Numero 13/14 - 2017

  • Numero 12 - 2016
  • Saggi

L’analisi didattica: Pedagogia informale e psicoanalisi

di Marco Innamorati e Diego Sarracino

Abstract

La formazione dello psicoanalista è legata, fin dagli inizi, a forme di insegnamento aventi sia carattere formale che informale. Inizialmente, anzi, l’insegnamento di Freud ai suoi allievi assume essenzialmente una modalità informale, perché, fuori da un’istituzione organizzata, solo lo studio dei testi psicoanalitici poteva essere considerato una forma di apprendimento classico. Un’importante modalità di insegnamento informale, tuttavia, ha caratterizzato il percorso di ogni analista (in qualsiasi “scuola”) dagli anni dieci del Novecento fino ad oggi: si tratta dell’analisi didattica o training analysis. La circostanza che l’analisi didattica abbia parzialmente perso i connotati di informalità, che possedeva inizialmente, ha probabilmente snaturato in parte gli scopi per i quali era stata prevista e ne ha forse peggiorato l’efficacia.


Introduzione: l’analisi didattica come pedagogia informale

Prima della pubblicazione dell’Interpretazione dei sogni non esiste un Movimento Psicoanalitico: gli interlocutori di Freud sono in pratica solo Joseph Breuer (fino agli Studi sull’isteria, del quale questi è coautore) e Wilhelm Fliess, destinatario di una lunga serie di lettere che testimoniano lo sviluppo iniziale delle idee di Freud. I primi “allievi” di Freud sono i quattro frequentatori, nel 1902, delle cosiddette riunioni del mercoledì, con i quali il padre della psicoanalisi discute delle proprie scoperte. La cosiddetta Società del mercoledì diventerà più tardi la Società psicoanalitica di Vienna, che in seguito partorirà l’International Psychoanalytic Association, tuttora deputata alla formazione della maggior parte degli psicoanalisti in tutto il mondo. Fino a quando vengono creati veri e propri corsi di formazione, nei primi Istituti di psicoanalisi (Berlino e Vienna), solo lo studio dei testi psicoanalitici freudiani costituisce una modalità formale di apprendimento per i futuri psicoanalisti. Tale modalità è però ritenuta ampiamente insufficiente dallo stesso Freud, il quale, scrivendo Sulla psicoanalisi selvaggia, sostiene apertamente che chi pratica la sua tecnica terapeutica al di fuori della sua cerchia non può essere considerato un analista. Il rischio di fraintendere il suo pensiero, infatti, leggendo solo i suoi scritti, è troppo elevato. In realtà Freud non proporrà mai un vero e proprio trattato di tecnica psicoanalitica; i suoi scritti tecnici, se costituiscono una pietra miliare in questo ambito, non esauriscono certamente tutte le problematiche applicative della teoria psicoanalitica. Di fatto, quindi, il contatto con Freud e la sua cerchia di collaboratori più ristretti costituisce, agli esordi del Movimento psicoanalitico, l’unica possibile modalità di formazione per un aspirante analista. La saggezza pratica del Padre della psicoanalisi è il punto di riferimento per tutti: essa viene però comunicata in modo essenzialmente indiretto e informale.

Anche quando la formazione degli psicoanalisti viene progressivamente organizzata secondo modalità sempre più codificate, però, un elemento del training viene mantenuto nell’ambito dell’insegnamento informale: si tratta dell’analisi didattica. Attraverso la propria analisi personale, il candidato analista acquisisce degli elementi di conoscenza del proprio inconscio, che dovranno costituire un punto di riferimento per la sua professione futura. L’analista didatta insegna, in questo senso, trascurando del tutto l’esposizione di conoscenze generali e applicando direttamente tali conoscenze (integrate con la propria esperienza) a un paziente che in realtà è proprio colui che deve apprendere il mestiere. La storia dell’analisi didattica, che verrà tracciata nei prossimi paragrafi, costituisce quindi la storia di come la pedagogia informale è stata utilizzata nella formazione degli psicoanalisti. Si osserverà come il tentativo di rendere sempre più codificato il percorso dell’analisi didattica ne ha progressivamente snaturato il significato originario. Al contrario, l’impulso più recente a svincolare da regole precise il percorso analitico del futuro analista sembra riportarne la natura all’originario spirito di via pedagogica informale. Si noterà anche come, se l’analisi è di per sé considerabile una forma di pedagogia informale per il futuro analista, essa ha pur sempre, nella sua usuale applicazione, dei connotati di stabilità formale (il cosiddetto setting) che implicano, per esempio, l’uso di orari, durata e luogo di svolgimento costanti. All’inizio della storia della psicoanalisi, invece, si ebbero delle occasioni di formazione doppiamente informale, per alcuni dei primi analisti: training effettuati anche senza seguire le normali regole del setting.

