Introduzione
La visione della Persona come fascio di potenzialità positive, che l’educazione deve contribuire a sviluppare e la terapia a ripristinare, è abbracciata sia dallo psicoterapeuta statunitense Carl Rogers sia dall’educatore francese Célestin Freinet. Si tratta di una concezione evidentemente ottimistica che scorge in ciascun individuo, custode del motore della sua crescita e agente del proprio cambiamento, non soltanto l’aspirazione a realizzarsi e a perfezionarsi, ma anche la capacità di farlo.
Entrambi gli autori ravvisano nella fiducia nel potenziale dell’altro la base per qualsiasi relazione costruttiva in campo educativo e terapeutico. In tale prospettiva, il compito dell’educatore e del terapeuta è quello di rafforzare gli aspetti positivi costitutivi della persona di cui ci si prende cura. Ciò è possibile quando le relazioni interpersonali si svolgono nella logica della “relazione di aiuto” favorente la crescita equilibrata, il raggiungimento dell’autonomia, lo sviluppo della capacità di affrontare e di superare gli ostacoli; ovvero, quando si svolgono in un clima di ascolto e di accoglienza, in un contesto non direttivo, non prevaricante, in cui, non imponendo nulla dall’esterno, si creano le condizioni atte a favorire il libero sviluppo delle potenzialità dell’individuo e la soddisfazione del suo bisogno di realizzazione.
La fioritura delle potenzialità, ovvero lo sviluppo di quel che Rogers denomina potere personale e che in Freinet assume il nome di potenziale di vita, da conseguire attraverso azioni di empowerment, è divenuto, nella prospettiva del paradigma bio-psico-sociale, sinonimo di salute; intesa, quest’ultima, come «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale», così come viene descritta nel manifesto dell’Organizzazione mondiale della sanità fin dal 1986[1].
Rogers, il cui contributo nell’ambito della psicologia clinica è considerato uno dei più originali, è stato «il primo a formulare una visione della natura umana basata sulla fiducia nella capacità innata di ogni individuo a tendere alla salute e all’autoregolazione»[2]. Egli giunge a formulare un approccio psicoterapeutico centrato sulla persona e sul processo di attualizzazione, facendo suoi i princìpi della Psicologia umanistica:
- - un alto concetto dell’uomo, unito a un grande rispetto per ciò che è tipicamente umano;
- - una fiducia nella forza creativa e originale del singolo;
- - una concezione dinamica della persona che assegna, nella costruzione della stessa, una funzione determinante all’autodeterminazione, al progetto e all’idea di sé;
- - il principio dell’unità della persona umana nelle sue componenti, biologica e psicologica, in contrapposizione al dualismo cartesiano e al frazionamento operato dalla psicologia atomistica.
Quella dello psicologo statunitense può essere definita una psicoterapia all’insegna dell’accettazione dell’altro, dell’aiuto all’autorealizzazione, dell’accoglienza e della comunicazione; strumenti, questi ultimi, indispensabili per instaurare una relazione positiva favorente la fiducia e la comprensione reciproca. Con tale psicoterapia egli ha cercato, riuscendovi, di concretare l’idea secondo cui «ogni individuo ha la capacità di indirizzare la propria vita in un modo che sia allo stesso tempo personalmente soddisfacente e socialmente costruttivo»[3. Ivi, p. VII].
L’aggettivo “umanistico” è associato anche alla Pedagogia Freinet. Improntata sulla libera espressione e sulla soddisfazione dei bisogni funzionali dei bambini, essa si presenta come una pedagogia dell’accoglienza e della vicinanza. Per comprendere appieno il valore di quest’espressione, bisogna opporre la figura del maestro della scuola tradizionale a quella del maestro della Scuola Moderna fondata dall’educatore francese. Nella scuola tradizionale, i rapporti maestro-allievo sono all’insegna della distanza; il maestro è semplicemente il depositario del sapere e del potere; l’allievo è a scuola solo per imparare e per obbedire. Nella Scuola Moderna, invece, l’alunno non è soltanto un vaso da riempire: egli porta con sé un bagaglio di esperienze, da cui il maestro cerca di partire. Mentre la principale qualità richiesta al maestro tradizionale è l’amore per la scienza, tra le qualità richieste al maestro della Scuola Moderna figura l’amore per il bambino, unito a un’apertura profonda, alla capacità di comprendere, di accogliere e di partecipare ai sentimenti dei suoi allievi. La pedagogia tradizionale presta attenzione solamente alla tecnica e alla cultura enciclopedica, invece, la Scuola Moderna, individuando nell’immaginazione la dimensione tipica dell’infanzia, permette all’educatore di considerare il bambino nella sua totalità affettiva e intellettuale.
L’educazione suggerita da Freinet si avvicina molto all’«educazione secondo l’umano» proposta da R. Hubert, il quale, in Traité de pédagogie générale (1946), afferma che l’educazione non è un innesto sull’altro, ma un aiuto offerto al suo sviluppo; essa non gli dà nulla che non sia già in lui in qualche modo. Il metodo hubertiano consiste nel far uscire l’essere da se stesso; e questo uscire da sé consiste in quel processo di creazione e di rinnovamento dell’essere, in quel processo di superamento di sé che Freinet chiama libera espressione, chiave di volta per promuovere un’educazione terapeutica, in quanto in grado di ristabilire i circuiti affettivi ostruiti dalle pratiche dogmatiche e autoritarie. La pedagogia freinetiana si dice terapeutica in un senso generale: essa esalta senza sosta le potenzialità infantili, fornendo i mezzi per lo sviluppo globale di una personalità individualmente e socialmente equilibrata.
