e sul rapporto tra esperienza emozionale interna ed espressione dell’emozione esterna; infine ci si può soffermare sulle finalità di ogni emozione e sugli obiettivi personali, sulle varie strategie di coping e sulla condivisione sociale delle emozioni.
Interessanti sono le tecniche di alfabetizzazione emotiva proposte nel format Didattica delle emozioni, curato da Erickson e rivolto agli insegnanti. Si tratta di attività destinate a studenti di varie età, a partire dai 4 anni e, soprattutto per i più piccoli, queste attività si articolano sotto forma di gioco. A titolo di esempio, il gioco delle marionette richiede ai bambini di riportare un episodio della vita quotidiana attraverso le marionette: l’insegnante chiede loro come vorrebbero si svolgesse la vicenda e li invita a partecipare in prima persona alla drammatizzazione. Per il trenino delle emozioni è necessario costruire negli spazi scolastici un percorso ferroviario con stazioni rappresentanti le varie emozioni (la stazione della rabbia, della paura, della gioia), magari disegnando su dei cartoncini alle pareti dell’aula: durante il gioco del trenino, ogni bambino sarà chiamato a “scendere” dal treno alla fermata ritenuta più consona al proprio stato d’animo.
Ai ragazzi più grandi sono destinate attività come il gioco music stop and go in cui viene proiettata una scena significativa dal punto di vista emotivo di un cartone animato o di un filmato senza audio, ai bambini si fanno ascoltare diversi brani musicali e si chiede loro di indovinare la colonna sonora originale. O ancora il gioco della scaletta nel quale l’insegnante individua un’emozione neutra e invita i ragazzi a ricercare emozioni di intensità superiore ed inferiore, individuando di volta in volta il loro nome.
Infine adatte ai ragazzi di scuola superiore sono le attività presentate nel format Erickson come stop alle lezioni e la sedia che scotta: nel primo caso si tratta di provocare emotivamente gli studenti interrompendo la lezione e chiedendo loro di proporre soluzioni ai problemi di classe, nel secondo caso si necessita della presenza di uno psicologo che chiederà ai ragazzi di sedersi in cerchio intorno ad una sedia vuota, sulla quale inviterà di volta in volta gli studenti a sedersi per presentare i compagni di classe.
Uno strumento adatto a tutte le fasce d’età è invece l’appello emotivo che può essere declinato in tantissimi modi in maniera da risultare più o meno impegnativo: è la tecnica più apprezzata dagli alunni e risulta, nel complesso, la più efficace. In sostanza l’insegnate chiede a ciascun ragazzo di rispondere all’appello “presente” e di esprimere con un numero da 1 a 10 il valore dell’umore personale in quel momento; è possibile annotare i valori riferiti giorno per giorno per monitorare in un arco di tempo predefinito l’andamento delle emozioni e dell’umore di ciascun allievo. A ciascuna scadenza, solitamente ogni 20-30 giorni, l’insegnante sollecita ciascuno studente a riflettere sulle proprie valutazioni, sulla loro origine emotiva, aiutandolo ad identificare eventuali cause e a prospettare possibili strategie di coping.
Sempre più spesso, inoltre, i vari progetti di educazione alle emozioni svolti nelle scuole si avvalgono dell’utilità della musica e della parola come veicoli privilegiati per l’espressione della sfera emotiva.
Già Mayer e Salovey nel loro articolo del 1997 intitolato “What is emotional intelligence?”, mostrano come l’apprendimento emotivo avvenga in maniera quasi naturale attraverso l’arte, dal momento che per definizione essa è espressione di sentimenti.
In un mondo nel quale tutte le cornici di riferimento cambiano in continuazione, in cui occorre essere sempre al passo coi tempi, un mondo nel quale è necessario essere flessibili per sapersi adattare alle circostanze mutevoli della vita, sta a ciascun individuo strutturare – e ristrutturare – la propria identità, riconoscendo il proprio mondo interiore e imparando a relazionarsi in maniera efficace con l’altro.
La lettura è un indispensabile strumento di consapevolezza emotiva e, quindi, di emancipazione sociale dal momento che, come i lettori appassionati sicuramente riescono ad intuire con facilità, si tratta di un’esperienza altamente formativa, fondamentale per modificarci e cambiare la percezione che abbiamo di noi stessi e del mondo.