1. Origine dell’analisi didattica: Jung e Freud

Le diverse correnti del pensiero psicoanalitico non hanno mai nascosto né teso a sottovalutare le rispettive differenze di impostazione teorica e terapeutica, tanto da rendere spesso desolante il tentativo di identificarne un ipotetico common ground (Wallerstein, 1989). Uno dei pochi punti di contatto tra le scuole di formazione di ispirazione psicoanalitica è costituito dall’obbligatorietà, per i candidati analisti, di sottoporsi a loro volta almeno a un’analisi personale, che costituisce parte integrante della loro formazione. Tale analisi è detta analisi didattica (training analysis). La sua pratica, introdotta nel primo decennio del Novecento, non fu teorizzata dal padre fondatore Sigmund Freud ma da Carl Gustav Jung, all’epoca in cui era ancora il delfino di Freud. Testimonianza storica della priorità junghiana è un’affermazione dello stesso Freud, contenuta nei Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico:

“Tra i molti meriti della scuola analitica zurighese annovero quello di [avere fissato] l’obbligo per chi voglia compiere l’analisi su altri di sottoporsi preliminarmente a un’analisi presso un esperto. Se si vuole fare sul serio questo lavoro bisogna scegliere questa via, che promette più di un vantaggio; il sacrificio che comporta l’aprirsi a un estraneo senza esservi indotto da malattia, viene ampiamente ricompensato.” (Freud, 1912, p. 537).

Non esiste un luogo delle opere di Jung in cui egli sembri introdurre l’idea della necessità dell’analisi didattica, tuttavia già nel testo delle lezioni americane del 1912 compare un accenno alla necessità per l’analista di essere analizzato: ma tale accenno sembra riferirsi paradossalmente a qualcosa di già acquisito (Jung, 1912). Le rivendicazioni da parte di Jung della propria priorità, al riguardo, si trovano in testi più tardi (Jung, 1929; 1935; 1951); circostanza d’altronde logica, visto il riconoscimento già a suo tempo ottenuto da Freud. In ogni caso non sembrano esservi motivi per dubitare che Freud alluda a Jung nel testo citato, né sembra identificabile un solo motivo per mettere in discussione l’attendibilità storica dell’asserto (Falzeder, 2005; Kerr, 2004; Ellenberger, 1970).

Quando il rapporto con Jung si deteriorò, Freud creò una sorta di “ricordo di copertura” a beneficio del movimento psicoanalitico, attribuendo a Hermann Nunberg la paternità dell’idea dell’analisi didattica e al Congresso Internazionale di Psicoanalisi di Budapest, la sede in cui essa sarebbe stata per la prima volta diffusa (Freud, 1918). Del resto, questa versione dei fatti viene spesso riproposta dall’ambiente psicoanalitico come attendibile (si vedano, ad es., Sandler, 1982, p. 386; Desmond, 2004, p. 32; Gifford, 2005, p. 641). Persino la nota biografia freudiana di Peter Gay afferma tranquillamente che “l’esigenza di un’analisi didattica nasce negli anni successivi alla prima guerra mondiale” (Gay, 1988, p. 269).

Torniamo comunque alla primitiva attribuzione freudiana. È noto quanto Freud fosse assai poco generoso nel riconoscere i meriti altrui, fino al punto di assumere la paternità di idee non proprie, nonostante la sua pur straordinaria creatività. Si ricordi, al riguardo, la penosa fine del rapporto con l’amico Wilhelm Fliess, al quale Freud aveva poco elegantemente sottratto l’idea della bisessualità universale (Kerr, 1995). È possibile che una così chiara attribuzione ad altri di ciò che è ancora oggi considerato un caposaldo della formazione costituisca il segno di una certa ambivalenza dello stesso Freud di fronte a questa pratica. Si è potuto notare che, ritrattando la primitiva identificazione del merito della scuola zurighese, Freud non si auto-attribuisca l’idea, chiamando in causa Nunberg; quando si tratterà di formalizzare l’obbligo, il patriarca viennese demanderà ad altri (sia pure a un fedelissimo seguace come Max Eitingon) l’incarico di stendere il regolamento attuativo.

Esiste in realtà un’occasione nella quale Freud sembra tentato di attribuirsi l’idea della necessità dell’analisi didattica: ma nella fattispecie si parla di un’analisi didattica di tutti i suoi collaboratori più stretti compiuta direttamente da lui stesso. Ne è testimonianza uno scambio di lettere con Ernest Jones, avvenuto in un momento delicato della storia del movimento psicoanalitico, allorché si era appena consumato il distacco definitivo di Jung da Freud. Jones caldeggia l’ipotesi di formare un ristretto di team di collaboratori che sarebbero stati sottoposti da Freud a un’analisi approfondita, e ricordando come la proposta fosse stata a suo tempo avanzata da Ferenczi (Jones a Freud, 30/7/1913). Freud risponde aderendo con parole inequivocabili: “Lei dice che era Ferenczi ad esprimere quest’idea, ma essa avrebbe potuto essere mia” (Freud a Jones, 1/8/1913; corsivo aggiunto).

Quando infine Freud tornerà a parlare della funzione dell’analisi didattica in Analisi terminabile e interminabile, uno dei suoi ultimissimi saggi, si esprimerà con assai minore convinzione rispetto allo scritto del 1912. Dopo avere affermato che “è incontestabile che gli analisti non sempre hanno raggiunto quel tanto di normalità psichica alla quale intendono educare i loro pazienti” (Freud, 1937, p. 530), pur affermando la necessità dell’analisi didattica, giunge a sostenere: “Per motivi pratici, quest’analisi può essere soltanto breve e incompiuta; suo scopo principale è di consentire al didatta di giudicare se il candidato può essere ammesso a un ulteriore addestramento” (Freud, 1937, p. 531).