I principi fondamentali dell’educazione umanistica freinetiana possono così essere riassunti:
- - fiducia nel potenziale e nella forza creativa dell’individuo;
- - concezione dinamica della persona;
- - unità del soggetto nelle sue componenti biologica e psicologica, implicante un’educazione integrale;
- - valorizzazione non soltanto della funzione intellettuale, ma anche di quella emotiva, al fine formare un essere completo;
- - promozione dell’apprendimento di un linguaggio emotivo attraverso cui esternare, nominare, sublimare i propri sentimenti.
Un approccio centrato sulla persona
Rogers, sulla base dell’esperienza condotta tra il 1945 e il 1957 in un centro di consulenza per studenti, elabora una nuova teoria e tecnica terapeutica: “terapia centrata sul cliente” o “terapia non direttiva”, in cui l’accento è posto sulla necessità di favorire la libera espressione dell’emotività del paziente, sollecitando un autonomo processo di comprensione della sua realtà psichica (insight). Secondo il nostro «rivoluzionario silenzioso»[3] – per riprendere la definizione utilizzata dal suo ex allievo R. Farson – «concentrarsi sulla malattia invece che sulla salute, sottoporre le persone a diagnosi e cura, etichettarle come pazienti, costituisce un rischio: quello di perdere di vista la persona per concentrarsi sul sintomo dell’utente, passivizzarlo»[4]. Da qui la sostituzione del termine paziente (contenente concettualmente il ruolo passivizzante) con il termine cliente.
Che termine si deve usare per indicare la persona con la quale il terapeuta è in relazione? “Paziente”, “soggetto”, “analizzando” sono i termini che sono stati usati. Noi abbiamo impiegato sempre di più il termine cliente e siamo arrivati al punto di includerlo nell’etichetta “terapia centrata su cliente”. Abbiamo scelto questo termine perché sembra descrivere nel modo più preciso la rappresentazione di questa persona, così come noi la percepiamo. Il cliente, secondo il significato che il termine ha acquistato, è una persona che viene attivamente e volontariamente a chiedere aiuto per risolvere un problema, ma senza alcuna intenzione di rinunciare a essere personalmente responsabile della situazione[6. Ivi, p. 47].
Rogers si focalizza sulla salute, promuovendo azioni di sviluppo del poter personale, nonché l’indipendenza e l’autonomia del cliente. A tal fine, la capacità che il terapeuta deve acquisire è quella di essere profondamente con il cliente; tale capacità, da lui definita “contatto profondo”, si realizza in una relazione contraddistinta dal rispetto e dall’ascolto empatico. Quest’ultimo rimanda non a un atto passivo, ma a un processo attivo di risposta nel quale, partecipando non soltanto con le orecchie, si cerca di comprendere in profondità quanto l’altro ci vuole comunicare. Rimanda a un ascolto autentico[5] dell’altro che esige accettazione, partecipazione e coinvolgimento. Si tratta di un metodo comunicativo efficace perché facilita la liberazione delle emozioni, favorisce l’esplorazione profonda e comunica l’intenzione e l’assunzione di responsabilità nel processo di aiuto.
Comprendere l’altro, comprendere come questi esperisce il rapporto con se stesso e con gli altri, aprendosi alla sua esperienza autenticamente, non attraverso delle categorie diagnostiche standardizzate, rappresenta il principio cardine della Psicoterapia Centrata sul Cliente L’impostazione “non direttiva” rogersiana è animata da una profonda visione positiva che riconosce al cliente tutte le potenzialità necessarie per risolvere i propri problemi dopo averne maturato piena consapevolezza. In passato, tutta l’attenzione era centrata sul problema, sul solo “caso clinico”, del quale si trascurava la relazione con il cliente, relegato a uno stato di ricezione passiva. «Punto focale – afferma Rogers – è l’individuo, non il problema. Lo scopo non è quello di risolvere un problema particolare, ma di aiutare l’individuo perché possa affrontare sia il problema attuale sia quelli successivi in maniera più integrata»[6]. L’enfasi si sposta dalle abilità tecnico-procedurali alle qualità umane dell’operatore di aiuto, vale a dire dal “saper fare” al suo “saper essere”: le competenze tecniche devono attecchire su doti quali sensibilità, accettazione genuina e non giudicante, flessibilità, pazienza, profondità e coerenza.
Secondo Rogers (1977), gli individui sono soggetti attivi e potenzialmente capaci di risolvere i propri conflitti; essi hanno in se stessi ampie risorse per autocomprendersi e modificare il loro concetto di Sé, gli atteggiamenti di base. Queste risorse possono emergere quando viene fornito un clima definibile di atteggiamenti psicologici facilitanti, volti a promuovere nell’altro la crescita, lo sviluppo, la maturità e il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato.