Attraverso i libri che leggiamo, costruiamo il nostro essere, che è tatuato di parole. Senza i buoni libri che abbiamo letto, che ci hanno creati e ricreati, saremmo in qualche modo peggiori di quello che siamo, meno ribelli, meno coraggiosi e più conformisti. Leggere non è mai un dovere ma una scelta libera da cui derivano moltissimi benefici come l’apprendimento della lingua, la conoscenza del mondo, lo sviluppo dell’immaginazione e, soprattutto, la crescita personale e interiore.
La nostra specie è letteralmente intrisa di finzione e siamo stati da sempre profondamente legati alle storie perché, se il nostro corpo è sempre vincolato ad un qui e un ora, la nostra mente è costantemente libera di vagare oltre lo spazio e il tempo – e anzi lo fa in continuazione. Le storie sono per noi umani qualcosa di vitale al punto che già i nostri progenitori, decine di migliaia di anni fa, molto tempo prima che si inventasse la scrittura, si intrattenevano intorno al fuoco raccontandosi vicende di creature fantastiche, amori di giovani eroi e intuizioni sull’origine delle cose. Estremamente affascinante è il fatto che ancora oggi viviamo di racconti, la maggior parte degli uomini ancora discute intorno ai miti sull’origine delle cose e si emoziona per l’enorme quantità di racconti di finzione che si leggono nei libri, si vedono sugli schermi, si ascoltano nelle canzoni.
Come fa notare Gottschall[13], il nostro progenitore è l’Homo fictus, la grande scimmia antropomorfa la cui mente era capace di raccontare storie: l’uomo ha un vero e proprio istinto a narrare – e una passione nell’ascoltare racconti – e per natura, la mente umana cede impotente al fascino del “c’era una volta”.
Se, dunque, gli uomini desiderano ardentemente le storie, se una storia ha il potere di far ridere o piangere, di far accapponare la pelle, di alterare il modo in cui immaginiamo noi stessi e il nostro mondo, di plasmare sottilmente le nostre convinzioni e i nostri comportamenti, e se le storie hanno avuto da sempre questo potere, allora vuol dire che in un certo senso il narrare ci appartiene, ci caratterizza in quanto uomini e, quindi, ci è utile a qualcosa.
I teorici dell’evoluzione come Brian Boyd[14], Steven Pinker[15] e Michelle Scalise Sugyama[16], sottolineando la caratteristica di base dello storytelling – cioè la sua struttura articolata intorno al problema secondo lo schema Storia = Personaggio + Situazione difficile/Problema + Tentativo di superamento[17], affermano che attraverso le narrazioni ci alleniamo a sviluppare le nostre abilità più importanti.
Le storie, dunque, prima raccontate intorno al fuoco, poi lette nei libri ed oggi anche attraverso i moderni dispositivi tecnologici, sono una potentissima forma di simulazione virtuale che ci permette di fare pratica con l’ampia gamma dei sentimenti umani, attraverso l’identificazione empatica coi personaggi, senza patirne direttamente le conseguenze. Leggendo un libro e identificandoci empaticamente nei personaggi possiamo condannare, amare, perdonare, odiare, senza correre nessuno dei rischi che questi sentimenti normalmente comportano[18].
La psicologa e romanziera Keith Oatley considera le storie come simulatori di volo per la vita sociale umana[19]. Se i simulatori di volo[20] consentono, infatti, ai piloti di addestrarsi in sicurezza, le storie ci preparano alle grandi sfide del mondo sociale. Come in un simulatore di volo, la finzione narrativa ci consente di vivere esperienze forti, parallelamente ai problemi che affrontiamo quotidianamente, rimanendo al sicuro. Dunque, cerchiamo le storie perché ci piacciono ma la natura ci ha progettati per amarle affinché potessimo godere del vantaggio derivante dal fare pratica.
Gli studi neuroscientifici hanno dimostrato ciò che il senso comune sa da sempre e cioè che la pratica è importantissima in tutte le cose che facciamo, dal momento che la ripetizione di compiti stabilisce nel cervello – organo estremamente plastico – connessioni neurali più dense ed efficienti, rendendo le nostre azioni più incisive, veloci e sicure, e per questo, più ci esercitiamo attraverso le storie, migliore sarà la nostra esecuzione quando il problema si presenterà nella nostra vita reale.