Se però, ritrattazioni politiche a parte, fu veramente Jung a teorizzare per primo l’analisi dell’analista, ci si potrebbe chiedere legittimamente in quali circostanze egli abbia reso partecipe Freud della propria idea. Possiamo presumere che, non essendovi una testimonianza scritta neanche nell’epistolario fra i due (conservatosi e pubblicato in modo sostanzialmente integrale), la comunicazione debba essere stata effettuata in maniera del tutto non formale. Probabilmente Jung si era reso conto che un controllo insufficiente del proprio mondo inconscio avrebbe potuto condurre l’analista a un coinvolgimento eccessivo nel rapporto analitico, spalancando le porte a un rapporto di altra natura. Questa congettura è giustificata, del resto, a partire dal contenuto delle carte di Sabina Spielrein, una delle prime pazienti dello stesso Jung: anche se non vi sono prove di una vera e propria relazione fisica tra i due, tale relazione divenne a un certo punto almeno un rischio concreto (Carotenuto, 1980). In questo caso sembrerebbe comprensibile che Jung non abbia avuto inizialmente la volontà di presentare la propria idea, per quanto originale, come una conquista.

Troviamo comunque Freud e Jung per l’ennesima volta su posizioni diametralmente opposte: il primo sembrerebbe arrivare alla conclusione che siano soprattutto opportunità ‘politiche’ a rendere necessaria l’analisi didattica. Da come sappiamo che Freud gestì altri casi di rapporti eticamente discutibili, del resto, possiamo ritenere che Freud non fosse per nulla scandalizzato dall’eventualità che suoi seguaci avessero rapporti sessuali con pazienti, quanto preoccupato per le eventuali ricadute di immagine per il movimento psicoanalitico (Gabbard e Lester, 1999). Jung sembrerebbe mosso dal tentativo di prevenire – almeno ad altri – il ripetersi di un’esperienza che – a prescindere da quanto lo abbia spinto lontano dalla necessaria neutralità analitica – risultò di certo destabilizzante.

In effetti la storia dell’uso dell’analisi didattica nell’ambito delle istituzioni psicoanalitiche si sviluppa in questa dialettica ambivalente tra motivi di formazione e motivi di potere; tra controllo e libertà. In un certo senso si tratta anche della replicazione del rapporto umano-professionale tra gli stessi Freud e Jung. Va ricordato, incidentalmente, che nessuno dei due ebbe in effetti la possibilità di effettuare un’analisi didattica vera e propria in prima persona. Il tentativo che Freud e Jung compirono di condurre un’analisi reciproca naufragò rapidamente (Ellenberger, 1970; Kerr, 1995).

Non esistono in ogni modo testimonianze dirette sui tempi e sulla modalità della comunicazione a Freud da parte di Jung della propria idea di rendere obbligatoria l’analisi personale. Una serie di indizi storici tende tuttavia a restringere la tempistica all’interno del biennio 1910-1912. Il terminus ante quem del marzo 1912 è naturalmente determinato dalla data di pubblicazione dello scritto freudiano citato che menziona per la prima volta tale obbligo. Il primo possibile terminus post quem sarebbe da ascrivere al 1907, anno del primo incontro fisico tra Jung e Freud (dato che dobbiamo presumere una comunicazione personale non mediata da lettere). Al 1907 risale anche, secondo Ernest Jones, l’inizio del primo esperimento di training analitico. Jones scrive infatti, nella biografia di Freud, che il primo training sarebbe stato svolto in maniera assolutamente informale da Max Eitingon, tra il 1907 e il 1909: questi, avendo richiesto la consulenza di Freud su un caso impegnativo, si ritrovò a venire analizzato di tanto in tanto nel corso di passeggiate col patriarca viennese in giro per Vienna (Jones 1953-1957, II, p. 32). Dato che fu lo stesso Eitingon, in seguito, a stendere il primo regolamento ufficiale concernente l’analisi didattica in particolare, e la formazione degli analisti più in generale, possiamo stupirci del curioso destino che portò il primo analista addestrato da Freud a vararlo; o possiamo supporre che il primo training sia una leggenda creata ex post, pratica abbastanza diffusa in seno al movimento psicoanalitico (Sulloway, 1979). Forse è legittimo ritenere che la ricostruzione sia leggendaria a metà: che non vi fosse nessuna intenzione di “istruire” Eitingon attraverso questa curiosa forma di analisi ma che reinterpretate a posteriori le passeggiate di costui con Freud potessero acquisire un peso storico che nessuno dei due avrebbe mai potuto immaginare. Bisogna peraltro considerare improbabile che vi sia un legame tra queste passeggiate e l’idea di Jung. Oltretutto due lettere di Freud a Ferenczi sembrerebbero circoscrivere l’esperienza di Eitingon con Freud a poche settimane del 1909: la prima lettera riferisce delle passeggiate appena iniziate con Eitingon come una novità (Freud a Ferenczi, 22/10/1909) e la seconda dà notizia dell’imminente partenza di Eitingon, che avrebbe messo fine al piacevole diversivo (Freud a Ferenczi, 10/11/1909). In ogni caso si ha notizia del fatto che prima del 1912 Freud avesse analizzato in maniera altrettanto informale altre persone facenti parte della sua cerchia (come Emma Ekstein, Felix Gattel, Wilhelm Stekel) ma senza considerare tali analisi parte di un percorso formativo, o addirittura provando disagio per averlo fatto (Falzeder, 1997). Ferenczi, già nel 1908, scrisse a Freud di aver proposto l’analisi a due neurologi come mezzo per convertirli alla causa psicoanalitica, ma non certo come sistema di istruzione (Ferenczi a Freud, 28/3/1908). A sua volta, Jung praticò la psicoanalisi in maniera informale su persone che pensava di coinvolgere tra i possibili seguaci: una lettera del 1909 (Jung a Freud, 31/12/1909) testimonia di come Jung avesse analizzato il dottor Seif di Monaco per tre giorni a tale scopo. È stato invece proposto che la prima analisi considerata dai membri della coppia come un’analisi didattica venne compiuta da Ferenczi con Jung (Falzeder, 1994). Paradossalmente, nell’epistolario Freud-Ferenczi (una corrispondenza sterminata e continua fin dal 1908), non si trova nessun accenno diretto di Ferenczi a tale esperienza. Solo indirettamente si può dedurre la convinzione precoce da parte di Ferenczi a proposito dell’importanza dell’analisi per l’analista: per esempio considerando lo stupore testimoniato verso la profondità di Sachs, malgrado questi non fosse stato analizzato da nessuno (Ferenczi a Freud, 15/3/1910).