Gli elementi fondamentali per costruire una relazione di aiuto centrata sul cliente, ovvero un’atmosfera adatta al cambiamento, possono essere designati, osserva lo psicoterapeuta statunitense, da alcune parole-chiave. La prima di queste ultime è “contatto psicologico”: il contesto di riferimento di una relazione di aiuto presuppone necessariamente una relazione interindividuale o «contatto personale», da intendersi come strumento privilegiato del colloquio. Altra parola chiave è “congruenza”: con questo termine si intende quella condizione che consente al soggetto di essere liberamente e profondamente se stesso nella relazione. La “comprensione empatica”, invece, è la capacità di sentire e comprendere il mondo soggettivo dell’altra persona come se fosse il nostro; «la capacità del terapeuta di percepire con precisione i sentimenti e i significati personali sperimentati dal cliente»[9. Ivi, p. 17]. È una dote che richiede un decentramento da se stessi tale da portare ad addentrarsi nell’universo dell’altro, nella sua soggettività.
L’atteggiamento empatico implica una scelta, da parte del terapeuta, di ciò cui dovrà prestare attenzione, e cioè il mondo interno del cliente come lo stesso lo percepisce. Questo modifica la politica interpersonale del rapporto: non si esercita in alcun modo un controllo sul cliente, al contrario lo si facilita a ottenere una più chiara comprensione e un migliore controllo del proprio mondo e de proprio comportamento[10. Ivi, p. 18].
Infine, il concetto di “accettazione positiva incondizionata”, precisato in Terapia centrata nel cliente, rimanda a una modalità relazionale per cui la persona che si ha di fronte è apprezzata in quanto individuo unico, con le sue esperienze e i suoi modi personali di sentire. Si tratta di un atteggiamento privo di ogni traccia di valutatività, di qualsiasi tipo di giudizio, riserva, colpevolizzazione, che sottende lo sforzo di ricostruire gli schemi di riferimento del cliente, la sua percezione del mondo; un atteggiamento volto a instaurare un clima di tolleranza che rassicura il cliente aiutandolo a superare la rigidità difensiva che blocca l’esplorazione della sua esperienza vissuta.
Nel pensiero di Rogers (1951), la piena realizzazione, connessa alla salute mentale, è fondata su una predisposizione biologica da lui denominata “tendenza attualizzante”, uno dei tre fattori che svolgono un’azione dinamica nel processo di sviluppo dell’individuo[7]: comune a tutti gli esseri viventi, può essere vista come il sistema energetico-propulsore del dinamismo psichico, cioè come la spinta intrinseca che orienta lo sviluppo verso l’attuazione ottimale delle potenzialità insite nell’individuo. Essa, precisa il nostro Autore, non è né automatica né assoluta, ma c’è bisogno dell’iniziativa, dell’impegno personale, della libertà di decidere della propria condotta.
La tendenza attualizzante rappresenta un punto fondamentale all’interno della teoria della personalità di Rogers, il quale assume una prospettiva che vede la vita come un processo dinamico e che scorge nell’organismo una tendenza ad assumere comportamenti tali da migliorare e conservare se stesso. Egli paragona la tendenza attualizzante al “motore” dell’individuo, spinto verso una sempre maggiore autonomia e maturità, orientato verso l’attuazione ottimale delle sue potenzialità. Grazie a un clima favorevole, tale fonte di energia intrinseca permette a ciascuno il pieno sviluppo.
Relazione terapeutica e relazione educativa
Nel paradigma olistico-sistemico formulato da Rogers in campo psicoterapeutico, la salute appare come il prodotto del contesto delle relazioni umane. In questa prospettiva, il processo della terapia può essere descritto in termini di relazione emotiva fra il cliente e il terapeuta; molti dei cambiamenti che avvengono nel corso della terapia sono effetti collaterali dell’esperienza emotiva consistente nella relazione fra due esseri umani.
Come osserva Rogers (1951), il cliente passa dal vivere se stesso come persona insignificante, non accettabile, non amabile, al rendersi conto che è accettato, compreso, nella relazione con il terapeuta. Nel momento in cui il cliente percepisce l’atteggiamento di accettazione che il terapeuta ha verso di lui, egli diviene capace di accettare se stesso, quindi gli altri. L’atteggiamento di accettazione fa sì che il cliente possa introiettare questo atteggiamento e vedere la propria esperienza vissuta come qualcosa che si può identificare, simbolizzare e accogliere come parte di sé.
Nel percorso verso l’autonomia, la responsabilità, l’autodirezione, gli individui scoprono la libertà di essere se stessi. E l’esperienza della libertà di essere se stessi rappresenta un fattore determinante per il cambiamento costruttivo della personalità. La libertà psicologica, soggettiva, interiore, se conservata, permette di contrastare le forze esterne che tendono a determinare il comportamento. La persona interiormente libera, aperta verso la propria esperienza, consapevole della propria libertà e responsabilità di scelta è meno soggetta a subire il condizionamento del proprio ambiente. La libertà si traduce, quindi, in una fondamentale capacità di autotrascendenza, nell’atto di scegliere i propri scopi, secondo quell’idea di impegno che rappresenta la proiezione di tutto l’organismo in una certa direzione.
L’approccio centrato sulla persona si fonda sul presupposto epistemologico del primato dell’ordine soggettivo, ovvero del primato dell’esperienza vissuta: immediata, interiore, cognitiva, emotiva, razionale e corporea.