La questione diventa ancora più interessante se si considerano le recenti scoperte sui neuroni specchio[21] che hanno dimostrato come simulare equivale a fare, dal momento che se si osserva qualcuno compiere un’azione finalizzata o provare un’emozione, si risuona insieme a lui ovvero si attivano in noi i medesimi circuiti neurali che si attiverebbero se compissimo l’azione in prima persona o esperissimo l’emozione personalmente.
Alla luce di queste riflessioni, è possibile, dunque, dedurre che la lettura incide in modo notevole sulla personalità in formazione e che, attraverso un contatto non episodico con testi letterari, i processi di strutturazione identitaria dell’adolescente possono efficacemente essere influenzati. Si può imparare molto leggendo opere letterarie, attraverso l’osservazione di personaggi che esprimono e mostrano le proprie emozioni, attraverso il modo in cui essi affrontano le situazioni in risposta ai loro sentimenti, analizzando le strategie di coping messe in atto e valutandone l’efficacia.
Mayer e Salovey[22] definiscono la letteratura “la prima dimora delle intelligenze emotive”: supponendo che i libri siano il luogo in cui facciamo pratica con i sentimenti, riflettendo sulle grandi potenzialità della letteratura nella formazione dell’individuo e considerando il fatto che, attraverso le azioni, i pensieri e le emozioni dei personaggi di finzione, soprattutto i giovani possono imparare a conoscere se stessi e il mondo, allora è possibile intendere la lettura come strumento utile per acquisire una buona competenza emotiva.
Tutte queste potenzialità della lettura hanno un valore inestimabile per i bambini che, durante la crescita, sono continuamente in cerca di punti di riferimento, strutturano il proprio essere, si costruiscono immagini con cui pensare, imparano a riconoscere e gestire le loro emozioni ed è per questo che è possibile pensare alla lettura come strumento di educazione alle emozioni, ipotizzando un vero e proprio percorso di alfabetizzazione emotiva nella scuola attraverso una selezione di testi letterari.
D’altra parte se la lettura è così importante nella vita di ciascun individuo, fondamentale è il ruolo degli educatori, genitori ed insegnanti, nel rendere il bambino un lettore efficiente e consapevole.
Quella con il libro è una storia d’amore che comincia prestissimo, quando, seduti sulle gambe di mamma o papà, gli adulti leggono per noi alla sera. La storia letta alla sera, come già Pennac[23] sottolineava, più bella e disinteressata di una preghiera, mette in risalto una delle funzioni essenziali del racconto e più in generale dell’arte, che è quella di imporre una tregua alla lotta degli uomini, uno sgravo al peso della quotidianità. Con i ritmi frenetici della vita di oggi, sono sempre di meno i genitori che ritagliano del tempo per leggere ai propri figli storie ad alta voce. I risultati della recente indagine condotta da YouGov per l’editore Scholastic parlano chiaro: un terzo dei genitori non hai mai letto una favola ai propri figli e, quelli che lo fanno, si fermano, nella maggior parte dei casi, prima dei 9 anni, quando i figli vorrebbero continuassero – l’83% dei bambini ha dichiarato di aver apprezzato la lettura del genitore ad alta voce e il 68% descrive il rito della lettura della favola della buonanotte come un momento speciale vissuto coi genitori. Tuttavia, sono molti i bambini che fanno il loro primo incontro con la lettura tra i banchi di scuola, benché sia ormai chiaro che, come ha ricordato Frank Cottrell Boyce, vincitore del premio Carnegie nel 2004, “la gioia di una favola è la chiave per lo sviluppo dell’amore per la lettura nei bambini”. La lettura ad alta voce promuove nel bambino piccolo lo sviluppo del linguaggio, di abilità quali il riconoscimento delle lettere, l’individuazione delle varie parti di cui è composta una storia e la consapevolezza fonologica, lo sviluppo di processi quali la memoria e la comprensione. La lettura ad alta voce, soprattutto se fatta in maniera accattivante, promuove, inoltre, la competenza semantica e lessicale: cosa non da poco, siccome attraverso le parole che conosce il bambino disegna i confini del suo mondo mentale, contenente tutte le potenzialità e gli strumenti che il bambino potrà sfruttare in futuro – “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”, scriveva Wittgenstein nel 1921. La lettura ad alta voce è inoltre importantissima nell’interazione madre/padre – figlio, fondamentale per lo sviluppo dell’autostima del bambino, per lo sviluppo di strategie di coping e la nascita di un rapporto d’amore con la lettura dal momento che, attraverso la lettura ad alta voce, il bambino piccolo comincia ad associare l’atto della lettura all’essere amato[24]!