Ancora nel 1910, però, Freud suggerisce la necessità dell’auto-analisi ma non quella dell’analisi didattica in due scritti che si potrebbero definire politici, nei quali la questione assume un rilievo particolare (Freud, 1910a; 1910b). Questo significa che non ha ancora avuto da parte di Jung il suggerimento a proposito della necessità dell’analisi didattica o che almeno non ne è stato ancora convinto (e quindi il suggerimento sarebbe eventualmente recente). In Prospettive future della psicoanalisi, il patriarca viennese invoca la necessità di proseguire l’autoanalisi durante la propria pratica come terapeuti, perché il paziente non può proseguire nel suo percorso di conoscenza personale oltre il livello raggiunto dal proprio analista e perché l’analista deve tenere sotto controllo il suo controtransfert (si ricordi che questo testo è il primo in cui compare per la prima volta coram populo questo termine). Nel secondo, Sulla psicoanalisi selvaggia, Freud afferma che il diritto di definirsi psicoanalista deve essere riservato a chi ha appreso il metodo all’interno della sua cerchia, avendo anche portato avanti la propria autoanalisi.

Sulla base della data di pubblicazione di un altro scritto di Jung, tuttavia, si potrebbe ipotizzare un ulteriore spostamento del terminus post quem al 1911. Jung, infatti, scrive in una recensione critica a un saggio di Morton Prince, che “la comprensione pratica e teorica della psicologia analitica è una funzione dell’autocoscienza analitica” (Jung, 1911, p. 81). Questo passo, per quanto piuttosto vago nella sua formulazione, non sembrerebbe alludere all’analisi didattica quanto all’autoanalisi che doveva originariamente il percorso di ogni analista secondo Freud. L’invenzione dell’analisi didattica dovrebbe essere dunque ricondotta al periodo 1911-1912 (o forse solo al 1911, dato che i testi di Jung e Freud dell’anno successivo sembrano implicare quel minimo di distacco temporale necessario alla metabolizzazione di un’idea, che viene considerata già acquisita).

2. Regolamentazione e istituzionalizzazione dell’analisi didattica

La proposta di Eitingon concernente la regolamentazione dell’analisi didattica venne emanata, come si è detto, molto più tardi. Eitingon la espose al congresso di Bad Homburg del 1925, nel contesto di un modello di formazione tripartito, che era destinato ad affermarsi come archetipo dei regolamenti adottati dai vari istituti che si vennero costituendo all’interno dell’International Psychoanalytic Association, l’organismo internazionale fondato da Freud e dal comitato dei suoi più fedeli collaboratori. Tale modello comprendeva, oltre l’analisi personale del candidato analista, la frequenza di seminari obbligatori di formazione teorica e un periodo di pratica clinica sotto la tutela (supervisione) di un analista anziano, detto appunto didatta. Il modello formativo così organizzato venne inizialmente adottato nel solo Istituto di Berlino; se si deveb prestare fede alla testimonianza dello stesso Eitingon, però, già nel 1927 anche a Vienna e a Londra gli aspiranti analisti si sottoponevano a un apprendistato similare (King, 1994). L’Istituto psicoanalitico di Berlino si guadagnò tuttavia una sorta di leadership mondiale nella formazione degli analisti, almeno fino all’avvento del nazismo, allorché gli aspiranti psicoterapeuti tedeschi – e soltanto i non ebrei – furono indotti a rivolgersi al ben più ‘ariano’ Göring Institut. Secondo la ricostruzione di Peter Gay, tuttavia, l’istituto berlinese non assunse assolutamente quei connotati di burocratizzazione che avrebbero successivamente caratterizzato le istituzioni psicoanalitiche: sembrerebbe che i sempre più numerosi candidati – tra i quali molti stranieri – rimanessero affascinati, oltre che dall’atmosfera generale di entusiasmo e impegno, proprio dalla mancanza di formalità dell’organizzazione (Gay, 1988)