Riassumendo, un approccio centrato sulla persona è basato sulla premessa che l’essere umano sia un organismo fondamentalmente degno di fiducia, capace di valutare la situazione interna ed esterna, di comprendere se stesso nei propri contenuti, di fare scelte essenziali riguardo ai successivi passi nella vita e di agire in base a queste scelte[8].
Ora, l’approccio centrato sulla persona, la fiducia nelle risorse dell’essere umano che consente di liberare energie positive, raffigura una visione ottimistica ma affatto ingenua della persona. Rogers sa bene che gli uomini sanno essere violenti, nocivi, asociali; tuttavia, ravvisa negli individui tendenze direzionali costruttive, a meno che non vengano deprivati della loro libertà interiore e purché la loro inclinazione naturale non venga danneggiata dalla loro esperienza. A suo avviso, nell’uomo, animale sociale bisognoso di integrarsi e di comunicare, il male è acquisito, non innato. Di qui l’importanza di un ambiente favorevole, di un clima relazionale positivo in grado di facilitare l’avvicinamento all’esperienza profonda, quindi l’abbassamento delle difese psicologiche, e delle abilità relazionali. La qualità non giudicante e accettante del clima empatico permette alle persone di assumere atteggiamenti valorizzanti, poiché essere ascoltati consente di ascoltare se stessi.
La relazione è un elemento costitutivo dell’umano, in quanto condizione di realizzazione esistenziale del soggetto. Su di essa si fonda qualsiasi esperienza umana, tanto quella terapeutica quanto quella educativa, scaturenti da un imprescindibile rapporto tra due protagonisti: terapeuta e paziente (o cliente); educatore ed educando.
In particolare, come osserva sapientemente Bertolini (1988), se l’esperienza educativa perdesse la sua connotazione relazionistica, perderebbe di conseguenza la sua valenza autenticamente pedagogica. A suo giudizio, la relazione interpersonale è il fondamento dell’atto educativo. L’esperienza dell’altro o l’apertura all’altro è qualcosa di cui l’individuo non può fare a meno, poiché è dall’incontro con l’altro che l’Io è in grado di cogliere tanto la realtà di se medesimo quanto la realtà del mondo oggettivo. Non è possibile riconoscere se stessi senza riconoscere al tempo stesso l’altro, tanto che perdere l’altro significherebbe perdere anche se stessi, ovvero la propria identità, che è pensabile soltanto entro un ambito dialogico, solo nell’ambito della relazione con l’Altro, che è affermazione di noi stessi, del nostro sé come differenza e unicità.
Senza relazione interpersonale non si possono realizzare le intenzioni educative, quindi generare cambiamenti. La relazione educativa è il luogo in cui l’intenzionalità si esplicita. Quest’ultima, la cui matrice è fenomenologica, è un dirigersi mentalmente che presenta una dimensione di apertura e di propensione. Nell’ottica husserliana, l’intenzionalità è un partire per andare avanti in senso dinamico, per poi ritornare indietro: in un primo momento tendo, poi mi fermo per “fare vuoto”. Essa presuppone l’assunzione di un atteggiamento ricettivo; si tratta di assumersi l’impegno di non invadere l’altro, ma di accettarlo; in altre parole, si tratta di sospendere il giudizio (epoché). Epoché, composto delle parole greche epi (su) e échein (tenere), rimanda a “tenere sopra”, “trattenere” e designa l’astensione del giudizio sulle cose e sui fatti del mondo. Mentre l’epoché scettica dell’antichità era un concetto distruttivo, in quanto negava qualsiasi certezza, l’epoché di Husserl mira a sospendere il giudizio sulle cose, a porre tra parentesi il mondo, in modo da permettere ai fenomeni che giungono alla coscienza di essere considerati senza alcuna visione preconcetta; ci si pone come osservatori disinteressati, tesi non a valutare, ma a comprendere profondamente, ad avviare un processo di comunicazione autentica.
È il vuoto ad avviare il processo comunicativo, attraverso una disposizione d’animo positivamente ricettiva, attraverso l’acquisizione di una capacità empatica. Chi educa, chi si prende cura di qualcuno, mirando al suo benessere, alla sua crescita equilibrata, deve assumere una postura ricettiva, deve cioè fare posto all’altro, ai suoi pensieri, ai suoi sentimenti. A rendere possibile la ricettività è la capacità di sentire profondamente l’altro, di ricevere l’altro fino a sentire e vedere la sua esperienza. Comunicare, a livello educativo, è saper ascoltare profondamente, ovvero prestare attenzione alle parole, ai sentimenti del soggetto, distogliendo l’attenzione da se stessi e accogliendo l’altro; atteggiamento che prepara il terreno all’empatia, capacità di immedesimarsi nell’altro, mantenendo però la propria identità separata, riconoscendo chiaramente la propria separazione e differenziazione; in breve, capacità di partecipare al mondo degli altri, senza confondersi con esso.
