La ricerca, in ambito universitario, muove di norma da un percorso che dal generale scende verso il particolare; dalla teoria scende sui dati con la speranza di poter verificare un’ipotesi, o anche solo un’asserzione, o – come affermato nel secolo scorso da Popper – per falsificarla. Quale che sia il risultato, salvo rare eccezioni metodologiche, il logos orienta la pratica.
Nel volume Niente da riparare gli Autori capovolgono questo stile di azione aprendo una riflessione che muove un percorso inverso: dalla pratica – agita quotidianamente all’interno di cooperative sociali – alla teoria. Ma non una teoria affidata ad un soggetto esterno, ad un professionista, al quale si chiede conferma (o meno) della bontà delle proprie pratiche delegandogli un potere di avallo o di veto. Piuttosto un teoria cercata sulle spalle dei giganti attraverso momenti di ricerca e di confronto meta-riflessivi. È così proposta, già in apertura del volume, la “teoria del caso unico” che ben evidenzia come gli Autori siano consapevoli delle aporie che vive, oggi, la riflessione educativa e – più in generale – la ricerca nelle scienze umane. Infatti, ogni qual volta l’oggetto e il soggetto della ricerca coincidono (l’uomo che studia l’uomo) si apre una spirale autoreferenziale da cui le scienze umane hanno cercato di uscire affidandosi troppo spesso a metodi mutuati da altri contesti, quali le scienze dure. Gli Autori, invece, non abdicano di fronte a questo rischio e tentano una soluzione. Nessun esperto, dunque, come nessun modello epistemologico e metodologico di tipo quantitativo alla ricerca di una certezza, ma un agire riflessivo come stile educativo e come stile organizzativo.
Un sguardo fenomenologico e storico insieme, alla ricerca del senso dell’agire educativo nel contesto della cooperativa Folias, in cui i due Autori operano.
«Il lavoro che abbiamo cercato di fare è quello di produrre pensiero dall’osservazione della prassi per poter, poi, immergerci nuovamente nella costruzione di pratiche e sui nostri presupposti educativi, abbiamo dovuto scegliere su quali giganti salire, sciogliendo e rimescolando le nostre radici culturali e politiche con le nostre attività concrete.» (p. 103)
Il testo è, perciò e a mio parere, una bella assunzione di responsabilità verso la prassi educativa, verso i giovani e gli adolescenti che ne godono e, anche, verso il mondo della ricerca pedagogica in genere. Un lavoro di empowerment capillare che, una volta svelatosi decisivo per non delegare il poter ad altri, si trasforma in auto- empowerment. Gli educatori, a ragione, si sono ripresi il potere di pensare, dire, scrivere nella convinzione che «un sistema umano può essere aiutato solo ad aiutarsi da sé». (Schein, 2001: 3)
Il modello con cui è stato costruito il percorso di analisi è una “triangolazione metodologica” prassi-teori-prassi che mette implicitamente sotto accusa qualsivoglia altro approccio esclusivamente deduttivo e esclusivamente induttivo.
Chissà se gli Autori, operando questa scelta, erano consapevoli di toccare un nervo scoperto delle scienze dell’educazione, artificiosamente e ingiustificatamente divise in discipline che, prese singolarmente, fanno ormai fatica a sopravvivere.
Scrive Frabboni della didattica come della Cenerentola che va al gran ballo dell’educazione a competere con matrigne e sorellastre, fra cui la pedagogia, giungendo alla conclusione che è ora che la didattica (intesa come pratica educativa) ritrovi la sua testa speculativa per troppi anni appannaggio della solo pedagogia (Frabboni, 2001). Ebbene, il percorso metodologico è il medesimo: prassi-teoria-prassi.