Il rischio della trasformazione dell’analisi didattica in atto burocratizzato e formalizzato venne avvertito fin da subito. Tra coloro che si espressero in tal senso si può senz’altro annoverare Hanns Sachs, che oltre ad essere uno dei più intimi tra i collaboratori di Freud, fu uno dei primissimi analisti didatti a tempo pieno, prima a Berlino e poi negli Stati Uniti. Le parole di Sachs suonano davvero disincantate:

“Le religioni hanno sempre richiesto un periodo di prova, o noviziato, a quanti tra i devoti desiderano dedicare tutta la propria vita al servizio del sovrammondano e sovrannaturale, a coloro in altre parole, che sono destinati a diventare preti e monaci […] È evidente che l’analisi richiede qualcosa di analogo al noviziato ecclesiastico” (H. Sachs, citato in Roazen, 1975, p. 391)

Sachs paragona dunque l’analisi didattica a una sorta di iniziazione, un modo per entrare a far parte della cerchia degli psicoanalisti. Il suo atteggiamento rimase, a quanto sembra, sempre piuttosto distaccato, sia durante la sua pratica didattica a Berlino, dove fu inviato allo scopo espressamente da Freud, sia a Chicago, dove fu invitato a trasferirsi e, malgrado vi fosse accolto con tutti gli onori, non si integrò facilmente in un sistema che si stava rapidamente burocratizzando. Sachs “si riconosceva invece nelle modalità più arbitrarie adottate da Freud, ed era solito accettare un candidato sul momento, avvertendo l’istituto di psicoanalisi solo successivamente“ (Roazen, 1975, p. 392).

Su posizioni apparentemente diverse si schierò Sandor Ferenczi, quando nel 1927 chiedeva l’istituzionalizzazione di un’analisi didattica più approfondita di quanto evidentemente stava proponendo una parte del mondo psicoanalitico:

“La condizione pregiudiziale perché l’analista possa resistere a quest’attacco generale sferrato dal paziente è che abbia portato completamente a termine la propria analisi. Non insisterei su questo punto, se molti non ritenessero sufficiente che il candidato psicoanalista faccia conoscenza, diciamo per un anno, con i meccanismi principali – la cosiddetta “analisi didattica” – affidando quindi l’ulteriore sviluppo delle sue conoscenze all’esercizio autodidattico. […] Preciserò meglio il mio pensiero dicendo che, se nella pratica clinica non è sempre necessario giungere a quel livello di profondità che comporta un’analisi completa, ciò non vale per l’analista, da cui dipende il destino di tante altre persone” (Ferenczi, 1927, p. 20).

Il mainstream psicoanalitico, in generale, non è mai stato particolarmente generoso nel valutare i meriti storici dell’analista ungherese (Aron e Harris, 1993). In questo caso, però, esso si è dimostrato pronto al riconoscimento del contributo di Ferenczi, come è sancito anche dal Vocabolario di Laplanche e Pontalis (1967); se non addirittura a tributargli un ruolo quasi eroico, come testimoniano le parole di Horacio Etchegoyen:

“In chiaro disaccordo con il suo maestro (e analista!), Ferenczi sostiene che l’analisi didattica non deve soltanto informare il futuro analista dei meccanismi del suo inconscio ma deve dotarlo dei migliori strumenti per il suo futuro lavoro e che non è concepibile che l’analisi didattica duri meno di quella terapeutica. Il tempo ha dato ragione a Ferenczi – perché Freud non sempre ha ragione!” (Etchegoyen, 1986, p. 698).

Si può osservare che il movimento psicoanalitico non ha difficoltà a sconfessare Freud quando si tratta di complicare il percorso dei candidati. Un altro caso nel quale a Freud non fu data ragione si ebbe, infatti, quando fu introdotta negli USA la regola secondo la quale l’analisi dovesse essere una pratica riservata ai medici. Freud aveva preso posizione contro tale regola ma fu costretto ad accettarla a fronte della minaccia esplicitata da Brill di un’uscita dall’alveo dell’IPA da parte di tutti gli statunitensi (Jones, 1953-1957, III, p. 357).