Si tratta di una competenza relazionale indispensabile dell’educatore, dell’insegnante e del terapeuta. È solo attraverso quest’atteggiamento, questa forma di «commercio spirituale», osserva Bertolini, che l’individuo è in grado di comprendere il proprio simile, al di là di qualsiasi pregiudizio. In ambito educativo e solastico, l’empatia trova la sua più profonda e valida applicazione, dal momento che in nessun campo come in questo la comprensione è più necessaria. L’educatore deve compiere uno sforzo di penetrazione nella soggettività altrui, spogliarsi delle proprie convinzioni, al fine di entrare nel mondo del bambino o del giovane e comprendere le sue caratteristiche. Non bisogna, però, precisa il pedagogista italiano, limitarsi a comprendere l’educando e riconoscere i suoi diritti per adeguarvisi passivamente; bisogna arricchire l’educando, fornirgli nuovi stimoli, metterlo a contatto con altri vissuti ed altre visioni del mondo. Scopo del rapporto educativo, del resto, è anche quello che l’educando stesso riesca a mettere in atto progressivamente un movimento di empatia nei confronti dell’educatore e, più in generale, nei confronti dell’altro da sé.
Educazione non direttiva
Rogers applica le teorie della “terapia non direttiva”, il cui scopo, lo abbiamo visto, è quello di ristabilire le naturali capacità di autorealizzazione e di autoregolazione dell’individuo, ai processi educativi. A suo giudizio, l’educazione deve nascere dall’esperienza dell’individuo e non da un processo imposto dall’esterno; il processo educativo deve qualificarsi come automotivato. Il senso dell’educazione centrata sullo studente potrebbe riassumersi così: libertà da ogni minaccia, da ogni autoritarismo e libertà di scegliere e di essere. D’altronde, si cresce come persone responsabili imparando ad essere liberi.
Il modello di educazione ideato nell’ambito dell’approccio centrato sulla persona è volto a promuovere il coinvolgimento dell’intero soggetto nei processi di apprendimento e a saldare l’educazione con la concretezza dell’esistenza e dell’esperienza vissuta. Non deve essere, osserva Rogers (1977), il maestro a cambiare l’alunno, ma l’alunno che cambia attraverso l’apprendimento, la cui condizione è un sano rapporto interpersonale; a suo giudizio, il contatto profondo è l’elemento qualificante dell’evento educativo.
Nell’ottica rogersiana, non è possibile insegnare nulla direttamente, si può solo facilitare l’apprendimento. Ne deriva che l’insegnante/facilitatore, pur non essendo inattivo in assoluto, non svolge alcuna attività “interventistica”. Secondo il nostro Autore, gli individui hanno una naturale capacità di apprendere «fin tanto e a meno che la loro curiosità non venga mortificata dall’esperienza del nostro sistema educativo»[9]. L’apprendimento, per essere significativo, deve comportare una compartecipazione globale della personalità; tale tipo di apprendimento si realizza quando la materia di studio è sentita dallo studente come rilevante per i propri fini, quando lo studente è posto di fronte a un problema da lui sentito come reale e quando ha la possibilità di scegliere tra varie opportunità e materiali.
Questo tipo di apprendimento è quello promosso da Freinet, il quale, peraltro, catturato dall’opera rogersiana, negli anni ‘60 si dedicherà a uno studio comparativo tra i fini e i mezzi della proposta educativa dello psicologo statunitense e i mezzi e i fini della sua pedagogia, senza tuttavia riuscire a portare a termine il lavoro. Nelle sue classi, in cui impera un clima di fiducia, favorevole, non minaccioso, si coltiva l’innata curiosità e il desiderio di apprendere. Il calcolo vivente, il testo libero, lo studio dell’ambiente, sono esempi di attività di insegnamento-apprendimento connesse a una dimensione reale e problematica della vita, a uno scopo, a un progetto in grado di dare un senso all’attività degli alunni.
In Freinet, la cui proposta pedagogica colloca l‘azione educativa lungo la linea del riconoscimento del bambino e dello sviluppo delle sue potenzialità, si ritrovano le intuizioni e le idee di un apprendimento costruito dai ragazzi, fondato sull’esperienza e sulla ricerca personale. Idee e intuizioni che nascono dalla scoperta del valore della cooperazione nella costruzione delle conoscenze, nonché dal rifiuto della scolastica, della separazione simbolica e pratica operata tra scuola e ambiente. Il suo intento non è tanto quello di trasmettere un sapere, quanto quello di far nascere nei suoi alunni la sete di conoscenza, il gusto per la ricerca. Nell’École Freinet, le lezioni verbali, la proposta di conoscenze preconfezionate, di nozioni, di contenuti astratti – che il fanciullo digerisce a fatica, poiché percepiti come privi di senso – cedono il passo all’osservazione, all’esplorazione, alla sperimentazione; cedono il passo a lezioni essenzialmente pratiche e vive, che sorgono dalla vita stessa.
Nella sue classi, il maestro francese favorisce la libera espressione, pratica educativa che consente di scoprire, attraverso la non facile interpretazione di immagini e simboli, numerosi aspetti della personalità infantile e che presuppone la messa in atto di una pedagogia dinamica che miri a servire al massimo la personalità del bambino e la creazione di un clima scolastico positivo. La libera espressione costituisce il fondamento della pedagogia freinetiana, la cui principale dominante è giustappunto il diritto del fanciullo a manifestare liberamente e senza riserve la propria personalità in un sereno clima affettivo. Tale pratica educativa offre al fanciullo la possibilità di: esprimere i suoi sentimenti, le sue emozioni, conservando una traccia del suo cammino personale; liberarsi dall’angoscia in forma chiara o simbolica; rivelare il proprio “Sé” autentico, il proprio essere che vive intensamente, che osa pensare e dire, che osa entusiasmarsi e comunicare.