Che altro senso può avere la riflessione, e financo la speculazione, educativa se non una ricaduta nell’agire pratico? «Un’educazione, dunque, non neutra e asettica, ma un’idea del lavoro sociale ed educativo che, per un verso, incontra la dimensione politica e, per l’altro, incontra le passioni e la dimensione emozionale.» (p. 105)
Mi sento di consigliare la lettura di questo volume sia agli educatori, cui è esplicitamente rivolto, sia ai ricercatori e ai “professionisti” della ricerca educativa che vi possono ritrovare quella schiettezza di azione e di pensiero che si può perdere pensando che “educare” sia solo uno stile di pensiero. Lo consiglierei anche a docenti e maestri che, fra le pagine del capitolo La grammatica del linguaggio educativo, possono ritrovare la passione, lo scherzo, il divertimento e l’impegno delle mirabili pagine rodariane della Grammatica della fantasia, troppo presto dimenticate proprio da quegli insegnati che di grammatica si occupano.
E certamente i due volumi sono accomunati dal senso etico-politico dell’agire educativo, in entrambi i casi radicato nell’azione quotidiana con e per i ragazzi: «non sono parole: sono riflessioni che nascono da una pratica di vita scolastica, da una lotta politico-culturale, da un impegno e da una sperimentazione di anni.» (Rodari, 2009 : 182)
Scriveva Gianni Rodari: «“tutti gli usi della parola a tutti” mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo.» (Rodari, 2009 : 14)
Educare è emanciparsi ed aiutare gli altri a farlo, è calcare «lo stesso terreno della politica, intesa come presa in carico collettiva e attiva del proprio futuro.» (p. 108)
Questa la cornice entro cui si snodano le tante proposte, riflessioni, esempi maturate all’interno del gruppo di lavoro con una metodologia di osservazione riflessiva che, con il tempo, è diventata un modo per auto-educarsi e per rispondere alle sollecitazioni di un lavoro complesso che può essere affrontato solo attivando una conversazione riflessiva con una situazione unica e incerta, trovando via via nuove soluzioni a nuovi problemi (Schön, 1983).
L’analisi li ha condotti a sintetizzare i risultati in quattro punti fondamentali (p. 119):
- il lavoro educativo è un lavoro eminentemente relazionale; la dimensione tecnica può essere presente ma non è decisiva […];
- la centralità delle persona e la sospensione del giudizio sono bussole che ci guidano nel lavoro educativo […];
- il lavoro educativo richiede una pratica riflessiva su di sé, sull’altro e sulla relazione […];
- il lavoro educativo si deve inserire sempre all’interno di un lavoro di comunità […].
Solo il primo punto lascia aperto qualche dubbio. Infatti, in tutto il volume la dimensione e l’azione “tecnica” è interpretata come disumanizzante della relazione, come vincolo più che come risorsa. Mi piacerebbe, invece, poter pensare ad un agire tecnico in senso classico: ad un fare con arte, alla tecnica come ad un insieme di regole dettate dall’esperienza e dallo studio atte a guidare un’attività umana. Diversamente, infatti, dobbiamo credere che educare è una vocazione e non una professione che, come tale, si può anche imparare. Il rischio è, allora, quello di cedere ancora all’idea che si diventa docenti, educatori, formatori solo per passione e che questa possa bastare a sopperire carenze professionali e formative. L’Italia, purtroppo, ha sofferto e continua a soffrire di questa impostazione anti-tecnologica dell’educazione che non si è dimostrata, nel tempo, strumento di libertà ma, al contrario, insipienza professionale capace solo di perpetrare ingiustizie ed impedire la mobilità sociale.
La tecnica, come sostegno al processo educativo, è una garanzia di trasferibilità del sapere stesso e su di essa ogni cultura professionale ha costruito la propria identità sociale e culturale che, oggi – purtroppo – manca drammaticamente agli educatori e all’educazione.
Ancora un passo avanti, dunque, con l’augurio agli Autori di poter proseguire il loro ottimo lavoro includendovi un altro elemento di riflessione, discussione e crescita.
Bibliografia*
Frabboni F., Manuale di didattica generale, Laterza, Roma-Bari 2001,
Schein E. H., La consulenza di processo, Cortina, Milano 2001
Schön D., Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale, Dedalo, Bari, 1993
Rodari G., Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie, Einaudi, Torino 2009
*I testi sono citati nell’edizione consultata e non in quella originale.