Etchegoyen, comunque, facendo esplicito riferimento al saggio di Ferenczi del 1927, sembra metterlo in contrapposizione con Analisi terminabile e interminabile, che però venne scritto dieci anni dopo è non può quindi essere il bersaglio di una eventuale polemica da parte dell’analista ungherese. Ma Etchegoyen stesso – e tutti coloro che suppongono Ferenczi sostenitore di un’analisi didattica di lunghezza imprecisata, non prendono in considerazione una conferenza tenuta a Madrid l’anno successivo, che chiarisce indirettamente come le intenzioni di Ferenczi fossero in realtà diverse. Nel 1928, Ferenczi parla della formazione dell’analista a un pubblico di potenziali candidati, e perora la necessità di effettuare una formazione regolare in una delle sedi dove già esiste un istituto di formazione regolare, così esprimendosi:

“I sacrifici che la formazione analitica impone all’allievo sono considerevoli: dopo il diploma, egli deve risiedere per due o tre anni in una delle suddette città e, durante la prima metà di questo periodo, dedicarsi un’ora ogni giorno all’analisi personale” (Ferenczi, 1928, p. 199).

Preso come riferimento il periodo di residenza più lungo ipotizzato da Ferenczi, cioè tre anni, possiamo dedurre che se un anno è ritenuto poco da Ferenczi, la sua idea di analisi didattica sufficiente non va comunque oltre l’anno e mezzo. La qual cosa ha un senso, ai nostri occhi, inquadrata in un contesto storico nel quale spesso un’analisi standard poteva durare tra i sei e i dodici mesi e un’analisi didattica protratta fino ai diciotto sarebbe risultata più lunga anche del doppio o del triplo. Rispetto all’anno ritenuto forse insufficiente nel saggio del 1927, ritenere adeguata una maggiorazione del 50 per cento della durata non appare comunque un controsenso. Si potrebbe inoltre notare che, un quindicennio prima, Ferenczi aveva considerato con sdegno il fatto che qualcuno lo potesse accusare di condurre delle analisi per due-tre anni (Ferenczi a Freud, 24/4/1911).

Dopo la morte di Freud la posizione attribuita a Ferenczi tese ad essere progressivamente fatta propria dai maggiorenti dell’International Psychoanalitic Association, come testimoniano le parole di uno dei capiscuola dell’Ego Psychology negli Stati Uniti:

“Io credo che l’analisi didattica non dovrebbe essere meno accurata e ‘completa’ dell’analisi terapeutica, ma addirittura di più. Dovrebbe dare all’analizzato una comprensione della dinamica del suo comportamento e dei suoi conflitti personali e, per quanto possibile, della loro origine. Dovrebbe consentirgli di usare questa comprensione nelle mutevoli circostanze della vita nel processo continuo di adattamento, che include la sua reazione al materiale patologico a cui sarà esposto” (Kris, 1947, p. 38).

La posizione di Kris, ribadita anche in seguito (Kris, 1955), veniva echeggiata sull’altra sponda dell’Atlantico da Michael Balint, esponente della scuola delle relazioni oggettuali, il quale stigmatizzava il rischio che un’analisi didattica non abbastanza approfondita costringesse lo psicoanalista a riprendere successivamente, e con maggiore sforzo, l’identico percorso; Balint riteneva anche un controsenso che si potesse ritenere un candidato “abbastanza sicuro per analizzare dei pazienti sotto la sua responsabilità; tuttavia non […] abbastanza sicuro da trattare i propri problemi nevrotici inconsci” (Balint, 1949, p. 206). Idee come quelle di Balint e Kris si fecero strada nelle istituzioni psicoanalitiche, rendendo sempre più lungo e oneroso il percorso formativo del candidato analista, la cui identità veniva implicitamente equiparata a quella di un super-nevrotico. Del resto, più di un didatta, negli stessi anni, espresse perplessità sul fatto che si dovessero accettare come candidati analisti persone considerabili troppo ‘normali’ (Sachs, 1947; Knight, 1953; Eissler 1953) o affacciò la possibilità che l’apparente normalità del candidato nascondesse un atteggiamento difensivo che mascherava una nevrosi celata in profondità (Gitelson, 1948; 1954).

Se però si creò un generale assenso sulla necessità di un percorso analitico approfondito e sulla formalizzazione dei criteri selettivi, il senso di tali criteri fu affidato, sostanzialmente alla tradizione orale degli istituti: una documentata rassegna degli anni ’60 afferma la generale assenza in letteratura di tentativi di descrivere il profilo del buon candidato o il livello di approfondimento necessario a un’analisi didattica (Kayris, 1964). Il fatto che una simile constatazione venisse proposta a quarant’anni di distanza dall’entrata in vigore del regolamento di Eitingon a Berlino sembrerebbe una sostanziale conferma della tendenza delle istituzioni psicoanalitiche allo spirito settario: né la constatazione di David Kayris sembrava aver perso valore, dopo altri quarant’anni, allorché Marylou Lyonnels poteva constatare che sull’argomento era stato scritto “notevolmente poco” (Lyonnels, 1999, p. 12) e David Tuckett trovava ancora necessario argomentare sulla necessità di una maggiore trasparenza nel merito (Tuckett, 2005).