Acquisendo la capacità dell’ascolto e del non giudizio, ponendosi come osservatori partecipi e interessati all’allievo, è possibile creare un ambiente di sviluppo facilitante, in cui affrontare le sfide insieme, in cui favorire l’espressione e l’affermazione dell’identità dell’alunno. L’incontro con una mente aperta e ricettiva crea in classe un possibile spazio in cui narrare la propria storia, specialmente nelle sue zone d’ombra (conflitti, traumi, esperienze non condivise socialmente); ciò favorisce la trasformazione delle emozioni in pensieri o affetti pensabili.
Una Pedagogia non direttiva, quale quella promossa da Freinet, è un tipo di pedagogia che mira ad accentuare autonomia, protagonismo (il soggetto diviene protagonista del suo apprendere ad apprendere), creatività, autodirezione, autovalutazione (uno dei mezzi principali attraverso cui l’apprendimento si fa autonomo e responsabile); tutto ciò in un clima di libertà non assoluta, ma adeguata alla capacità effettiva di assumerla responsabilmente e di gestirla.
Nell’ambito dell’educazione non direttiva, la libertà, conquistata progressivamente, si traduce nello sforzo di concedere al bambino la possibilità e il diritto di scegliere. Quindi la non-direttività è lontana tanto dall’autoritarismo quanto dal permissivismo radicale. Nella scuola tradizionale, vige una disciplina fondata sull’autorità incondizionata del maestro; su quella che R. Dottrens definisce “autorità-costrizione” e che viene esercitata da un maestro dittatore, eccessivamente severo, la cui azione risulta basata unicamente sull’obbligo, sulla repressione e sulla pretesa di obbedienza da parte degli alunni. La disciplina che si ottiene esercitando tale autorità apparente porta inevitabilmente alla rivolta, anziché al rispetto delle regole e del maestro.
L’autorità autentica o, per dirla ancora con Dottrens, “autorità-prestigio”, dipende soprattutto da qualità personali: padronanza di sé, senso di responsabilità, perseveranza nello sforzo, amore per i bambini. Qualità che consentono di dirigere una classe e di assicurare il progresso del lavoro scolastico senza ricorrere a sanzioni, instaurando dei buoni rapporti con gli allievi, all’insegna del rispetto reciproco, esercitando un’influenza educatrice tale che gli allievi si sforzino di somigliare al maestro. La disciplina che ne deriva non ha per scopo l’obbedienza, ma l’apprendimento della libertà: l’educatore dona una parte di responsabilità a ciascuno e toglie le costrizioni esteriori, per passare dal «faccio ciò che voglio» a «faccio ciò che devo e che sono capace di fare».
È questa la disciplina che Freinet consegue nelle sue classi, promuovendo l’autogoverno, permettendo ai bambini di fare le proprie esperienze, di scegliere le attività cui dedicarsi in base ai loro tempi e ai loro ritmi, di partecipare attivamente a un progetto educativo, quindi di assumersi le proprie responsabilità. Egli non impone la disciplina ricorrendo alle punizioni – prive peraltro di utilità, soprattutto – come osserva Rousseau – in una certa fase di sviluppo dei fanciulli, poiché «la necessità del dovere non è una nozione propria della loro età»[10] – ma fa in modo che questa disciplina venga scoperta dagli alunni stessi. Il metodo dell’autogoverno consente allo studente di interiorizzare le norme e sviluppare la sua personalità mediando le esigenze personali con quelle del gruppo. In questo modo, la disciplina o autodisciplina, fondata sulla capacità dell’allievo di autoregolarsi, viene a fondarsi sull’interesse di costui nel rispetto della classe-comunità. La sua fonte si ravvisa nella natura stessa del lavoro collettivo organizzato democraticamente, di cui tutti gli alunni si sentono responsabili.
Il bambino, osserva Freinet, così come l’adolescente, apprende soltanto ciò che comprende, e comprende solo se partecipa all’elaborazione del suo sapere; questo è il principio fondamentale della pedagogia freinetiana. E il bambino può essere attivo soltanto se dispone di una certa libertà, che non va confusa con la totale anarchia: occorre educare i bambini alla pratica della libertà, ossia al riconoscimento dei loro doveri individuali e sociali.
“Tendenza attualizzante” e “potenziale di vita”
La visione positiva della persona, ovvero la concezione dell’individuo come un fascio di potenzialità da coltivare e da accrescere[11], abbracciata da Rogers e da Freinet, è espressa dai concetti di “tendenza attualizzante” e di “potenziale massimo di vita” (o potenza vitale), elaborati rispettivamente dal primo e dal secondo.
La “tendenza attualizzante”, ovvero la tendenza alla realizzazione, all’attualizzazione, alla conservazione di sé, è operante in tutti gli organismi e in ogni momento. È tale «tendenza fondamentale al mantenimento e alla promozione dell’organismo e del sé che fornisce la forza motrice per tutti i processi [...]. È in forza di questa tendenza fondamentale che il sé pre-terapia soddisfa i suoi bisogni. È grazie a questa forza profonda che l’individuo in terapia si muove verso la ristrutturazione, e non verso la disintegrazione»[12]. Tale concetto, ovvero la tendenza naturale presente in tutti gli organismi viventi verso il completo sviluppo, verso una più piena realizzazione delle potenzialità dell’organismo, rappresenta «il fondamento su cui è edificato l’approccio centrato sulla persona»[13].