Secondo i dati Istat degli ultimi anni, una quota pari al 63,3% di bambini tra i 2 e i 5 anni “legge, colora, sfoglia libri o albi illustrati tutti i giorni al di fuori dell’orario scolastico”[25], una percentuale molto alta che dimostra come nei primi anni di vita i bambini associano i libri all’esplorazione, al gioco, ai colori, al piacere. In seguito, i testi scritti diventano strumenti per l’apprendimento, per lo sviluppo di competenze e la dimensione ludica della lettura si smarrisce. Come scrive Pennac[26] però il piacere di leggere si smarrisce non troppo lontano ed è facile da ritrovare. Il ruolo degli adulti è fondamentale: il buon lettore, infatti, rimarrà, o tornerà, se gli adulti che lo circondano nutrono il suo entusiasmo, stimolano il suo desiderio di imparare, lo accompagnano nel suo sforzo, alimentano il piacere per la lettura, riscoprendolo anche essi in prima persona.
Educare alla lettura significa innanzitutto e principalmente, far emergere nell’individuo il desiderio di intrattenersi in compagnia di un buon libro, far nascere in lui le ragioni per cui dedicarsi a tale pratica, affinché possa essere selezionata e scelta tra le altre possibili, in seguito conservata, forse a tratti abbandonata, ma sempre ripresa.
Le politiche educative territoriali accolgono le istanze sociali e culturali sulla lettura, come pratica sistematica ed organizzata, fin dalla prima infanzia, con risposte istituzionali che si collocano all’interno dell’evoluzione dei servizi per l’infanzia. Sempre più spesso nascono attività come i Centri Lettura – chiamati anche “spazio lettura”, “biblioteca infanzia”, “biblioteca zerosei” – per favorire l’incontro tra libro e bambini tra 0 e 6 anni, accompagnati da genitori ed insegnanti[27]. Questi progetti, basati sull’esperienza della lettura ad alta voce da parte dell’adulto al bambino, permettono di avviare fin dalla più tenera età il processo della literacy sia sul piano cognitivo che emotivo.
La precocità nell’avvicinare i bambini alla lettura è intesa come probabilità di successo rispetto all’esposizione tardiva dal momento che la capacità di leggere è il risultato di un lungo ed articolato processo di simbolizzazione che dal disegno, all’interpretazione del disegno arriva alla lettura decifrativa. É bene sottolineare che nei progetti dei Centri Lettura lo scopo principale non è l’insegnamento della tecnica della lettura, ma il consolidamento della motivazione ad essa e la costruzione della capacità di cogliere legami tra gli elementi, tanto reali che simbolici.
Di tutto quello che si impara a scuola, nulla è di pari importanza rispetto alla lettura: gli insegnanti hanno un compito delicatissimo nell’insegnarla perché il modo in cui l’apprendimento della lettura è sperimentato dal bambino avrà serie ripercussioni sul suo modo di giudicare il sapere in generale, sul modo di concepirsi come studente e addirittura come persona.
Come affermano Bettelheim e Zelan[28], indipendentemente da quanto il bambino porta a scuola dalla famiglia – sappiamo certamente che un apprendimento sereno e veloce dipende in una certa misura dalle doti naturali del bambino, dalla sua capacità di usare il linguaggio, dalla sua autostima e in generale dal suo ambiente familiare – una volta che si trova in classe il fattore più importante nell’apprendimento della lettura è come la lettura stessa e il suo valore-significato gli sono presentate dall’insegnante. Se la lettura gli appare un’esperienza interessante, valida e dilettevole, allora la fatica che gli viene chiesta per imparare a leggere gli sembrerà un prezzo esiguo da pagare, in paragone ai grossi vantaggi del saper leggere.
Esiste, quindi, una relazione biunivoca tra un ambiente casa-scuola ricco di storie, che attribuisce grande importanza alla lettura e stimola la conversazione sui libri, e la crescita di lettori appassionati e abituali. Come ormai anche la scienza ha dimostrato, rafforzando il buon senso comune, il ruolo della famiglia prima e della scuola poi è fondamentale per la formazione dei giovani lettori – per cui la stragrande maggioranza dei ragazzi che amano leggere sono figli di lettori e hanno avuto una buona esperienza scolastica legata alla lettura. Fortunatamente, similarmente a quanto avviene con il fenomeno della povertà emotiva, non è affatto detto che a leggere maggiormente saranno i figli di famiglie privilegiate, dal punto di vista sociale, politico ed economico: ci sono ambienti degradati in cui si attribuisce grande importanza ai libri – intesi come strumento di emancipazione o anche semplicemente come mezzo di evasione – e ambienti agiati nei quali l’atteggiamento dominante verso la letteratura è del tutto ostile.