3. Critiche e controversie

In realtà, il mondo psicoanalitico aveva da lungo tempo espresso anche voci di consapevolezza del rischio che le scuole finissero per avvitarsi in formalismi esasperati e che l’analisi didattica risultasse infine solo un lungo rito di passaggio. Un chiaro grido di allarme venne lanciato, non molto tempo dopo gli interventi di Kris e Balint, dalle sferzanti parole di Edward Glover:

“Non ci si può attendere ragionevolmente che uno studente che ha trascorso alcuni anni nelle condizioni artificiali e talvolta quasi di serra di un’analisi didattica e la cui carriera professionale dipende dall’aver superato la ‘resistenza’ con soddisfazione del proprio analista, possa essere in una posizione favorevole per difendere la sua integrità scientifica contro la teoria e la pratica del suo analista. E quanto più a lungo egli è rimasto nell’analisi didattica, tanto meno è probabile che sia in grado di farlo. Secondo il suo analista, infatti, le obiezioni del candidato a determinate interpretazioni verranno considerate ‘resistenze’. In breve, nella situazione didattica c’è una tendenza intrinseca a perpetuare l’errore” (Glover, 1952, p. 403; corsivi aggiunti).

Per la verità, Anna Freud aveva espresso seri dubbi sul senso stesso dell’analisi didattica, già in un saggio del 1938. Paradossalmente, però, la circolazione di questo saggio, originariamente scritto in tedesco, fu estremamente limitata fino alla sua pubblicazione in inglese, avvenuta trent’anni dopo, attraverso un testo assai addolcito rispetto all’originale: sembrerebbe evidente come una circostanza simile sia da ascrivere a motivi di politica dell’IPA (Cremerius, 1999).

Il testo di Glover dovette essere dunque considerato all’epoca come una sorta di primo campanello d’allarme. Non molto tempo dopo la pubblicazione del suo intervento, infatti, si assiste al tentativo di esplorare una serie di contraddizioni caratteristiche dell’analisi didattica. In effetti non sfugge ai teorici che uno degli elementi fondamentali del transfert analitico, la neutralità della figura del terapeuta, viene meno nel corso dell’analisi didattica, dove non è giusto ritenere il paziente paranoico perché si sente giudicato dal terapeuta: lo “schermo bianco” è ampiamente contaminato da elementi di reale (Grotjahn, 1954); la dipendenza dall’analista non è frutto di regressione ma riflette il rapporto professionale tra didatta e candidato (Nacht, 1954).

Nonostante i dubbi periodicamente espressi sul carattere spurio di un’analisi che viene effettuata con una persona che in qualche modo è chiamata, direttamente o indirettamente, a giudicare il candidato, gli strumenti di volta in volta proposti per aggirare i problemi sono stati spesso singolarmente poveri di contenuto. C’è chi suggerisce di analizzare in profondità le resistenze del candidato che sono caratteristiche dell’analisi didattica (Heimann, 1954); c’è chi propone semplicemente che le interpretazioni dovrebbero essere più sottili (Nacht, 1954): si potrebbe continuare a lungo, ma il senso della maggior parte delle posizioni storicamente proposte sembra riflettere, nel migliore dei casi, la convinzione che il sistema, per quanto difettoso, sia l’unico possibile (Torras de Beà, 1992; D. Sachs, 1992; Desmond, 2004). Il fatto che un numero consistente di candidati sia ricorso a una seconda analisi “per se stesso” dopo aver terminato quella “per l’istituto” (Lampl-De Groot, 1954; Nacht, 1954; Kayris, 1964; Torras De Beà, 1992) non sembra aver scosso le tranquille certezze dei didatti. Né alcuno sembra avere prestato particolare attenzione agli errori storici che sono stati commessi: si pensi solo al caso di Margaret Mahler, che fu bocciata come analista dalla Deutsch, sua didatta.

Si è finito quindi per parlare dell’analisi didattica come di uno “strumento di annichilazione” del candidato (Sulloway, 1979, p. 538). Solo in tempi piuttosto recenti si è levata nuovamente qualche voce autorevole per affermare apertis verbis ciò che da tempo era in realtà chiaro a tutti, e cioè che il sistema prevalente della formazione non è che un sistema di potere, attraverso il quale gli analisti didatti anziani ottengono tre risultati fondamentali: in primo luogo ricavare un consistente beneficio economico, dato oltretutto che le analisi didattiche sono tra le poche per le quali i “pazienti” sono ancora disposti a rispettare il setting classico di quattro-cinque sedute alla settimana; in secondo luogo selezionare una generazione di eredi fidelizzati all’ortodossia; infine ottenere la soddisfazione narcisistica di vedersi idealizzati dai propri allievi, attraverso un transfert mai veramente risolvibile (Cremerius, 1989, 1999; Kernberg, 1986). Il prezzo che si paga è una forte limitazione dell’impulso creativo, come ha denunciato Kernberg, armato di un devastante senso dell’umorismo, nello scritto Trenta modi per distruggere la creatività dei candidati analisti (Kernberg, 1996).