Le energie evolutive della vita, osserva Rogers, sono alla base di ogni processo di funzionamento e di cambiamento; e il processo terapeutico, a suo giudizio, consiste nell’utilizzare «un clima psicologicamente favorevole per procedere in senso evolutivo, nella direzione cioè del processo che inizia fin dal momento stesso del concepimento di ogni singola persona»[14].
Se, osserva Freinet, la volontà di conservarsi è propria di ciascun essere vivente, un’aspirazione specificamente umana è quella verso l’accrescimento della propria potenza, verso il miglioramento di sé. “Potenza vitale”, “horme“, “slancio vitale”, “flusso vitale”, sono diverse denominazioni utilizzate per esprimere uno stesso concetto.
Il filosofo inglese P. Nunn assegna il nome di horme[19. Horme rimanda allo spirito greco che personifica l’attività energetica, l’impulso a mettersi in movimento, la brama di agire, l’impeto della battaglia] (dal greco antico ὀρμή: slancio) all’impulso vitale che guida l’essere durante la sua crescita, durante il perfezionamento di sé. Questa forza vitale si manifesta, quando l’attività infantile non è ostacolata, in ciò che la Montessori (1952) chiama “gioia di vivere”. Il comportamento del fanciullo, secondo la concezione montessoriana, è guidato da un impulso interiore a costruire se stesso, da un desiderio di vivere e di divenire l’adulto che è destinato ad essere. Solo quando il bambino sarà messo nelle condizioni di poter usufruire di tale energia vitale, il suo processo di crescita procederà normalmente.
Il concetto di horme evoca inequivocabilmente l’idea bergsoniana di élan vital; quello slancio originario, quella spinta interiore corrispondente a una creazione continua, libera e imprevedibile. Tale idea nasce dall’osservazione di una sorta di flusso interno allo sviluppo evolutivo, che esprime la capacità di tale sviluppo di cercare le proprie strade in modo creativo, non arrestandosi dinanzi agli ostacoli.
Gli echi del pensiero bergsoniano sono facilmente ravvisabili nel pensiero del filosofo e pedagogista svizzero A. Ferrière. Quest’ultimo si richiama, infatti, alle teorie filosofiche di Bergson e di W. James incentrate sul divenire, su una concezione della vita psichica come un “flusso di idee” e di “coscienza”, inquadrandole ed approfondendole nel suo studio dell’Io. A suo avviso, solo la filosofia dinamica è in grado di cogliere le direzioni del flusso vitale, essendo la vita una serie di impulsi e modificazioni continue. La concezione del pedagogista ginevrino muove dal riconoscimento dello “slancio vitale” di cui è portatore il fanciullo, di quella forza universale che si esprime nell’attività creatrice. Egli, sulla scia della filosofia bergsoniana, afferma che esiste un flusso vitale volto alla completa realizzazione dell’Io e all’accrescimento della sua potenza. Il fine di ogni sinergia vitale è la conservazione e la crescita di potenza dell’Io, la cui tendenza costruttiva si contrappone a quella distruttiva del non-io, che è staticità assoluta. La condizione immediata dell’accrescimento di potenza dell’Io è l’adattamento, condizione necessaria della salvaguardia del suo equilibrio.
Attraverso la lettura di Ferrière, Freinet, nella cui pedagogia si ravvisa una costante valorizzazione di tutto ciò che è espressione dello slancio vitale, rielabora l’idea di élan vital senza riferirsi a una causa primaria spiritualista, ma includendo in questa espressione quel dinamismo che assicura il trionfo della vita. Egli pone alla base della vita una forza energetica che la spinge a creare senza requie. A questa impetuosa energia vitale il pedagogista francese assegna il nome di “potenziale massimo di vita”, che rimanda a un’inesauribile volontà di vita, a un irrefrenabile impulso vitale che incita l’individuo a salire sempre più in alto, a potenziare e perfezionare costantemente se stesso.
Il concetto di “potenza vitale” rappresenta uno dei più profondi presupposti della riflessione psico-pedagogica freinetiana[15], i cui motivi di fondo sono giustappunto l’esaltazione della vita e il riconoscimento di essa come un complesso processo di ricerca della potenza indispensabile. Nel pensiero di Freinet, tutto si compie come se l’individuo avesse un potenziale di vita che tende non solamente a conservarsi, ma a crescere, ad affermarsi e a trasmettere se stesso ad altri esseri. L’abbassamento di tale potenziale di vita suscita un sentimento d’inferiorità e d’impotenza che, a sua volta, provoca nell’essere uno squilibrio profondo; la ricarica della forza vitale origina, invece, un sentimento di potenza, il cui mancato appagamento genera un forte senso di oppressione e la cui soddisfazione è, invece, «come un’esaltazione di quell’istinto di vita, senza il quale (…) niente esisterebbe»[16].