Il più grande compito degli educatori è trasmettere ai bambini il messaggio che vale la pena leggere, nonostante la grande fatica iniziale, nonostante ci siano attività apparentemente più divertenti e meno impegnative. Molto bella è la metafora che utilizzano Bettelheim e Zelan[29] quando scrivono che l’impadronirsi di una capacità tecnica come quella di decifrare le parole può essere paragonato all’acquisizione della capacità di aprire una porta: che il bambino apra effettivamente la porta dipende sostanzialmente da quello che si aspetta di trovare dietro di essa. Se al bambino gli adulti hanno spiegato che grazie alla lettura potrà viaggiare oltre lo spazio e il tempo, facendo amicizia con personaggi divertenti e affascinanti, immaginando luoghi e tracciando nuovi confini alla mente, allora il bambino oltrepasserà la porta – cosa che certamente non farà se ha ricevuto l’impressione che dietro la porta ci siano più o meno le stesse cose sgradevoli sperimentate durante l’acquisizione della capacità di aprirla.
Pertanto di fondamentale importanza è il fatto che il bambino trovi interessante sia il modo in cui l’insegnante gli presenta la lettura sia gli stessi testi sui quali egli è chiamato a sviluppare questa capacità. Se, infatti, è di fondamentale importanza che l’apprendimento della lettura dia la sensazione che grazie ad esso nuovi mondi si apriranno alla sua mente e alla sua immaginazione, se è necessario che il bambino impari a leggere spinto dal desiderio di acquisire uno strumento che gli consentirà per tutta la vita di diventare quel che vuole ed essere dove desidera, è ovvio che l’insegnante debba essere un buon tramite e che i testi sui quali il bambino imparerà a leggere debbano esercitare un certo fascino su di lui.
Tocca all’insegnante scegliere i materiali attraverso i quali avvicinare i piccoli alla lettura e certamente, avvicinando i bambini con passione alla lettura, selezionando libri adatti[30] – e soprattutto interessanti nei quali i piccoli lettori riescano con facilità ad identificarsi – e accordando ai lettori un po’ più esperti tutti i “diritti”[31] che accordiamo a noi stessi, è concreta la possibilità di renderli buoni lettori per la vita.
Solo se si riesce a trasmettere ai bambini e ai ragazzi l’amore per la lettura, essi diventeranno lettori appassionati e potranno beneficiare degli infiniti vantaggi derivanti da questa esperienza formativa, primo tra tutti la possibilità di esercitarsi nelle competenze emozionali e sociali più importanti, diventando soggetti emotivamente consapevoli, capaci di fare ordine nel proprio mondo interiore e intrattenere sani rapporti interpersonali.
Bibliografia
BRUNO BETTELHEIM, KAREN ZELAN, On learning to read. The child’s fascination with meaning, New York, Alfred A. Knopf, 1982 (trad. it. di Andrea D’Anna, Imparare a leggere. Come affascinare i bambini con le parole, Milano, Feltrinelli editore, 1982).
EUGENIO BORGNA, L’arcipelago delle emozioni, Milano, Feltrinelli, 2001.
BRIAN BOYD, On the Origin of Stories. Evolution, Cognition and Fiction, Cambridge, MA., Harvard Univ. Press, 2009.
JOHN BOWLBY, Child care and the growth of love, Hrmondsworth, Penguin, 1953 (trad. it. Assistenza all’infanzia e sviluppo affettivo, Roma, Armando, 1973).
THOMAS BERRY BRAZELTON, Heart Start: The Emotional Foundations of School Readiness, Arlington, VA, National Center for Clinical Infant Programs, 1992.
JANET BURROWAY, Writing Fiction. A Guide to Narrative Craft, terza edizione, New York, Longman, 2003.
HOWARD GARDNER, Frames of Mind: The Theory of Multiple Intelligences, New York, Basic Books, 1983 (trad. it. Formae mentis, saggio sulle intelligenze multiple, Milano, Feltrinelli, 1987).