4. Sviluppi recenti e conclusioni

L’antica proposta di Kayris (1964), rilanciata in seguito da McLaughlin (1967), volta a far svolgere l’analisi didattica con un terapeuta esterno alla scuola di formazione del candidato, è caduta a lungo sostanzialmente nel vuoto. Per quanto un certo numero di Istituti di formazione non preveda più un report diretto dei “progressi” del candidato da parte del didatta, l’influenza di quest’ultimo sulla carriera del candidato stesso non può che essere decisiva, finché si tratta di un membro influente dello stesso Istituto (e spesso questa influenza viene sancita da un diritto di veto sulla progressione della carriera del candidato). Solo in Francia e in Uruguay, da parte di istituti di formazione aderenti all’IPA,  è stato stabilito – abbastanza recentemente – che l’analisi didattica, per quanto obbligatoria, possa essere effettuata con qualunque analista e comunque fuori da qualsiasi controllo e valutazione da parte dell’istituzione (Lothane, 2007).

Purtroppo, anche in tempi recenti, non sembra esistano seri tentativi di effettuare delle ricerche empiriche sugli effetti delle analisi didattiche. Tali non possono essere certo considerati gli studi sulla soddisfazione soggettiva degli analisti che hanno completato o che stanno completando il training, perché le distorsioni possibili sono fin troppo ovvie. Tali non possono essere considerate neanche le raccolte di dati qualitativi dalle coppie paziente/analista per capire cosa esse pensino sia successo nel corso dell’analisi didattica. Del resto, se la letteratura non sembra offrire spunti per individuare con certezza gli obiettivi del training diventa ancora più difficile operazionalizzare tali obiettivi, cioè trasformarli in variabili soggette a misurazione. Il che a sua volta sembrerebbe sortire il paradossale risultato di negare l’evidenza empirica alla necessità di un cambiamento. Il problema potrebbe però essere aggirato utilizzando evidenze empiriche traibili da ricerche di altro tipo. Se ne possono qui proporre degli esempi.

Dal momento che è provato che la frequenza delle sedute influisce positivamente sul risultato di una terapia fino al numero di due alla settimana e non oltre (Dahl, Kächele e Thomä, 1998), non si capisce che senso possa ancora avere obbligare proprio il candidato analista a sottoporsi a un numero di sedute superiore. Si tenga presente al riguardo che tuttora esistono Istituti per i quali l’analisi didattica standard prevede cinque sedute settimanali di cinquanta minuti. Nella maggior parte dei casi ci si attiene alle tre/quattro sedute settimanali della durata di almeno 45’ e, ancora negli anni ’80, gli Istituti che consentivano un training di sole, per così dire, tre ore/settimana erano un’eccezione piuttosto che la regola (Sandler, 1982).

Un ulteriore problema riguarda la possibilità che anche analisti bene “addestrati” cadano vittima delle tentazioni e infrangano le regole, come mostrato, per esempio, dall’ampia ricerca di Gabbard e Lester (1999) sugli analisti che hanno avuto rapporti sessuali con pazienti. Seppure sia improprio giudicare a posteriori il successo o il fallimento dell’analisi didattica sulla base delle successive violazioni del setting psicoterapeutico, è lecito quanto meno sospettare che in questi casi il training non sia andato a buon fine. Inoltre, analisi e controlli da parte delle società psicoanalitiche non evitano che personalità predatorie, narcisistiche o addirittura con tendenze psicotiche diventino analisti – seppure si tratta di casi relativamente isolati. Si potrebbe ipotizzare che l’analisi didattica in questi casi sia stata insufficiente, ma si potrebbe anche, inversamente, pensare che il suo risultato sia stato acquisire una maggiore capacità di dissimulare che non un maggiore controllo sul proprio inconscio. Il quadro è reso più confuso se si considera che, allo stato, non esistono prove empiriche del fatto che i terapeuti non sottoposti ad analisi infrangano le regole più degli analisti ortodossi.

Considerare l’analisi didattica da una prospettiva storica ha messo in evidenza che il sistema non è immutabile e dato da sempre, come le istituzioni psicoanalitiche tenderebbero a lasciar pensare. Se nei primi venticinque anni di storia della psicoanalisi nessuno ritenne di rendere obbligatoria l’analisi didattica, nei successivi venti nessuno la concepì come una super-analisi di durata infinita. E nei cinquanta e più ulteriori anni di storia le motivazioni soggettive e oggettive della necessità dell’analisi didattica non sono mai state realmente chiarite, perlomeno in rapporto alla sua durata. Senza un tale chiarimento, le uniche motivazioni evidenti rimarrebbero quelle istituzionali autoritaristiche (Berman, 2004), assai poco correlate sia con la scienza, sia col proposito auspicabile di diventare terapeuti migliori.

Sarebbe quindi auspicabile riportare l’analisi didattica allo spirito originario di pedagogia informale, eliminando ogni vincolo di durata e frequenza e naturalmente togliendo al didatta ogni residuo compito di giudizio verso il candidato. Nella migliore delle ipotesi si riguadagnerebbero i vantaggi caratteristici dell’insegnamento spontaneo e informale che erano propri dell’analisi didattica come veniva concepita agli albori della psicoanalisi. Nell’ipotesi più minimalista, invece, si otterrebbero dei notevoli vantaggi economici per il candidato: visto che non vi sono prove empiriche di maggiori risultati delle analisi didattiche più lunghe, formalizzate e onerose, l’ipotesi di ridurne i costi sembra di per sé sensata.

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