In questa prospettiva, l‘individuo, animato da uno «slancio invincibile», reagisce ai cambiamenti dell’ambiente interno ed esterno, sperimentando costantemente delle forze antagoniste al fine di salvaguardare il proprio equilibrio vitale. L’individuo, se posto in un ambiente favorevole, agevolante, ovvero un ambiente in cui viene soddisfatto il suo bisogno di potenza, attraverso la formazione di regole di vita positive e autentiche, edificherà il proprio “edificio-personalità” su basi solide.
Il soggetto, invece, immerso in un ambiente sfavorevole, ossia in un ambiente che funge da barriera ostacolando il suo bisogno di realizzazione, dirigerà il proprio comportamento sulla base di regole di vita sostitutive, cioè non autentiche che, in virtù di meccanismi di compensazione, permettono di supplire all’impotenza funzionale, regalando all’individuo posto in un ambiente ostile l’illusione del sentimento di potenza vitale.
L’essere umano, dunque, nella visione freinetiana, segue il movimento vitale, cercando di realizzarsi pienamente come essere unitario, in virtù di un principio unico e generale rappresentato dal bisogno sovrano di potenza.
Ora, così come il terapeuta sa di poter contare sulla tendenza dell’organismo umano a progredire, sulla tendenza organismica alla continua crescita e al continuo miglioramento, così l’educatore sa di poter e di dover coltivare, utilizzandolo come forza educativa, lo slancio vitale, l’istinto di potenza che alberga in ciascun bambino, ovvero quell’aspirazione dell’individuo ad accrescere le proprie potenzialità, ad avanzare e a superare continuamente se stesso.
Bibliografia
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- «Per conseguire uno stato di benessere fisico, mentale e sociale, l’individuo o il gruppo deve poter individuare e realizzare le proprie aspirazioni, soddisfare i propri bisogni e modificare l’ambiente e adattarvisi. La salute è, pertanto, vista come una risorsa per la vita quotidiana, non come obiettivo di vita. La salute è, dunque, un concetto positivo che insiste sulle risorse sociali e personali oltre che sulle capacità fisiche» ↩
- C. Rogers, Terapia centrata sul cliente, tr. it., Molfetta, La Meridiana, 2007, p. VI (ed. or. 1951) ↩
- R. Farson, Carl Rogers, Quiet Revolutionary, in «Education», vol. 2, n. 2, 1974, p. 197 ↩
- C. Rogers, Terapia centrata sul cliente, op. cit, p. IX ↩
- Ascolto dei contenuti, di ciò che l’altro dice con le parole (verbale) e di ciò che non dice con il silenzio, ascolto delle tonalità, di come lo dice (paraverbale), ascolto/osservazione degli sguardi, della gestualità (non verbale) di come l’altro si presenta e si muove. Ascolto del contesto in cui la persona vive: familiare, sociale, lavorativo, scolastico, dei vissuti, degli schemi di riferimento culturali, dei valori. Ascolto di sé, ascolto di se stessi nel qui e ora durante il processo relazionale, ascolto del proprio contesto di riferimento, ascolto di quanto si attribuisce all’altro di ciò che appartiene a se stessi (autoconsapevolezza) ↩
- C. Rogers, Potere personale, Roma, Astrolabio, 1978, p. 13 (ed. or. 1977) ↩
- Gli altri due fattori sono: l’energia organismica, origine delle attitudini, delle aspirazioni, delle capacità di base di un individuo, la zona più profonda e misteriosa della personalità, il cui funzionamento rimane inconscio; e la valutazione organismica, un sistema regolatore e di controllo che orienta l’energia organismica verso comportamenti funzionali all’autorealizzazione ↩
- C. Rogers, Potere personale, op. cit., p. 21 ↩
- C. Rogers, Libertà nell’apprendimento, Firenze, Giunti e Barbera, 1973 (ed. or. 1969), p. 184 ↩
- J-J. Rousseau, Emilio o dell’educazione, tr. it., Firenze, La Nuova Italia, 1995 (ed. or. 1762), p. 78 ↩
- È interessante notare che la visione dell’individuo come un insieme di risorse da valorizzare, un fascio di potenzialità da rafforzare, da accrescere in vista della sua autorealizzazione, la si ravvisa anche in A. Adler. Questi scorge nell’essere umano una forza primordiale: l’aspirazione ad avanzare, l’aspirazione alla superiorità, al successo, l’aspirazione a raggiungere la perfezione e a soddisfare un impellente bisogno di equilibrio psichico e fisico. Egli parla di “volontà di potenza”, riferendosi non a un’aspirazione a una meta di potere, ma a un’energia innata, una spinta energetica volta a indirizzare l’individuo verso mete di elevazione, di affermazione, di acquisizione di forza, o di autoconservazione. Adler, al pari di Rogers e di Freinet, attribuisce una fondamentale importanza al ruolo dell’ambiente nello sviluppo e nella trasformazione miglioristica dell’individuo ↩
- C. Rogers, Terapia centrata sul cliente, op. cit., p. 209 ↩
- C. Rogers, Potere personale, op. cit., p. 15 ↩
- C. Rogers, Terapia centrata sul cliente, op. cit., p. 209 ↩
- Cfr. G. Errico, Il pensiero di Célestin Freinet tra pedagogia e psicologia, Roma, Anicia, 2016 ↩
- C. Freinet, Essai de psychologie sensible. Acquisition des techniques de vie constructives T. I, Paris, Delachaux et Niestlé, 1978, p. 16 ↩