VANNA GHERARDI, Progetto Lettura: da attività occasionale a pratica organizzata, in Infanzia, VI, nov-dic 2015, Parma, Spaggiari Edizioni, 2015.
DANIEL GOLEMAN, Emotional Intelligence, New York, Bantam Books, 1995 (trad. it. Intelligenza emotiva. Che cos’è e perché può renderci felici, Milano, Bur Rizzoli, 1996).
JOHN GOTTMAN, JOAN DECLAIRE, Intelligenza emotiva per un figlio. Una guida per i genitori, Bur Parenting, 2015.
JONATHAN GOTTSCHALL, The Storytelling Animal. How Stories Make Us Human, 2012 (trad. it. di Giuliana Olivero, L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno resi umani, Bollati Boringhieri, 2014).
STEPHEN JAY GOULD, Ontogeny and phylogeny. Harvard University Press, 1977.
LAMBERTO MAFFEI, Elogio della lentezza, Bologna, Il Mulino, 2014.
JOHN MAYER, PETER SALOVEY, What is emotional intelligence? In P. Salovey, D. Sluyter (a cura di), Emotional development and emotional intelligence: Implications for educators, Basic Books, 1997.
KEITH OATLEY, The Mind’s Flight Simulator, in Psychologist, 21, pp. 1030-32, 2008.
DANIEL PENNAC, Comme un roman, Paris, Gallimard, 1992 (trad. it. di Y. Mélaouah, Come un romanzo, Milano, Feltrinelli, 1993).
STEVEN PINKER, How the Mind Works, New York, Norton, 1997 (trad. it., Come funziona la mente, Milano, Mondadori, 2002).
GIACOMO RIZZOLATTI, CORRADO SINIGAGLIA, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Milano, Cortina Raffaello, 2006.
PETER SALOVEY, JOHN MAYER, “Emotional Intelligence”, in Imagination, Cognition and Personality; 9(3), pp. 185-211, 1990.
MICHELLE SCALISE SUGIYAMA, Reverse – Engineering Narrative. Evidence of Special Design, in The Literary Animal Evolution and the nature of narrative (a cura di Gottschall e Wilson); pp. 177-96, 2005.
DANIEL SIEGEL, Mappe per la mente. Guida alla neurobiologia interpersonale, Raffaello Cortina Editore, 2014.
- D. Goleman, Emotional Intelligence, New York, Bantam Books, 1995; trad. it. Intelligenza emotiva. Che cos’è e perché può renderci felici, Milano, Bur Rizzoli, 1996. ↩
- In proposito i dati dei vari report dell’Eurobarometro, relativi agli ultimi 5 anni, sull’aumento di violenza, uso di droghe e suicidi sono molto interessanti. http://ec.europa.eu/ ↩
- L. Maffei, Elogio della lentezza, Bologna, Il Mulino, 2014. ↩
- P. Salovey, J. Mayer, “Emotional Intelligence”, in Imagination, Cognition and Personality; 9(3), pp. 185-211, 1990. ↩
- H. Gardner, Frames of Mind: The Theory of Multiple Intelligences, New York, Basic Books, 1983; trad. it. Formae mentis, saggio sulle intelligenze multiple, Milano, Feltrinelli, 1987. ↩
- Cfr. S. J. Gould, Ontogeny and phylogeny. Harvard University Press, 1977. ↩
- D. Siegel, Mappe per la mente. Guida alla neurobiologia interpersonale, Raffaello Cortina Editore, 2014, pp. 20-8, 20-9. ↩
- E. Borgna, L’arcipelago delle emozioni, Milano, Feltrinelli, 2001, p.88. ↩
- Cfr. J. Bowlby, Child care and the growth of love, Hrmondsworth, Penguin, 1953; trad. it. Assistenza all’infanzia e sviluppo affettivo, Roma, Armando, 1973; J. Gottman, J. Declaire, Intelligenza emotiva per un figlio. Una guida per i genitori, Bur Parenting, 2015. ↩
- D. Goleman, op. cit. ↩
- T. B. Brazelton, Heart Start: The Emotional Foundations of School Readiness, Arlington, VA, National Center for Clinical Infant Programs, 1992. ↩
- T. B. Brazelton, op. cit. ↩
- J. Gottschall, The Storytelling Animal. How Stories Make Us Human, 2012; trad. it. di Giuliana Olivero, L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno resi umani, Bollati Boringhieri, 2014. ↩
- B. Boyd, On the Origin of Stories. Evolution, Cognition and Fiction, Cambridge, MA., Harvard Univ. Press, 2009. ↩
- S. Pinker, How the Mind Works, New York, Norton, 1997; trad. it., Come funziona la mente, Milano, Mondadori, 2002. ↩
- M. Scalise Sugiyama, Reverse – Engineering Narrative. Evidence of Special Design, in The Literary Animal Evolution and the nature of narrative (a cura di Gottschall e Wilson); pp. 177-96, 2005. ↩
- J. Gottschall, op. cit. ↩
- J. Burroway, Writing Fiction. A Guide to Narrative Craft, terza edizione, New York, Longman, 2003. ↩
- K. Oatley, The Mind’s Flight Simulator, in Psychologist, 21, pp. 1030-32, 2008. ↩
- Gli amministratori della marina militare hanno verificato la funzionalità dei simulatori di volo per accertare se, alla fine dell’addestramento, i piloti che li usano per esercitarsi abbiano maggiori probabilità di risultare piloti esperti, per non dire vivi, rispetto a quelli che si qualificavano prima dell’avvento dei simulatori. Il risultato è stato inequivocabile: i simulatori di volo funzionano. J. Lehrer, How We Decide, Boston, Mifflin, 2009; trad. it. Come decidiamo, Torino, Codice, 2009. ↩
- Cfr. G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Milano, Cortina Raffaello, 2006. ↩
- J. Mayer, P. Salovey, What is emotional intelligence? In P. Salovey, D. Sluyter (a cura di), Emotional development and emotional intelligence: Implications for educators, Basic Books, 1997. ↩
- D. Pennac, Comme un roman, Paris, Gallimard, 1992 (trad. it. di Y. Mélaouah, Come un romanzo, Milano, Feltrinelli, 1993). ↩
- E. Duursma, M. Augustyn, B. Zuckerman, Reading aloud the children: the evidence, Arch Dis Child, Vol 93 No 7, 2008. L. Wittgenstein, Tractatus logico – philosophicus e Quaderni 1914 – 1916, Piccola biblioteca Einaudi, 2009. http://www.theguardian.com/education/2015/sep/26/bedtime-story-is-key-to-literacy-says-childrens-writer-cottrell-boyce?CMP=fb_gu ↩
- Aie, L’editoria per ragazzi in sintesi, Milano, 2015, p.1. http://www.giornaledellalibreria.it/ ↩
- D. Pennac, op. cit. ↩
- V. Gherardi, Progetto Lettura: da attività occasionale a pratica organizzata, in Infanzia, VI, nov-dic 2015, Parma, Spaggiari Edizioni, 2015. ↩
- B. Bettelheim, K. Zelan, On learning to read. The child’s fascination with meaning, New York, Alfred A. Knopf, 1982; trad. it. di Andrea D’Anna, Imparare a leggere. Come affascinare i bambini con le parole, Milano, Feltrinelli editore, 1982. ↩
- B. Bettelheim, K. Zelan, op. cit. ↩
- Per i più piccoli ci si può riferire, ad esempio, a scrittori come Mario Lodi, Bianca Pitzorno, Gianni Rodari, Luis Sepùlveda; per i ragazzi più grandi si possono consigliare autori come Astrid Lindgren, autrice delle avventure di “Pippi Calzelunghe”, Mark Twain, con “Le avventure di Tom Sawer” e “Le avventure di Huckleberry Finn”, Johan Grant, autore di “Le avventure di Pokonaso”, Joanne Rowling, con la sua saga di Harry Potter, Lewis Carroll, autore di “Alice nel paese delle meraviglie”, per il genere della fiaba, Hans Andersen, i fratelli Grimm, Tolstoj e Italo Calvino, per la favola l’intramontabile Esopo. ↩
- Ovvero:
- Il diritto di non leggere.
- Il diritto di saltare le pagine.
- Il diritto di non finire un libro.
- Il diritto di rileggere.
- Il diritto di leggere qualsiasi cosa.
- Il diritto al bovarismo.
- Il diritto di leggere ovunque.
- Il diritto di spizzicare.
- Il diritto di leggere a voce alta.
- Il diritto di tacere.
D. PENNAC, Comme un roman, Paris, Gallimard, 1992; trad. it. di Y. Mélaouah, Come un romanzo, Milano, Feltrinelli, 1993. ↩